L'angelo della mia vita
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L'angelo della mia vita

Piccoli miracoli intorno a me

  1. 192 pagine
  2. Italian
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L'angelo della mia vita

Piccoli miracoli intorno a me

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Informazioni sul libro

Perso il figlio Christian in un tragico incidente d'auto nel 1991, Dalila Di Lazzaro non si è mai arresa alla sua prematura scomparsa. Ma la sua forza e il suo amore ostinati per il figlio appena ventiduenne sono stati presto ricompensati, poiché lo stesso Christian ha cominciato a inviarle segni della sua presenza, a partire da una lettera, scritta da una medium, in cui assicurava alla mamma che le sarebbe stato sempre accanto, come uno dei suoi angeli.
Per Dalila ha così avuto inizio una nuova vita, o meglio la vita di prima si è rivelata in tutta la sua pienezza, mostrando la ricchezza di quelle presenze che riempiono l'esistenza di chiunque abbia il cuore e gli occhi aperti per scorgere una dimensione "oltre" la normalità della vita terrena; una dimensione in cui non si è mai soli, in cui ognuno è sempre accompagnato dai propri angeli, custodi fedeli in ogni prova e difficoltà della vita.

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788858502433
Page 71 PARTE SECONDA

Capitolo I

Dimenticare, ricordare, vivere
Ritorno nella mansarda e prendo un grosso cuscino dal salone per essere più comoda. Lo metto sul materasso di velluto matelassé perché ho capito che la notte sarà ancora lunga. Voglio continuare ad aprire le mie valigie. Non ho sonno. Ne apro una dove ci sono tutti i miei libri più cari e il primo che mi trovo in mano è Poesie dimenticate di Pier Paolo Pasolini, friulano come me. Apro una pagina a caso e leggo: «Quello che si dimentica giova più di quello che si ricorda» scrive Pasolini in una sua bellissima poesia. È una mia massima.
Il destino è la forza che ostacola la nostra esistenza, facendo naufragare le cose nei momenti peggiori. Eppure ciò che chiamiamo destino non è altro, il più delle volte, che la conseguenza delle nostre stesse azioni. Ogni volta che agiamo inneschiamo una catena di eventi a cui resteremo indissolubilmente legati.
Quanto più cerchiamo di fuggire questi legami, tanto più essi ci seguiranno: non solo non sappiamo reciderli, ma ogni nostro gesto ci vincola sempre più a loro. Per esempio, se cerchi l’uomo della tua vita, dopo svariate delusioni sentimentali puoi capire che c’è qualcosa dentro di te che non va, quindi prima devi lavorare su te stessa e allora vedrai che le cose cambieranno, nella tua vita e anche sul piano delle tue relazioni amorose. E se anche non trovassi l’uomo della tua vita, staresti comunque meglio con te stessa!
L’elemento chiave è il tempo che ci rincorre: vogliamo sempre manipolare il passato, il presente e forse anche il futuro, cercando di trarne un vantaggio e, invece, dovremmo vivere intensamente solo il presente, annullando il passato e il futuro, negando perciò il concetto stesso del destino.
Credo che noi viviamo in un mondo diretto da una Intelligenza Suprema e che quindi nulla accade per caso. Ecco perché non serve pensare né a ciò che è già accaduto né a ciò che ci accadrà, ma piuttosto elevarci per entrare in sintonia con questo Spirito guida. Solo così le idee giuste verranno a bussare alla nostra porta.
Per raggiungere questo fine, è importante avere un comportamento pacato, riflessivo e allora vedrai che ti si aprirà un altro mondo. «Le grandi fatiche vivono all’interno di grandi riposi» dice Alda Merini nel libro che ho appena tirato fuori dal mio bagaglio di ricordi.
Abbiamo abbastanza pace in noi stessi e attorno a noi? La risposta mi sembra scontata: no. Per questo, dobbiamo tutti aspirare alla pace: prima dentro di noi, poi nel mondo. Ma la pace non si può raggiungere con un’azione continua, come se bastasse semplicemente “fare”: essere positivi, a volte, può anche voler dire fermarsi a pensare, riflettere, ascoltare prima di parlare e di agire.
