Un giorno solo, tutta la vita
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Un giorno solo, tutta la vita

  1. 350 pagine
  2. Italian
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Un giorno solo, tutta la vita

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Informazioni sul libro

Questa storia inizia a New York nel 2000, quando, alle nozze del nipote, Josef Kohn scorge tra gli invitati una donna dall'aria familiare: gli occhi azzurro ghiaccio, l'ombra di un tatuaggio sotto la manica dell'abito. Rischiando di essere scortese, le chiede di mostrargli il braccio. La certezza è lì, sulla pelle: sei numeri blu, accanto a un piccolo neo che lui non ha mai dimenticato. E allora le dice: «Lenka, sono io. Josef. Tuo marito».
Perché questa storia, in realtà, inizia a Praga nel 1938, quando Lenka e Josef sono due studenti. Ebrei, si conoscono poco prima dell'occupazione nazista, si innamorano, diventano marito e moglie per lo spazio di una notte. Il giorno dopo, al momento di fuggire negli Stati Uniti, Lenka decide di restare, perché non ci sono i visti per la sua famiglia. Si separano con la promessa di ricongiungersi al più presto, ma Lenka finisce in un campo di concentramento.
In mezzo all'orrore, dipinge: l'unico modo per dare colore a ciò che è privato di luce, per dare forma a ciò che non si può descrivere. Mentre Josef, in America, si specializza in ostetricia; solo aiutare a dare la vita gli impedisce di essere trascinato a fondo dalle voci di chi non c'è più.
Quando ormai si crederanno perduti per sempre, ci sarà un nuovo inizio per entrambi. Ed entrambi impareranno che l'amore può anche essere gratitudine per chi ti ha salvato la vita, affinità tra anime alla deriva, rispetto di silenzi carichi di dolore. E di confini da non valicare, perché al di là si celano – intatti e ostinati – i ricordi di una passione assoluta, di quelle che basta un istante per accendere, ma non è sufficiente una vita per cancellare.
Questa storia inizia e non ha mai fine. Come i grandi amori.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858505854

1

New York
2000
Per l’occasione si vestì senza fretta, il completo ben stirato e le scarpe lustre. Nel farsi la barba rivolse accuratamente allo specchio ciascuna guancia, accertandosi di non aver tralasciato neanche un pelo. Nel pomeriggio aveva addirittura comprato una brillantina all’aroma di limone, per ravviarsi bene i pochi riccioli rimasti.
Era diventato nonno un’unica volta, e attendeva con impazienza il matrimonio di suo nipote ormai da mesi. Sebbene non avesse avuto modo di incontrare spesso la sposa, gli era piaciuta subito: era amabile e sveglia, pronta al riso, e dotata di una certa qual grazia europea. Lui non aveva capito quanto fosse rara quella caratteristica finché non si era trovato là seduto a fissarla, con suo nipote che le stringeva la mano.
Persino ora, nell’entrare al ristorante per la cena della prova generale, alla vista della ragazza si sentì come risucchiato in un’altra epoca. Notò che qualcuno tra gli altri ospiti si sfiorava inavvertitamente la gola perché il collo di lei, che spuntava dall’abito di velluto, era così lungo e bello da far pensare che l’avessero ritagliato da un quadro di Klimt. I capelli erano raccolti in un morbido chignon e adornati di un gioiello: due farfalline dalle antenne luccicanti, ben visibili sopra l’orecchio sinistro, che davano l’impressione di aver appena posato le ali sui suoi capelli rossi.
