A Louis Opparizio non piaceva ricevere ordini. Essendo un avvocato, sapeva che l’unico modo per trascinarlo in tribunale a deporre era quello di appioppargli un mandato di comparizione. Evitare il mandato significava schivare l’obbligo di testimoniare. Sia che avesse avuto una soffiata o che fosse abbastanza furbo da averlo capito da sé, il fatto è che scomparve nell’attimo stesso in cui iniziammo a cercarlo. Nessuno sapeva dove fosse finito e tutti i trucchi per rintracciarlo si conclusero in un nulla di fatto. Che fosse partito per l’estero o fosse rimasto a Los Angeles, la sua ubicazione restava un mistero.
Opparizio poteva contare su una cosa molto importante, che indubbiamente facilitava i suoi sforzi per non farsi trovare. I soldi. Con i quattrini si può sparire quando si vuole e Opparizio ne era consapevole. Possedeva diverse case in molti stati, un’infinità di mezzi di trasporto e persino un jet privato che gli permetteva di trasferirsi rapidamente da una all’altra delle sue proprietà. E quando si spostava, sia che fosse da stato a stato o semplicemente dalla sua casa di Beverly Hills al suo ufficio, sempre a Beverly Hills, era immancabilmente protetto da una falange di guardie del corpo.
Eppure in tutto questo c’era anche un aspetto negativo, ancora una volta i soldi. L’enorme fortuna che aveva accumulato, gestendo per conto delle banche o di altri istituti di credito le aste delle abitazioni pignorate, aveva creato in lui una sorta di dipendenza. Opparizio si era abituato al lusso e aveva acquisito i gusti e i desideri dei super ricchi.
Fu per questo che alla fine riuscimmo a trovarlo.
Mentre gli dava la caccia, Cisco Wojciechowski aveva raccolto un’enorme quantità di informazioni, su cui ci basammo per preparargli una trappola elaborata, che richiedeva un coordinamento perfetto. Facemmo recapitare al suo ufficio un opuscolo estremamente curato che annunciava un’asta esclusiva, riguardante un quadro di Aldo Tinto. Il quadro sarebbe stato esposto per essere esaminato dagli eventuali acquirenti soltanto per due ore a partire dalle sette di sera, il primo giovedì del mese. Il luogo era lo Studio Z, situato nella Bergamot Station, un centro artistico e culturale di Santa Monica. Le offerte dovevano arrivare entro la mezzanotte.
La presentazione aveva un’aria molto professionale. La descrizione del quadro era stata tratta da un catalogo di arte on line, basato essenzialmente su collezioni private. Da un profilo di Opparizio, comparso due anni prima su una rivista di settore, sapevamo che era diventato un collezionista di opere di arte contemporanea e che l’italiano Aldo Tinto, recentemente scomparso, era per lui una sorta di ossessione. Quando un uomo telefonò al numero che avevamo riportato sull’opuscolo e si presentò come un rappresentante di Louis Opparizio chiedendo un appuntamento per esaminare il quadro, fu chiaro che ce l’avevamo fatta.
Il gruppo entrò nella vecchia stazione ferroviaria, che adesso ospitava una serie di gallerie d’arte, all’ora stabilita. Mentre tre uomini della sicurezza, muniti di occhiali da sole, si piazzavano all’esterno, altri due si misero a setacciare lo Studio Z per poi segnalare che tutto era sotto controllo. Solo a quel punto Opparizio emerse dall’imponente Mercedes.
All’interno della galleria fu accolto da due donne che lo conquistarono con i loro sorrisi e l’entusiasmo per l’arte e, in particolare, per il quadro che stava per visionare. Una di loro gli porse un bicchiere di champagne, un Cristal Roederer millesimato, per celebrare l’evento. L’altra gli diede uno spesso pacchetto di documenti sull’opera e sulla sua storia ma Opparizio, che aveva una mano occupata a reggere il bicchiere, in quel momento non aveva modo di aprirlo. La ragazza gli disse che avrebbe potuto leggerselo con calma più tardi e che gli conveniva ammirare il dipinto prima che arrivasse il cliente successivo. Fu condotto quindi in una stanza in mezzo alla quale, su un cavalletto decorato, era stato sistemato il quadro, ora coperto da un drappo di satin. Un unico riflettore illuminava il centro della stanza. Lo invitarono a scoprire il dipinto e una ragazza con un paio di guanti lunghi gli prese dalla mano il bicchiere di champagne.
Opparizio mosse qualche passo in avanti, la mano alzata ad anticipare il gesto. Tolse il drappo con cura e sotto, appeso al cavalletto, vide il mandato di comparizione. Perplesso, si protese a guardare, forse pensando che quella fosse l’opera del maestro italiano.
«È stato convocato a testimoniare» disse Jennifer Aronson. «Quello che ha davanti è il documento originale.»
«Non capisco» obiettò lui, ma capiva benissimo.
«Dal momento in cui lei è entrato, l’intera scena è stata registrata su video» aggiunse Lorna.