Gli atti di generosità, poi, sono sempre una grandissima fonte d’ispirazione: sperimenti la gioia del donare e dai il tuo contributo a una catena di bene in continua espansione. Anche se magari soltanto una persona se ne renderà conto... Oggi c’è la tendenza a fregare il prossimo e chiudersi agli altri: non c’è niente di più sbagliato per sfruttare ciò che la vita ti offre. Ma ecco che questa cura reca in sé anche il suo bugiardino con la sua bella controindicazione: la tua positività e la tua generosità non devono farti dimenticare di fare attenzione. Nella vita è infatti insito il dolore e ogni giorno è una conquista. Da ogni contrarietà, puoi trarre la forza per andare avanti.
Senza dimenticarsi di ascoltare: può sembrare paradossale, ma siamo in grado di ispirare gli altri molto più quando siamo disposti ad ascoltare che quando diamo dei consigli.
Imparando a riconoscere la nostra vera essenza trascendente, noi potremmo solo trasmettere amore, che è l’energia che muove il mondo. Se al contrario siamo ciechi, sordi, distratti, egoisti agiremo in modo insensato facendoci guidare dalla paura e dall’egoismo, chiudendoci in noi stessi. Teniamo sempre la nostra porta aperta al prossimo, ascoltiamo gli altri, ma valutando sempre con il nostro istinto. L’istinto è quello che ci salva. Io so chi sono e non ho bisogno che siano gli altri a dirmi chi sono io. Solo così non permetteremo agli eventi di influenzarci e saremo noi stessi arbitri e padroni della nostra vita. Così, e solo così, potremo cambiare le cose perché staremo seguendo la strada giusta e sapremo imparare dai nostri stessi errori. Ecco perché nascono questi istinti e intuizioni primordiali che poi vengono tramutati in sogni e in eventi straordinari.
Amore per la natura
La mia mente si affolla di mille pensieri in questa notte di amarcord: spostando e impilando i miei libri più cari, spunta un album di fotografie della mia casa di Roma con il suo terrazzo pieno di piante e fiori. Perché le nostre città hanno così poco verde? Spesso vado a cercare dei programmi sulle tv satellitari per vedere come sta il nostro pianeta e ogni volta sento delle notizie sconcertanti: ci sono intere specie di animali che si stanno estinguendo o che sono già sparite dalla faccia della Terra e questo è un peccato, un dolore. La mancanza di rispetto nei confronti della natura si riversa su di noi, saremo noi a pagarne lo scotto, per cui dovremo educare anche a scuola i bimbi a risparmiare acqua, energia, a non inquinare e ad avere un sacro rispetto per i giardini e il verde pubblico.
In un servizio in tv hanno detto che a Göteborg, in Svezia, ogni abitante ha una media di 175 metri quadrati di verde. Però loro non hanno il sole o ne hanno poco, ecco l’incongruità del mondo: loro vivono senza luce e sanno riempire di verde le loro esistenze. Come è vero che, dando per scontate le cose, è allora che si comincia a perderle! Per me è una sofferenza stare lontana dalla natura, ma le città purtroppo sono degli agglomerati cementificati dove, invece di alleggerirci e di semplificarci la vita, ce la complichiamo e ci riempiamo di tante cose inutili. Siamo come in gabbia e l’assurdo è che la gabbia ce la siamo costruita da soli. «Ho vissuto abbastanza per capire di poter davvero fare a meno di quasi tutto ciò che esiste. È più vicino a Dio colui che necessita del minor numero di cose.» L’ha detto Socrate ma lo penso anch’io.
Se esistesse una legge che ci obbligasse ad avere in ogni casa almeno cento metri quadrati di giardino, potremmo vedere l’anima di una persona da come tiene il verde, da come coltiva le piante, le cura, le accudisce. Avessimo più giardini, ci sarebbero più lucciole, che ormai sono quasi un ricordo. I bambini non le conoscono, invece nei ricordi delle mie estati di fanciulla, mi vedo avvolta da nuvolette luminose che mi davano una gioia immensa. Il mio compaesano Pasolini amava le lucciole e le vedeva come simboli di una forza che la campagna aveva e che poteva svanire.
Sforziamoci di essere ricettivi, aperti al mondo e guidati dall’istinto: il terzo millennio dovrebbe diventare l’era della coscienza e della consapevolezza. Allora, la pace che cerchiamo sarà a portata di mano. Ricordandosi però anche di prendere la vita con molta ironia e autoironia. «Sta piovendo / credo che mi preparerò / un tè», scrive Jack Kerouac nel Libro degli haiku, in una delle pagine a me più care. La interpreto così: se qualcosa va male, non disperarti ma prenditi cura di te stesso. Casomai, poi, quando ti sarai rinfrancato e fortificato, potrai buttarti di nuovo sotto il diluvio.