Suo nipote invece aveva ereditato i suoi ricci scuri e ribelli. In totale contrasto con la promessa sposa, che sembrava pattinare per la stanza, lui si agitava nervosissimo; aveva l’aria di chi si trova molto più a suo agio con in mano un libro, anziché una flûte di champagne. Tuttavia si intuiva una disinvoltura, un equilibrio che li faceva sembrare in perfetta sintonia. Erano entrambi eleganti e colti americani di seconda generazione; nelle loro voci non restava la benché minima traccia dell’accento che aveva venato la parlata dei nonni. La domenica mattina l’annuncio delle nozze sul «New York Times» avrebbe recitato:
Ieri sera, nella Rainbow Room di Manhattan, Eleanor Tanz ha sposato Jason Baum. Officiava il rito il rabbino Stephen Schwartz. La sposa, ventisei anni, si è laureata all’Amherst College e al momento è impiegata nel reparto oggetti d’arredo della casa d’aste Christie’s. Il padre della sposa, dott. Jeremy Tanz, è oncologo presso l’ospedale Memorial Sloan-Kettering di Manhattan. La madre, Elisa Tanz, è terapista occupazionale nelle scuole secondarie della municipalità. Lo sposo, ventotto anni, laureato alla Brown University e alla facoltà di legge di Yale, è attualmente socio dello studio Cahill Gordon & Reindel. Il padre, Benjamin Baum, ha esercitato fino a poco tempo fa la professione legale presso lo studio Cravath, Swaine & Moore di New York. La madre dello sposo, Rebecca Baum, ora in pensione, è stata insegnante elementare. Gli sposi si sono conosciuti tramite amici comuni.
 
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Al tavolo principale, i due nonni ancora viventi di Jason ed Eleanor furono presentati l’uno all’altra per la prima volta. Anche in questa circostanza il nonno dello sposo si sentì travolto dall’immagine della donna che gli stava di fronte: decenni di distanza la separavano dalla nipote, ma aveva un aspetto familiare. Lui lo percepì immediatamente, dall’istante in cui la guardò negli occhi.
«Io l’ho già vista» riuscì infine a dire, benché avesse ormai la sensazione di parlare a un fantasma, non a una persona appena incontrata. Il suo corpo reagiva in una maniera viscerale che non comprendeva affatto; si rammaricò di aver bevuto un secondo bicchiere. Gli si rivoltava lo stomaco. Aveva il fiato corto.
«Temo che si sbagli» disse garbatamente la donna. Non voleva apparire scortese, ma anche lei aveva atteso con ansia per mesi le nozze della nipote, e non voleva essere distratta dai festeggiamenti della serata. Mentre osservava la ragazza che fendeva la folla, le molte guance che le si rivolgevano per un bacio e le buste premute in mano sua e di Jason, dovette darsi un pizzicotto: sì, era tutto vero, e lei era ancora viva per vederlo.
Ma quel vecchio lì accanto non si arrendeva.
«Sono abbastanza certo di averla già vista da qualche parte» ripeté.
Lei si voltò e a quel punto gli mostrò anche più chiaramente il viso. La carnagione di piuma. I capelli d’argento. Gli occhi azzurro ghiaccio.
Ma fu l’ombra di un qualcosa di bluastro, sotto il tessuto trasparente della manica, a fargli correre un brivido nelle vene stanche.
«La sua manica…» Il dito che si tese a sfiorare la seta tremava.
Lei fece una smorfia quando lui le toccò il polso, il disagio ben visibile in volto.
«La sua manica, posso?» Si stava comportando in maniera maleducata, e lo sapeva.
Lei lo guardò dritto in faccia.
«Potrei vedere il suo braccio?» ripeté lui. «Per favore.» In tono quasi disperato, stavolta.
Lei ormai lo fissava, gli occhi piantati negli occhi. Come in trance, si tirò su la manica. Sull’avambraccio, accanto a un piccolo neo bruno, c’erano sei numeri tatuati.
«Adesso ti ricordi di me?» chiese lui, tremante.
Lei lo squadrò di nuovo, come rivestendo di carne e ossa uno spettro.
«Lenka, sono io» disse lui. «Josef. Tuo marito.»

2

New York
2000
La sera prima aveva tirato fuori il disegno dal tubo di cartone e lo aveva disteso come un’antica carta geografica. Per oltre sessant’anni lo aveva portato con sé ovunque andasse: prima nascosto in una vecchia valigia, poi arrotolato dentro un tubo metallico sepolto sotto le assi del pavimento, e infine pigiato dietro parecchi scatoloni in un ripostiglio stracolmo.
Il dipinto era un insieme di sottili pennellate rosse e nere che emanavano energia cinetica: l’autore aveva fatto di tutto per catturare la scena il più in fretta possibile.
Lei l’aveva sempre considerato troppo sacro per metterlo in mostra, come se la sola esposizione alla luce e all’aria o, peggio ancora, agli sguardi degli ospiti, fosse già troppo per quella superficie delicata. Quindi il disegno restava al sicuro in una scatola a chiusura stagna, proprio come i pensieri di Lenka. Ma una sera di poche settimane prima, mentre era già a letto, aveva deciso che quello sarebbe stato il suo dono di nozze per la nipote e lo sposo.
