Io nascerò
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Io nascerò

La forza della mia fragilità

  1. 210 pagine
  2. Italian
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Io nascerò

La forza della mia fragilità

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Informazioni sul libro

Una "fragile donna forte". Così si definisce Loretta Goggi all'inizio del viaggio dentro se stessa affrontato in questo libro. E nel prologo chiarisce il motivo per cui ha deciso di lanciarsi nell'avventura della scrittura: «Dopo aver attraversato amore e dolore, sono in uno stato d'animo in cui mi sta a cuore raccontare quello che ho capito fin qui. Non sarà gran che, ma c'è voluta una vita per arrivarci. Imparare a vivere intensamente la normalità credo sia una conquista, un punto d'arrivo. Perché è nella normalità, nella semplicità, che ho trovato la bellezza».
In questo libro c'è una donna, che nell'esplorazione di se stessa parla soprattutto alle donne, e nella filigrana di una vita traspare la storia di una grande artista dello spettacolo, che ha difeso caparbiamente la vita privata mettendo al primo posto l'amore, gli affetti, le amicizie.
In questo libro c'è una professionista di grande disciplina e rigore, che tuttavia ha sempre scelto con il cuore, d'istinto, per non smettere mai di divertirsi.
In questo libro c'è una moglie che ha sofferto per la morte del compagno di una vita, e che dopo un periodo di profondo abbattimento spirituale ha trovato la forza di ricominciare: «Sono riemersa dall'abisso perché non ho nascosto a nessuno il mio strazio».
Loretta Goggi ci regala la sua parabola esistenziale intrecciandola a tante riflessioni sull'oggi e sul futuro, sul valore della sconfitta e sulla necessità di essere tenaci, oggi più di ieri, per non smettere mai di dire «Io nascerò».

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858510056

1

PREDESTINATA SENZA SAPERLO

La luce che hai dentro

C’è un momento in cui una luce accende all’improvviso la tua vita. Più che vederla, questa luce, la senti, la vivi. Perché coincide con un disegno che hai sempre avvertito dentro di te. E hai saputo sempre che sarebbe venuto a galla, prima o poi. Quando te ne rendi conto, decidi che devi seguire le istanze di questo misterioso disegno, anche se non immagini ancora dove ti porterà. Ebbene, la mia luce, il mio bisogno interiore, era uscire dal guscio: stare su un palcoscenico.
Non l’ho capito subito. Ne ho preso coscienza in momenti diversi.
La prima volta che ti senti dire dentro “vorrei fare quello!” non è mai quella decisiva. Perché queste “voglie” nascono quando si è ancora molto giovani, pieni di curiosità, di desiderio di sperimentare tutto. Quando si è carta bianca, lavagna pulita.
A me capitò a nove anni e mezzo. Era il 1960. Stavo spaparanzata nel lettone dei miei genitori, perché mi ero ammalata, e guardavo la televisione. Davano uno sceneggiato – “Ragazza mia”, per la regia di Mario Landi – con Lea Padovani, e insieme a lei recitava una bambina. Non la dimenticherò mai. Per me vedere quella mia coetanea in televisione – all’epoca in cui possedere un apparecchio televisivo era un privilegio – fu come una folgorazione. Si chiamava Maria Letizia Gazzoni, un vero e proprio enfant prodige di quegli anni. Poco tempo dopo, una sera, la rividi ospite de “Il musichiere”, la trasmissione Rai più popolare di allora, diretta da Antonello Falqui e condotta da Mario Riva. C’era già stata ospite Mina, che all’epoca si chiamava Baby Gate, a cantare: Naaasun ti giur naa suun! (“Nessuno ti giuro nessuno”). Quella sera, invece, ospitarono proprio quella bambina. E ricordo che iniziò a cantare: Dove andranno a finire i palloncini / quando sfuggono di mano ai bambini / dove andranno, dove andranno, / vanno a spasso per l’azzurrità. La canzone era di Renato Rascel, bellissima, e anche quella bimbetta per me era bellissima.
Mi sorpresi a pensare che anch’io desideravo “entrare in quella scatola”. A dire la verità, a quell’epoca, a parte cantare – e mio padre era convintissimo che cantassi bene già a tre anni – non possedevo alcuna capacità artistica. Pensavo soltanto a come si potesse “entrare nel televisore”… desideravo farlo anch’io.