Capitolo II

Medici e malasanità
Ecco qua, come sempre: basta che prenda una posizione sbagliata e il dolore si riacutizza. Spengo la luce e resto distesa nella mansarda buia, con le mie valigie aperte attorno a me, sperando di assopirmi. Ma il mio male non mi dà pace. Solo quando nasceranno i centri per la cura del dolore cronico, noi ammalati avremo qualche speranza. In questi centri, finalmente, il nostro male sarà affrontato nella sua multidisciplinarietà, cioè con una sinergia tra diversi specialisti, per cui alla diagnosi seguirà una cura specifica e mirata in varie direzioni, dal neurologico all’ortopedico, dal chirurgico al fisiatrico. Si chiameranno «Unità di medicina del dolore» e dovranno essere aperte in ogni ospedale. In Italia tantissimi anestesisti curano il dolore cronico ma non sono riconosciuti: in queste strutture, che potrebbero essere istituite per legge, avrebbero finalmente un riconoscimento. Solo così la battaglia contro il dolore cronico potrà essere vinta.
Io invece, accogliendo ogni volta nuovi dottori sperando che fossero dei salvatori, sono stata protagonista di vicende singolari, a volte comiche, a volte tragiche. Se apro un capitolo su questo tema è per chiedere più umanità e meno cinismo da parte di questi signori dottori che così facendo screditano la categoria. Categoria nella quale, devo riconoscerlo, rientrano però anche tanti bravi e capaci professionisti. È forse lo stare a stretto contatto con la morte che a volte li rende così cinici e insensibili?
Il primo episodio che vi racconto, forse il più eclatante, capitò quando mi trovavo quasi immobile a causa della lesione al collo. Ero stata colpita da un altro disturbo fastidioso: mi ero infatti ammalata di cistite. All’epoca non mi sentivo di avere nessuno accanto a me, preferivo restare single, e quindi affrontavo da sola, con l’appoggio di pochi fidati amici, un calvario di visite, terapie e cure che mi stavano sfiancando.
Pensando allo sforzo che mi costava per arrivarci, un giorno raggiunsi la clinica che mi era stata raccomandata per farmi visitare da un medico. Il quale, appena mi vide, nonostante conoscesse la mia situazione complessiva, disse che la mia cistite poteva essere curata solo con un’operazione da eseguirsi con estrema urgenza per asportare quanto, a suo dire, era causa della patologia maligna. Non avevo mai sentito niente del genere e mi insospettii: temevo di essere finita in uno dei burroni dove sprofonda la sanità italiana. Di lì a poco, i miei sospetti si trasformarono in certezze. Mentre stavo attendendo di essere dimessa con la diagnosi, sento due persone parlare dietro un divisorio. Il dialogo aveva questo tenore: «Aho’, quanto la facciamo pagare questa qui? Quindici basteranno?». «Ma no, che scherzi? Almeno venti!» «Eh no, venti non sono abbastanza: facciamo venticinque e non se ne parla più. La tratterremo a lungo in clinica, facendole fare delle analisi in più.» Parlavano di milioni. «Quella è una da pela’» aggiunge l’altro. Mi accorsi che parlavano di me: riconobbi la voce del chirurgo che mi aveva appena visitata. Non ci ho visto più: benché a fatica, mi sono alzata e sono uscita dal mio separé affrontandoli e dicendogliene di tutti i colori: «Mascalzoni! Farabutti! È questo il rispetto che avete per le persone?». E me ne sono andata, pensando a quanta gente era già stata rovinata da loro. Io avevo avuto la fortuna di ascoltare questa orrenda conversazione, mentre chissà quanti altri si erano fidati e, forse, ne portavano ancora le conseguenze, magari indotti a credere loro per la paura suscitata da una diagnosi tanto preoccupante quanto sbagliata.
Visite a domicilio