Lenka
Quando ghiaccia, la Moldava assume le tonalità di una conchiglia d’ostrica. Da piccola osservavo gli uomini che liberavano le zampe dei cigni intrappolati nella corrente gelata rompendo il ghiaccio con le piccozze.
Mi chiamo Lenka Josefina Maizel, primogenita di un vetraio di Praga. Abitavo con la mia famiglia sul lungofiume Smetana, in un appartamento un po’ sghembo, con una parete tutta a finestre che davano sul fiume e sul ponte. Dentro c’erano tappezzerie di velluto rosso, specchi con la cornice dorata, un salotto con mobili intarsiati e una bellissima mamma che profumava di mughetto tutto l’anno. Ancora oggi ripenso alla mia infanzia come a un sogno: palacinke con la marmellata di albicocche, cioccolata calda e pattinaggio sulla Moldava ghiacciata, i capelli infilati sotto un copricapo di volpe quando nevicava.
Vedevamo la nostra immagine riflessa ovunque: sugli specchi, alle finestre, giù al fiume e sulle curve trasparenti della vetreria di mio padre. La mamma aveva una credenza speciale ricolma di cristalli per tutte le occasioni. C’erano flûte dalle delicate cesellature floreali, particolarissimi calici da vino con l’orlo dorato e lo stelo smerigliato, addirittura bicchieri da acqua color rubino che mandavano riflessi rosati se visti in controluce.
Mio padre amava la bellezza e le cose belle, e credeva che la sua professione creasse sia l’una sia le altre tramite un’alchimia perfetta. Per plasmare il vetro, la sabbia e il quarzo da soli non bastavano: servivano anche il fuoco e l’alito. «Chi soffia il vetro è capace di amare e di dare la vita» disse una volta a cena, in una stanza piena di ospiti. «Quando berrete da un calice, pensate alle labbra che hanno creato quella forma delicata ed elegante da cui ora sorseggiate il vino, e pensate a quanti calici difettosi sono stati mandati in frantumi e poi riciclati per fabbricare un perfetto servizio da dodici.»
Si mise a ruotare il calice sotto la luce, davanti agli ospiti stregati, ma quella sera non aveva intenzione di vendere nulla, né di dare spettacolo. Amava sinceramente il talento artigiano di creare un oggetto solido eppure fragile, trasparente ma in grado di riflettere i colori; vedeva la bellezza nei vetri più lisci e in quelli increspati da lievi onde.
Il suo lavoro gli aveva fatto girare tutta l’Europa, ma ogni volta tornava a casa così come ne era uscito: la camicia bianca fresca e pulita, il collo profumato di cedro e chiodi di garofano.
«Miláčku» diceva, nell’afferrare mia madre alla vita con le sue manone. «Tesoro.»
«Lásko moje» rispondeva lei prima che le labbra si incontrassero. «Amor mio.»
Anche dopo dieci anni di matrimonio, lui ne subiva ancora il fascino. Spesso tornava a casa con regali comprati solo perché gli ricordavano lei: accanto al bicchiere di mia madre poteva far capolino la miniatura cloisonné di un uccello dal piumaggio intricato, oppure spuntava sul suo guanciale una scatolina rossa con dentro un piccolo medaglione di perline. Il regalo che preferivo era una radio di legno, con un variopinto sole raggiante proprio al centro, con cui papà aveva sorpreso la mamma al ritorno da un viaggio a Vienna.
Dovessi chiudere gli occhi e riandare ai miei primi cinque anni di vita, vedrei la mano di mio padre sulla manopola di quella radio, i ciuffetti di peli neri sulle dita che regolano la sintonia alla ricerca delle poche stazioni di jazz, sonorità esotica e stimolante che nel 1924 cominciava a sentirsi anche da noi.
E lo vedo che si volta e ci sorride, il braccio teso verso di noi; risento il calore della sua guancia mentre mi prende in braccio e io gli avvolgo le gambine intorno alla vita, mentre con l’altra mano lui fa fare una giravolta alla mamma.
