Maladolescenza
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Maladolescenza

Quello che i figli non dicono

  1. 196 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Maladolescenza

Quello che i figli non dicono

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Informazioni sul libro

Si aggirano per casa come entità estranee e imperscrutabili. Non parlano con i grandi, come se rispettassero un codice d'onore noto solo a loro. Stanno sul divano con in testa il cappuccio della felpa, o chiusi in camera a giocare alla PlayStation. Sono adolescenti. I genitori spaesati si preoccupano che malumore e mutismo nascondano problemi a scuola, o di cuore, o magari più gravi, come alcol e bullismo. O noia. O niente. Liquidare tutto con "ai miei tempi non era così" non aiuta a capire né a risolvere. Perché i tempi sono cambiati, non solo per modo di dire, gli anni che separano una generazione dall'altra corrispondono a secoli ormai. Superata la tv, sono gli smartphone, i tablet, le wii, i social network le nuove appendici dei ragazzi. Sono nativi digitali, cresciuti in una società che non si riconosce più nei ruoli tradizionali. Nuove famiglie, precariato, istituzioni fragili sono ciò che conoscono. Stanno facendo da apripista a un nuovo mondo, e in più hanno tutti i sintomi dell'adolescenza che anche i loro genitori hanno conosciuto. Attraverso le testimonianze di molti ragazzi - talora crude, sempre rivelatrici - raccolte dal giornalista Mario Campanella, Maria Rita Parsi, psicoterapeuta di grande esperienza e fama, spiega le ragioni sociali e fisiologiche dei comportamenti dei ragazzi, e aiuta i genitori a prendere atto delle responsabilità della famiglia e della scuola. Per guidarli sani e salvi fuori dal malessere e ritrovare insieme la serenità.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858510681
Categoria
Sociologia

MALADOLESCENZA

Le testimonianze degli adolescenti

Questo libro raccoglie le storie-testimonianza di quindici adolescenti italiani, di piccole e grandi città, dal Nord al Sud del Paese.
Non ci sono fatti eclatanti di cronaca, omicidi, storie di branco e di criminalità comune, ma ordinarie narrazioni di disagio soggettivo, travestito di normalità, che diventa minimo comune denominatore, per questo ancor più allarmante, per altre centinaia di migliaia di loro coetanei.
Sì, compaiono alcune storie che vanno “oltre” e rinverdiscono il consumo di droga o che sprofondano nel masochismo, come le automutilazioni, ma la maggioranza rientra comunque in una preoccupante e diffusa concezione di normazione.
L’adolescenza è da sempre una fase travagliata di crescita, orientata a superare con fatica il passaggio verso una condizione adulta. Essa si colloca in un’intermediazione psicobiologica che sospinge gli ormoni e trasforma innanzitutto il corpo, rendendolo adeguato alla dimensione della piena maturità.
Le esplosioni ormonali condizionano sia l’evoluzione fisica sia quella sessuale, insieme a un’esplorazione di conoscenze che diventano di fatto metamorfosi.
La plasticità del cervello acquisisce una dimensione di profonda ristrutturazione: il potenziale adattativo del processo di sovrapproduzione ed eliminazione selettiva, l’aumentata connettività e l’integrazione di diverse funzioni mentali, i cambiamenti nei sistemi della ricompensa nell’equilibrio frontale/limbico, i concomitanti comportamenti di separazione dalla famiglia di origine, la ricerca del rischio e delle sensazioni forti hanno avuto un significato adattativo fondamentale nel nostro passato e potrebbero averlo anche nel nostro futuro. Questa incredibile plasticità del cervello, in adolescenza, espone i giovanissimi a grossi rischi ma li dota anche di grandi opportunità.