Rientrata a casa, sempre distesa a letto e, per di più, con la mia cistite che mi affliggeva, mi rivolgo a un’amica che mi parla di un altro medico, secondo lei molto bravo. Il dottore accetta di visitarmi a domicilio. Quando arriva, resto sorpresa dalla sua bellezza: è un George Clooney con gli occhi blu, molto elegante, davvero un bell’uomo. È molto gentile, mi visita e mi prescrive alcuni farmaci che mi fanno subito sentire meglio. Gli racconto l’episodio della clinica e lui, esaminando i miei referti clinici, resta di stucco, al punto che chiama il chirurgo davanti a me al telefono e lo ammonisce sulla sua scarsa professionalità: «Da quando in qua si opera quando c’è un’infiammazione? Vergogna! Queste sono cose che non si fanno, caro collega. Hai violato i tuoi doveri professionali, è molto grave». Rimango davvero colpita: mi sembra una persona seria. Raramente un medico si espone criticando le malefatte di un collega.
Dopo un paio di visite, entriamo in confidenza e cominciamo a darci del tu. La terza volta arriva come sempre puntualissimo e noto che ostenta un atteggiamento più amichevole del solito. Infatti, con la scusa di auscultarmi, non solo si avvicina ma si siede accanto a me sul letto. Poi, con una voce dolce, quasi carezzevole, mi chiede: «Mi racconti che cosa ti è successo? Perché hai questo dolore alla schiena?». La sua domanda mi riempie di speranza: non capita spesso che un medico s’interessi al caso. Gli racconto tutto nei minimi dettagli, a cuore aperto. Lo faccio in modo appassionato quasi come se volessi gridargli: «Aiutami!». Vivevo nella speranza di trovare qualcuno che mi dicesse: «Io ti salverò! Io ci sono! Io voglio capire qualcosa!». Quindi ero molto sensibile a tutti coloro che mostravano attenzione verso il mio male. “Lui è uno che vuole capire, che tenta di capire” mi dicevo, invece gli altri dottori mi avevano delusa con frasi del tipo: «Non è possibile che una come lei stia a letto!». Sì, come se una bella faccia potesse immunizzare dal male! Invece questo medico sembrava diverso.
Ero completamente sdraiata sul letto, senza neanche il cuscino sotto la testa per rilassare la muscolatura del trapezio, perché era l’unica posizione che attenuava il dolore. Lui si avvicina sempre più, mentre io continuo a raccontargli tutta la mia odissea, dilungandomi in particolari per cercare di coinvolgerlo, di incuriosirlo: speravo in una sua intuizione. Lui mi ascolta e continua a guardarmi intensamente mentre si avvicina sempre più, poi, improvvisamente, si china e mi dà un bacio. Mi rendo conto di colpo che tutto il suo interesse per la mia malattia serviva forse a ottenere qualcos’altro. Smetto di parlare. Lui si ritrae e mi dice: «Scusami, scusami, non volevo...». Fra noi c’è un attimo di grande imbarazzo e, dentro di me, la delusione. Ma poi rifletto e penso: “Nella mia condizione, forse se lui s’innamora di me potrebbe essere coinvolto di più e aiutarmi a guarire”. L’amore può fare miracoli e io avrei fatto di tutto per stare meglio. Era la mia ossessione.
Pensavo che tutto finisse con il bacio, invece era solo l’inizio: al mio chirurgo scatta un minuto di follia e comincia a comportarsi come un matador nell’arena. Si sbottona la giacca e se la toglie in modo plateale, poi inscena una specie di spogliarello alla Nove settimane e mezzo per mostrarmi il suo corpo palestrato con il torace a tartaruga. Sto per scoppiargli a ridere in faccia, ma mi trattengo per non offenderlo. Non voglio nemmeno stare al gioco, quindi aspetto l’occasione buona per fermarlo. Intanto lui si stava dimenando come una soubrette, mettendo in campo una tecnica di seduzione che a me pareva prettamente femminile. Quando, ormai quasi desnudo, mi si lancia sul letto, gli dico: «Scusa, avrei un po’ di sete: mi puoi portare un po’ d’acqua?». Purtroppo, sembrava non stesse aspettando altro. Per nulla smontato dalla mia richiesta, mi dice con fare suadente: «Come la vuoi l’acqua? Adesso te la prendo io...». Va in cucina e ritorna con la bottiglia, tracanna un bel sorso e poi mi si avvicina, fa aderire le sue labbra alle mie e mi travasa l’acqua in bocca. Mi tocca deglutire per non soffocare ma sono disgustata, mi fa schifo quello che mi ha fatto. Sono sorpresa e stupita: a questo punto, mi rendo conto di avere a che fare con un pazzo. Lui intanto mi sussurra: «Ti piace bere dalle mie labbra, vero? Vuoi essere dissetata da me... Io spegnerò i tuoi ardori!». Poi comincia a baciarmi i piedi, a leccarli. Ma io soffro il solletico e gli dico di smettere. Allora cambia tattica, ma continua a fare il suo show, come se fosse davanti a una cinepresa totalmente incurante della mia scarsa partecipazione. Forse pensava che restassi silenziosa perché ero estasiata dalla sua bellezza, invece la mia era pura sorpresa.