Sento l’odore di vin brûlé che sale da tazze eleganti in una fredda sera di gennaio. All’esterno, le alte finestre di casa nostra sono coperte di ghiaccio, ma dentro c’è un bel calduccio: le lunghe dita di luce arancione delle candele guizzano sui volti dei signori e delle signore che affollano il salotto per ascoltare il quartetto d’archi che papà ha invitato a suonare per la serata; la mamma è al centro, un braccio candido e snello teso a prendere un salatino. Un bracciale nuovo al polso. Un bacio di mio padre. E io che sbircio dalla mia camera, voyeuse del loro fascino, della loro disinvoltura.
Ci sono anche serate tranquille. Noi tre stretti intorno a un tavolino da gioco. Chopin sul grammofono, la mamma che apre le carte a ventaglio per farle vedere solo a me, un sorriso che le increspa le labbra; mio padre che finge di accigliarsi mentre la lascia vincere.
La sera la mamma mi rimbocca le coperte e mi dice di chiudere gli occhi. «Immagina il colore dell’acqua» mi sussurra in un orecchio. Un’altra volta mi suggerisce il colore del ghiaccio, un’altra ancora quello della neve; mi addormento pensando a quelle ombre che mutano e si trasformano con la luce. Imparo a immaginare diverse gradazioni dell’azzurro, venature color lavanda o un pallidissimo pulviscolo bianco. E, così facendo, nei miei sogni mette radici il mistero del cambiamento.
Lucie arrivò un giorno con una lettera in mano. La porse a mio padre, che la lesse alla mamma a voce alta. «La ragazza non ha esperienza come tata» aveva scritto il suo collega «ma con i bambini ha un talento naturale. Puoi fidarti a occhi chiusi.»
Il mio primo ricordo di Lucie è che non dimostrava neanche lontanamente i suoi diciotto anni. Quasi una bambina, il corpo sembrava perdersi in un cappotto lungo quanto il vestito. Ma appena si chinò per salutarmi restai subito colpita dal calore che sprigionava la sua mano tesa. Ogni mattina, al suo arrivo, portava con sé un lieve profumo di cannella e noce moscata, come se l’avessero appena sfornata e poi consegnata ancora calda e fragrante, un pacchetto delizioso che era impossibile respingere.
Lucie non era una gran bellezza. Faceva pensare al righello di un architetto, tutta linee rette e spigoli. Gli zigomi duri parevano scolpiti con un cesello, gli occhi erano grandi e neri, la bocca minuscola e le labbra sottili. Ma, come la ninfa di una foresta oscura, uscita dalle pagine di un’antica fiaba, era dotata di una magia tutta sua. Lavorava da noi solo da qualche giorno, ma aveva già stregato tutti. Quando raccontava una storia, faceva svolazzare le dita in aria come un’arpista che pizzichi corde immaginarie. Quando sbrigava le normali faccende, canticchiava canzoni che aveva imparato da sua madre.
I miei genitori non la trattarono mai come una domestica, ma come una della famiglia. Consumava i pasti con noi, seduta al grande tavolo da pranzo sempre troppo carico. E, benché non seguissimo con gran rigore i precetti religiosi sul cibo, se mangiavamo un piatto di carne non bevevamo latte. La prima settimana Lucie fece l’errore di versarmene un bicchiere per accompagnare il gulasch di manzo. Probabilmente mia madre le spiegò che noi non mischiavamo le due cose, perché non ricordo altri sbagli da parte sua.
Con il suo arrivo il mio mondo si fece meno protetto e senza dubbio più divertente. Per esempio mi insegnava a catturare le raganelle o a pescare da un ponte sulla Moldava. Sapeva raccontare storie con grande maestria, prendendo spunto dalla gente che incontravamo durante la giornata per inventare tutta una serie di personaggi. La sera, quando era ora di andare a letto, l’omino che ci aveva venduto il gelato vicino all’orologio nella piazza della Città Vecchia sarebbe riapparso nei panni di un mago; la signora da cui avevamo comprato le mele al mercato poteva poi trasformarsi in una vecchia principessa, mai guarita da una delusione d’amore.
Spesso mi sono chiesta se la prima ad accorgersi del mio talento per il disegno sia stata Lucie o mia madre. Nei miei ricordi fu la mamma a regalarmi il primo assortimento di matite colorate, ma fu la mia tata, più tardi, a comprarmi le prime tempere.