Un filo invisibile

Il caso volle invece che la mia carriera cominciasse con la recitazione, mentre ancora frequentavo la scuola. In quel periodo mio padre ci teneva che studiassi pianoforte e canto. Già, il pianoforte, non si può certo prendere sottogamba, bisogna esercitarsi moltissimo. Figurarsi suonarlo con l’anulare destro rotto, perché rimasto chiuso dentro allo sportello della nostra Seicento! Riuscii comunque a farlo, male, ma ci riuscii. Potei così avere una buona educazione musicale, facendo felice papà, e anche un’impostazione vocale. E, solo per poco tempo, potei affrontare anche il solfeggio cantato, che oggi mi manca molto e che riconosco fondamentale per una cantante. Be’, non è detto che in vecchiaia – cioè domani l’altro! – quando magari non avrò manco la voce, non decida di dedicare un po’ di tempo a impararlo. Mai dire mai! È la mia filosofia.
Papà aveva piacere che cantassi e quando si presentò l’occasione – una festa in maschera cui era collegato un concorso musicale alla Casina delle Rose di Villa Borghese, presentato da Corrado Mantoni, con la regia di Silvio Gigli – pensò che potesse regalargli quella gioia che attendeva da tempo: sentirmi cantare. Ricordo che ero l’unica a non essere mascherata! Di fianco a me c’era un’altra bambina, vestita come una ballerina di tarantella, che avrei ritrovato in seguito come comparsa in uno sceneggiato televisivo e che poi sarebbe stata la mia controfigura ne “La freccia nera”, nel 1968. Era Fiorella Mannoia. E poi ricordo una ragazza, Fiammetta Tombolato, che avrebbe continuato a cantare anche da grande per un breve periodo, e tante altre con costumi vistosi e variopinti. Figurarsi il mio stupore quando annunciarono che la vincitrice ero io: l’unica bambina ad aver cantato senza neppure una maschera! Il premio consisteva in una borsa di studio per una scuola di danza che, ricordo ancora, si chiamava L’Aquilone. “Danza?” pensai. Avevo un rapporto difficile con il mio corpo, non mi piacevo, mai mi sarei messa un tutù o un paio di quei tremendi pantaloni corti, “a sbuffo”, che si usavano in quegli anni per fare educazione fisica a scuola. “Danza? Mai!”. Errore! Mi avrebbe fatto molto bene, invece. Perché la padronanza totale di ogni singola parte del corpo è un’altra cosa di cui ho imparato il significato più tardi, a mie spese, stando vicino a mio marito Gianni, primo ballerino della Rai, fotografo, coreografo e poi regista.
Silvio Gigli continuò a invitarmi a trasmissioni sia radiofoniche sia televisive. Fu così che continuai a cantare, per caso, e senza volerlo veramente. Una di quelle trasmissioni si chiamava “Disco magico”, con una formula che oggi sarebbe definita talent show. Funzionava così: c’erano dei padrini famosi – il Quartetto Cetra, Arturo Testa, Nilla Pizzi, per citarne alcuni – e ognuno di questi aveva un pupillo. Io fui assegnata a Nilla Pizzi. Ancora una volta vinsi il concorso. Ricordo che cantai “Le mille bolle blu, a dieci anni, con la grande orchestra di Gianni Ferrio e in diretta.
Se ci ripenso, non posso fare a meno di chiedermi come una tremante e insicura ragazzina potesse aver superato quell’esame e che cosa ci fosse dietro a tutte quelle coincidenze, a quegli incontri… Ci doveva pur essere un misterioso disegno. Infatti, lungo il cammino della vita, ho ritrovato tutte quelle persone. Come se un filo invisibile ci legasse. Essere predestinati è anche questo.
Cantare era una cosa che m’intimidiva da morire, mi costava fatica. E invece mi ci sono ritrovata catapultata. Credo di essere riuscita a cavarmela soprattutto per far piacere a papà. Perché scrivo questo? Perché – se sei timida, com’ero e sono io – quando reciti puoi anche arrivare ad avere la salivazione azzerata, ma almeno la voce ti esce. Quando canti, invece, non puoi certo deglutire continuamente, avere il fiato corto o la voce che ti trema. La prima cosa che devi fare è imparare a usare bene il diaframma, a prendere fiato, a sostenere le note, a tenerle anche a lungo.
Io invece tremavo come una foglia. Ancora oggi non canto mai tenendo il microfono in mano, perché mi emoziono e mi tradisco. Uso l’asta, così la gente non può accorgersi di quanto tremo dentro. Inoltre, so che la mia temperatura corporea scenderà sotto zero prima di entrare in scena.
Il mio percorso canoro di bimba cominciò con canzoni come “Il barattolo”, “Il cane di stoffa”, “Le mille bolle blu”, “Una zebra a pois”, “Tintarella di luna”… Le vivevo come filastrocche giocose. Ero una bimba, non seguivo troppo le canzoni dei grandi come invece capita oggi ai piccoli protagonisti di “Ti lascio una canzone” o di format simili.
La vera passione per il canto, però, non era ancora scoccata.