Mi stavo chiedendo come potessi fermare questo invasato, che tra l’altro continuava a parlare senza lasciarmi dire nulla. A un certo punto, lo blocco con l’unica cosa che funziona sempre: bandiera rossa. «Che cosa vuole dire?» mi fa lui. «Che noi donne ogni mese alziamo bandiera rossa.» Non era vero, ma servì a farlo desistere. Mi salutò restando tutto eccitato: «Sai, tornerò a trovarti, cucinerò io e ti farò un risottino». Tra le sue qualità, aveva decantato di essere un grande cuoco. Io mi precipito a raccontare l’episodio alla mia amica, che lo conosce perché lavora nella stessa clinica, e abbiamo riso come matte.
Non ho avuto il coraggio di troncare il rapporto, anche perché la speranza che con le sue conoscenze potesse aprirmi una porta per la guarigione era sempre forte. Quest’uomo era un chirurgo affermato, quindi io volevo credere che le sue debolezze di uomo fossero un piccolo difetto rispetto alle sue qualità. Un giorno si presenta con delle pesche squisite, le pela e comincia a imboccarmi, girando le dita intorno alle mie labbra per trasformarlo in un gesto libidinoso. Pensava di eccitarmi e di farmi perdere la testa, invece io lo trovavo solo esilarante e anche un po’ squallido. Un altro giorno, arriva con una bottiglia di champagne e un cesto colmo di petali di rosa e me li sparge su tutto il letto con uno show da cinema: «Tu sei un mito e io devo ricoprirti di petali perché sei stupenda, sei sempre stata la mia musa...». In tutta risposta, io comincio a grattarmi, mi viene un’orticaria da manuale: forse i fiori avevano dentro dei parassiti. Lui dovette correre in farmacia per comprarmi un antistaminico e io feci cambiare subito le lenzuola perché non riuscivo più a stare ferma a forza di grattarmi dal fastidio.
Dopo questi show, lui ci provava regolarmente ma io lo respingevo con una scusa o con l’altra. A un certo punto, ho capito che era opportuno chiudere e ho cominciato a non rispondere più alle sue chiamate, spesso pesantemente erotiche, che mi faceva anche di notte costringendomi a staccare il telefono. Non l’ho mai più visto. Si era rivelato non un medico serio ma un playboy da strapazzo, un esaltato che si credeva chissà chi e non era altro che un pagliaccio. Insomma, io che sognavo il medico che finalmente prendesse a cuore la mia situazione al grido di: «Io ti salverò!», invece mi ritrovavo con un pazzo che si dimenava attorno al mio letto al grido di: «Io ti scoperò!». Mi sentivo nuovamente perduta...
Un altro dottore, dopo due o tre visite, quando ero ancora sempre immobile, si offre di portarmi delle medicine a casa. Veniva dalla Toscana. Si presenta con un prosciutto enorme. Poiché non avevo un’affettatrice, la volta successiva me la porta lui e si presenta anche munito di grembiule che infila prontamente mettendosi ad armeggiare in cucina come un vero uomo di casa. Io apprezzo ma sono un po’ interdetta: non gli avevo chiesto alcun aiuto extra, era lui che aveva fatto tutto da sé. Al punto che, un giorno, una coppia di miei amici ospiti a cena, vedendolo col grembiule che serviva il vino, dopo che l’avevo presentato loro come il mio medico, appena si è un po’ allontanato, sottovoce mi hanno chiesto: «Ma è davvero un dottore o uno chef che si spaccia per medico pur di starti vicino?».
È andata avanti così per un po’: ogni volta portava degli ingredienti e si metteva a spadellare. Ormai, quando sapevo che veniva, riunivo alcune persone che non vedevano l’ora di vederlo all’opera. «Dalila, ma come sei fortunata! Hai un dottore che è anche uno chef: davvero non si può pretendere di più!» Ma della mia malattia non si parlava mai e anzi rimandava il discor...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. Indice