Tuttavia so per certo che fu Lucie che iniziò a portarmi al parco con il blocco da disegno e l’astuccio delle matite. Di solito stendeva una coperta vicino al laghetto in cui i bambini facevano navigare le barchette di carta e poi si sdraiava a guardare le nuvole, mentre io riempivo fogli su fogli di disegni.
Al principio disegnavo animaletti: conigli, scoiattoli, un pettirosso. Ma presto provai a ritrarre Lucie, poi un signore che leggeva il giornale; quindi mi cimentai con soggetti più ambiziosi, tipo una mamma che spingeva una carrozzina. Nessuno di questi primi schizzi valeva granché ma, come qualsiasi bambino che impari a disegnare, provando e riprovando migliorai. E alla fine gli occhi presero a comunicare con la mano.
Dopo ore passate fuori, Lucie arrotolava i miei fogli per portarli a casa. La mamma ci chiedeva come avevamo passato la giornata, quindi la mia tata sceglieva i disegni che le piacevano di più per appenderli in cucina. La mamma osservava con attenzione le mie opere e poi mi prendeva tra le braccia. Avevo forse sei anni, quando la sentii dire per la prima volta: «Lenka, alla tua età ero proprio come te, sempre con una matita e un pezzo di carta in mano». Era la prima volta che faceva un paragone tra di noi, e posso ben dire che, da bambina che i capelli scuri e gli occhi chiari rendevano molto più simile al padre che all’elegante mamma, l’esaltante idea che lei e io avessimo qualcosa in comune mi colpì dritto al cuore.
Il primo inverno che Lucie passò con noi, mia madre decise di farle un regalo in segno di gratitudine. Ricordo che ne discusse con papà: «Fai come ritieni più opportuno, miláčku» rispose lui, distratto dal giornale. Quando si trattava di regali le lasciava carta bianca, ma lei sentiva di dovergli sempre chiedere il permesso prima di prendere qualsiasi decisione. Alla fine le fece confezionare una mantella di lana blu con le rifiniture in velluto; ricordo ancora la faccia di Lucie nell’aprire il pacchetto: all’inizio era stata restia ad accettarlo, quasi imbarazzata da tanta generosità.
«Ne riceverà una anche Lenka» disse la mamma con dolcezza. «Che bella coppia sarete, quando andrete a pattinare sulla Moldava.»
Quella sera la mamma mi trovò alla finestra, a osservare Lucie che andava a prendere il tram.
«Mi sa che domani dovrò ordinarti una mantellina» disse sfiorandomi la spalla.
Sorridemmo tutte e due, mentre la guardavamo allontanarsi con eleganza nella notte; dava l’impressione di essere più alta.
Benché in casa la melodia dei vetri tintinnanti e dei colori dei miei disegni non tacesse mai, aleggiava anche una tristezza palpabile, seppur silenziosa. Ogni sera, appena Lucie se ne andava e la cuoca aveva preparato la sua borsa, lo spazioso appartamento in cui vivevamo sembrava d’improvviso troppo grande per una famigliola di tre persone. La stanza in più accanto alla mia si riempì presto di scatole, ceste e pile di vecchi libri, e anche il mio lettino e la carrozzina finirono muti in un angolo, coperti da un lungo lenzuolo bianco: due vecchi fantasmi dimenticati e fuori luogo.
Ricordo giorni e giorni, forse settimane intere, in cui vedevo solo Lucie. La mamma consumava tutti i pasti in camera e, quando si faceva vedere, aveva il viso gonfio e chiazzato dai segni evidenti del pianto. Rincasando, papà si informava discretamente dalla cameriera; dava un’occhiata al vassoio intatto davanti alla porta – piattino e tazza di tè ormai freddo – e cercava disperatamente di riportare la luce in quella casa oscura.
Lucie mi diceva di non fa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. UN GIORNO SOLO, TUTTA LA VITA
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43
  47. 44
  48. 45
  49. 46
  50. 47
  51. 48
  52. 49
  53. 50
  54. 51
  55. 52
  56. 53
  57. 54
  58. 55
  59. 56
  60. 57
  61. 58
  62. EPILOGO
  63. Nota dell’autrice
  64. Copyright