Fino a un recente passato, nelle culture occidentali, si nasceva, si attraversava l’infanzia e si diventava sostanzialmente adulti a quindici/sedici anni, presi dalle esigenze di sopravvivenza e da un tasso di scolarizzazione basso e di nicchia.
Non che allora non ci fossero il progesterone o le ghiandole surrenali: non esisteva lo spazio temporale per cogliere l’ibrido di una separazione progressiva ma netta tra la fanciullezza e l’età della ragione.
I culti sociali aiutavano a poter contrassegnare simbolicamente il passaporto verso una seppure molto labile maturità, sia che fossero culturalmente condivisibili (la prima comunione come inizio della crescita o il servizio militare come sua compiuta definizione) sia che avessero una sorta di accettazione gerarchica ancorché maschilista (l’iniziazione sessuale nelle case di tolleranza che avveniva di solito intorno ai diciassette/diciotto anni).
Non vi era nemmeno il tempo di poter pensare di crescere poiché erano le oggettive situazioni di vita a portare al di fuori da ogni spazio divisorio la crescita sociale e fisica: essere uomini improvvisamente come un fulmine che scompagina una bella giornata di sole senza alcun preavviso.
Il dopoguerra e il boom economico hanno progressivamente allentato la morsa del bisogno, costipando la spinta all’indipendenza e facilitando la protezione a-temporale di genitori chioccia che sono passati dall’essere educatori e punti di riferimento temibili (con la dose di anedonia derivante dalle discutibili tramandazioni pedagogiche) a “semplici” testimoni di vita che, sempre più frequentemente, si ritrovano, per motivi personali o sociali, a non poter vivere fino in fondo il loro ruolo genitoriale.
Anche la Patria, la Nazione madre, non c’è più, sostituita da un paese che seppure partecipato, democratico e immune da una retorica stucchevole, ha cambiato, sovvertito questa imponente figura di Super Io di massa.
La fenomenologia ha contribuito a rendere spiegabili gli intrecci che sottostanno al comportamento individuale e collettivo, fornendo chiavi di ricerca preziose per comprendere il mondo variegato e a tratti imperscrutabile della prima giovinezza.
Gli adolescenti sentono il mondo nelle loro mani ma non avvertono il mondo, come entità dialogante: è una condizione comune, tipica dell’onnipotenza che è un fertilizzante autopropulsivo che mette sempre e comunque al centro se stessi.
Non è in discussione la crisi adolescenziale, sarebbe illogico, a nostro avviso, assistere a una fase così cruciale della vita affrontata con calma e pacatezza e assoluta serenità: non si cresce senza dolore.
Nietzsche assegna al dolore «l’unico ponte verso la conoscenza».
Ma il dolore costa, è fatica consapevole, è percorso di lacerazione e di ricomposizione, di frattura dalla quale riemerge un Io strutturato, in grado di poter equilibrare le tensioni dell’animo, senza dover vacillare a ogni costo.
I ragazzi di questo libro sono i figli della nostra generazione, alla ricerca tautologica di un anestetico che consenta loro di riempire quel vuoto nell’immediato, senza porsi alcuna domanda su un domani che appare lontano e obliquo.
Le quindici testimonianze sono esposte per come sono state raccolte, con un commento a latere, nella parte finale. La discussione riassuntiva crea uno spazio aperto verso la discussione che non si esaurisce e che necessita della partecipazione di tutti: dei giovani, degli adulti, della scuola, delle famiglie.
La coesione sociale si realizza quando ci si rende conto di non essere autosufficienti, né di poter bastare a se stessi.
Ognuno è un tassello irripetibile, nell’autonoma costruzione del Sé, ma è solo la “con-divisione” che produce gli effetti di diventare comunità, un’aggregazione di persone che vivono nella libertà e nel rispetto, nella tolleranza e nell’amore verso la vita.