Si avvicinò alla parete e premette un interruttore. La stanza si riempì di luce e lei indicò due telecamere sistemate in alto, sopra di loro. Jennifer alzò il bicchiere di champagne, simulando un brindisi.
«Abbiamo anche le sue impronte, nel caso siano necessarie.»
E alzò di nuovo il bicchiere verso una delle telecamere.
«No» disse Opparizio.
«Sì» ribatté Lorna.
«Ci vediamo in tribunale» lo salutò Jennifer.
Le donne si diressero verso la porta laterale della galleria dove una delle mie Lincoln, guidata da Cisco, le aspettava. Il loro lavoro era terminato.
Così erano andate le cose. Ora mi trovavo nell’aula dell’onorevole Coleman Perry e mi preparavo a difendere la validità del mandato di comparizione di Opparizio, il cuore stesso della mia strategia. La mia associata, Jennifer Aronson, era seduta accanto a me al tavolo della difesa e vicino a lei c’era la nostra cliente, Lisa Trammel. Al tavolo opposto si trovava Louis Opparizio con i suoi due avvocati, Martin Zimmer e Landon Cross. Il posto di Andrea Freeman era più arretrato, in prossimità della recinzione. In quanto pubblico ministero nella causa penale in cui rientrava quest’udienza, anche lei era parte interessata, seppure indirettamente. Tra il pubblico c’era pure il detective Kurlen, che era seduto in terza fila, in galleria. Il motivo della sua presenza era per me un mistero.
L’udienza era stata richiesta da Opparizio che, con il suo team di avvocati, si proponeva di contestare il mandato di comparizione e di annullare la sua partecipazione al processo.
A questo proposito avevano ritenuto prudente informare anche Andrea Freeman dell’udienza, nel caso l’accusa avesse ritenuto opportuno non far comparire Opparizio davanti alla giuria. Nonostante in questo caso il ruolo di Andrea Freeman fosse essenzialmente quello dell’osservatore, le era consentito intervenire ogni qual volta lo ritenesse opportuno. Comunque, anche se non l’avesse fatto, l’udienza le avrebbe permesso di familiarizzare con la strategia processuale della difesa.
Era la prima volta che vedevo Opparizio. Aveva una corporatura massiccia, che lo faceva sembrare più largo che alto, e la pelle del viso era tirata fino allo spasimo, forse dal bisturi o forse da anni di tensione. Tutto in lui parlava di soldi, dall’abbigliamento al taglio dei capelli. Ma dietro il suo aspetto impeccabile si intuiva un che di spietato, che avrebbe potuto sfociare in un omicidio o nell’ordine di eseguirlo per conto suo.
Gli avvocati di Opparizio avevano chiesto al giudice che l’udienza venisse condotta a porte chiuse, per evitare che quanto veniva rivelato arrivasse ai media e potesse quindi influenzare la giuria, che si sarebbe riunita il giorno seguente. Ma tutti lì dentro sapevano che la richiesta non nasceva da ragioni altruistiche. Era vero, l’udienza a porte chiuse impediva che risvolti inquietanti riguardanti Opparizio arrivassero ai media, ma la giuria c’entrava poco o niente. Quello che si temeva era un altro tipo di uditorio, l’opinione pubblica.
Da parte mia, mi opposi energicamente alla richiesta, obiettando che una decisione simile avrebbe creato dei sospetti sul processo a venire, il che era molto peggio che influenzare la giuria. Perry, che era stato nominato in una regolare elezione, era molto attento al giudizio della gente e quindi si dichiarò d’accordo con me e decise che l’udienza sarebbe stata aperta al pubblico. Mi complimentai con me stesso; avevo segnato un punto a favore della difesa.
I rappresentanti dei media erano pochi, ma più che sufficienti per il mio scopo. Gli inviati del «Downtown Business Journal» e del «Los Angeles Times» erano seduti in prima fila. Un documentarista freelance, che vendeva filmati a tutti i canali, se ne stava nella zona destinata alla giuria con la sua telecamera. Ero io che l’avevo preavvertito, chiedendogli di essere presente. Avevo pensato che qualche giornalista e la telecamera solitaria avrebbero innervosito Opparizio al punto da garantirmi il risultato che mi auguravo.
Dopo aver negato il permesso di tenere l’udienza a porte chiuse, il giudice andò subito al sodo.
«Avvocato Zimmer, lei ha presentato una mozione chiedendo che il suo rappresentato sia esentato dal testimoniare nel corso del processo contro Lisa Trammel. La invito a esporre le sue argomentazioni.»
Zimmer, con l’aria di uno che la sa lunga, si alzò per rispondere al giudice.
«Ne sarò molto lieto, vostro onore. Io mi limiterò a esporre i fatti riguardanti il modo in cui è stato presentato il documento al mio cliente, mentre il mio collega, l’avvocato Cross, tratterà l’altro punto in discussione.»
Poi Zimmer iniziò a lamentarsi del fatto che il mio ufficio aveva architettato una truffa via posta per organizz...