1

HIKIKOMORI

Nell’ultimo biennio, solo in Italia, i giovani e i ragazzini dipendenti da internet sono diventati circa due milioni. Compresi tra gli undici e i diciannove anni, trascorrono dalle quattro alle dieci ore davanti al pc, sui social network, alla PlayStation. Alcuni di loro vanno ancora oltre: le ore passate a chattare, interagire, “discutere” arrivano a quattordici. Ne restano cinque per andare a scuola e altre cinque per dormire.
Quattordici, dodici o dieci ore al giorno, nel fiore della vita, trascorse su binari virtuali invece che a giocare a calcio o a basket, a inseguire i primi flirt, a studiare. È il fenomeno chiamato in giapponese hikikomori, lo stesso che sembra aver patito il protagonista della nostra nuova, sconvolgente e tanto ordinaria storia.
Una storia più breve delle altre, ma che ha una peculiarità che il lettore scoprirà strada facendo e che ci ricorda quanto possano essere pericolose quelle stesse cose che, usate in un altro modo, costruiscono un progresso generalizzato.
*
6, 6, 6, 6, 6… No, non è il numero del Diavolo. Ahahahahah, qualcuno potrebbe pensare che sono un invasato, magari che sono iscritto a una setta. Si dice così, no?
È il numero del codice swap che mi serve per collegare la rete e scaricare tutti i giochi possibili per la PlayStation 4. L’importante è che ci siano in Blu-ray ma anche in digitale, così uno può decidere.
Purtroppo più si va avanti e più si dà importanza al formato digitale: tutto è digitale, oramai. Con i giochi digitali il problema è la mancanza di spazio, a volte sia sulla Play sia su PS Vita mi tocca cancellare dei giochi che vorrei tenermi per far spazio a quelli nuovi.
Io sono contro il digitale, anche se purtroppo l’andazzo è questo… Con il formato digitale possiamo dire addio alla bellissima sensazione di sistemare ed esporre i nostri giochi.
Per sfortuna il digitale è il futuro e il retail sarà sempre di meno, anzi è possibile che con le prossime generazioni scompaia (ovviamente mi auguro di no): ormai le persone che lo preferiscono sono diventate la maggioranza. Io sono dell’idea che, come ogni cosa, ha i suoi pro e contro. I pro sono prezzi più accessibili, i contro sono quando ci sono di mezzo attacchi hacker che, se ti rubano l’account, mandi a quel paese tantissimi giochi. Il retail per me rimane una garanzia, diciamo il “nuovo” scontrino di acquisto.
L’informatica è tutto, il presente, il futuro, il passato: con un click ti colleghi al mondo esterno e puoi fare quello che ti pare e piace.
L’informatica rende liberi perché non è razzista, non guarda il colore della pelle, non ce l’ha proprio la pelle: è una scatola che contiene tutto e il suo contrario.
Come avrete capito mi piacciono tanto i giochi e l’informatica più ancora dei social network, che frequento poco.
Perché i social network sono noiosi e li vedo come un modo per conoscere gente, quando la si potrebbe conoscere per strada, se uno lo volesse.
Frequento la V ginnasio e l’anno prossimo dovrei arrivare in I liceo: l’anno scorso ho avuto tutti 6 (un’altra volta la sequenza… Ahahahahah!) e un 7 in greco: quest’anno i trimestri sono andati bene.
Non è che faccia grandi sforzi per prendere questi voti, perché a scuola cerco di stare attento e quando mi capita e magari ci sono delle ore buche i compiti me li faccio proprio nell’istituto, così posso starmene tranquillo a casa tutto il pomeriggio.
Alla peggio, a casa studio un quarto d’ora, massimo mezz’ora, ma mai di più, perché poi entro nella noia ed evaporo di testa e tutto mi viene meno facile del previsto.
Le cose vanno fatte d’istinto, uno sta a scuola e segue bene le lezioni, poi riesce a fare i compiti con più facilità dicendo ai professori tutto quello che loro vogliono sentirsi dire, perché se esci fuori da quello non va bene.
Secondo mia madre e mio papà sarei diventato dipendente dal computer o meglio dalla mitica Play. Ma sono tutte cazzate. Tutte cose che sentono in queste televisioni di merda che diffondono notizie false per fare in modo che la gente segua la moda o perché magari hanno interesse a che uno esca e spenda soldi e compri le cose che piacciono a loro.
A parte che io esco, almeno due volte la settimana, di solito il venerdì e la domenica, e me ne vado al centro commerciale con la bicicletta oppure vado al cinema, che mi piace tanto. Ci vado con Alessandro, il mio compagno di banco coglione ma buono, che ogni volta che facciamo le versioni di latino me le corregge. Io gli passo quelle di greco, dove vado meglio, e così facciamo una sorta di buona e sana compensazione.
La scuola la vedo troppo vecchia, e se lo dico sembra che voglio parlare all’infinito dell’informatica, ma è proprio così.
Basterebbe utilizzare tutti i sistemi innovativi eliminando la carta che non serve a nulla se non a far spendere soldi e a sradicare gli alberi, e gli alunni potrebbero conservarsi benissimo i file delle lezioni e ripeterle quando hanno dei dubbi.
Invece fanno pochissime lezioni di informatica, lo stretto necessario, secondo loro, e quelle poche sono così banali che anche un bambino di otto anni si rifiuterebbe di seguirle.
Ragazze non ne frequento perché non mi va, sono noiose: una volta, proprio agli inizi della IV ginnasio, ne ho avuta una, che si chiamava Sally, e ci siamo pure baciati, ma dopo qualche settimana mi ha lasciato e non le ho chiesto nemmeno il perché.
Quando mi viene voglia faccio da me, oppure guardo o scarico un po’ di filmetti in lingua svedese o spagnola, tanto chissenefrega della lingua, bastano le immagini, no?
Ho sempre amato il computer, fin da quando ero bambino. A sette anni già sapevo utilizzare tutte le funzioni di Windows e smanettavo su internet scaricando anche piccoli programmi.
Ho imparato tutto da me fino ai dodici anni, entrando in contatto sulla rete con altri ragazzi che mi istruivano e mi dicevano come fare per imparare tutti i trucchi.
I miei genitori adesso si lamentano, ma quando ero più piccolo si vantavano di quanto fossi bravo con una console davanti e mi chiedevano di scaricare i film che poi vedevano gratuitamente invece di andare al cinema.
A dieci anni mi comprarono la PlayStation 1 e lì scoccò l’amore: il primo gioco, lo ricordo come fosse adesso, era il basket NBA.
Mi piaceva un sacco inventarmi le squadre, dopo che avevo provato a giocare in quelle più forti, i Los Angeles Lakers, i New York Knicks, i Chicago Bulls.
Così ne inventai una, i Las Vegas Sky, visto che Las Vegas non ce l’aveva la squadra di pallacanestro.
Quindi entrai in quella squadra, con la maglia numero 99, e ogni giorno provavo tiri da due, da tre, rimbalzi, schiacciate.
Ero una matricola e diventavo sempre più forte, anche perché il basket mi attizzava parecchio, da morire.
Poi mi sono un po’ annoiato e ho deciso di cambiare giochi.
Prima lo snowboar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Maladolescenza
  3. Introduzione
  4. «Il mio Avatar non morirà mai!»
  5. MALADOLESCENZA
  6. Conclusione
  7. Copyright