L’unico rimpianto

Esplose invece l’amore per la prosa. Un amore che, in seguito, sarebbe diventato inconsciamente terapeutico. A nove anni e mezzo. E anche questa volta fu pura casualità, nulla di programmato a priori.
Cercavano una bambina che non avesse mai recitato per un giallo televisivo. Il titolo era “Sotto processo”, per la regia di Anton Giulio Majano.
Andai al provino.
Mi presero.
La recitazione divenne il mio gioco preferito. Mi divertivo moltissimo. Mi truccavano, mi travestivano. Conobbi i più grandi attori del teatro e del cinema.
In quegli anni non c’erano ancora gli attori televisivi, i registi televisivi. C’erano attori e registi. E basta. Si aveva a che fare con professionisti preparatissimi, giganti indimenticabili: Gino Cervi, Sergio Tofano, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Sarah Ferrati, Emma e Irma Gramatica, Aldo Silvani, Antonio Battistella, Tino Carraro, Gastone Moschin, Alberto Lupo, Anna Maria Guarnieri. Che esperienza meravigliosa! E tuttavia non pensavo ancora che quella sarebbe stata la mia strada.
Avevo scelto di non iscrivermi né al liceo classico né allo scientifico per continuare a fare quel giocolavoro che mi piaceva così tanto. Scelsi un istituto dove avrei potuto imparare bene le lingue, materia in cui peraltro andavo malissimo alle scuole medie. Se ho un rimpianto è quello di non aver fatto studi classici. Se ne dispiacque allora la mia insegnante di lettere che disse a mia madre: «È un gran peccato. Sua figlia potrebbe fare il classico: in lettere va benissimo, scrive bene e senza errori». Avevo anche nove in latino. Eppure, fui determinata. Ricordo che dissi ai miei genitori: «Se questo vuol dire smettere, scelgo di frequentare una scuola che mi possa permettere di continuare a fare il mio lavoro». Nei miei ragionamenti ero quasi un’adulta. Ritenevo che le lingue mi sarebbero servite per girare il mondo.

Forza di una maschera

Un primo scossone alla mia carriera ormai avviata giunse a sedici anni quando, improvvisamente, non mi chiamò più nessuno. Avevo partecipato a tutti i teleromanzi possibili, da “I miserabili”, in cui avevo interpretato Cosetta, a “Demetrio Pianelli”, nel ruolo di Arabella. Avevo avuto i ruoli più belli che una bambina potesse recitare all’epoca, ma a sedici anni il mio fisico minuto si era completamente trasformato. Ero cresciuta d’un tratto, diventando alta come un’adulta, ma ahimè… piatta come una tavola da surf! Non apparivo ancora come una donna fatta e finita, e neppure come la bambina di prima, insomma non ero né carne né pesce. Decisi che l’unica cosa da fare per continuare a coltivare quel mestiere che ormai faceva parte della mia vita – anche se non avevo ancora il cosiddetto “fuoco sacro” – era continuare a studiare e lavorare alla radio o al doppiaggio.
Fu prestando la voce a tutte le attrici di quindici-sedici anni che allora non sapevano doppiarsi da sole – Agostina Belli, Mita Medici, Silvia Dionisio, Ornella Muti…, e anche molte straniere come Katharine Ross, Hayley Mills, Kim Darby, l’interprete del primo famoso “Grinta” di John Wayne – che ebbi l’opportunità di migliorare la mia dizione e impostare la cosiddetta “voce di petto”.
Fu proprio durante quel periodo che realizzai quanto mi mancasse la prosa. Mi mancava tantissimo. Avevo intuito che recitare mi aiutava a uscire dal guscio, a essere parte di quello che ero veramente e parte di quello che non ero, e che mi sarebbe piaciuto essere.
A quindici-sedici anni non sai ancora chi sei, sei alla ricerca della tua identità e del tuo posto nel mondo. Forse neppure oggi so chi sono, eppure allora avevo fatto una scoperta importante: recitare un personaggio era un po’ come indossare una corazza, mi consentiva di muovermi fra gli altri in modo spontaneo, senza timori, sentendomi protetta. La stessa cosa mi è accaduta facendo le imitazioni. Anche l’imitazione, in fondo, è mettersi una maschera, e mi è servita moltissimo per vincere la mia naturale ritrosia. Ammetto di essermi liberata della mia “corazza” non tanto presto. Anzi, credo che le imitazioni mi siano rimaste un po’ attaccate addosso nel corso degli anni, con mio grande piacere, perché mi hanno dato una popolarità enorme, ma non nascondo che ci sono stati momenti in cui le ho sentite strette, quando sono diventate un’etichetta.

“Castrocaro” fu il mio primo concorso canoro televisivo. Partecipai dopo aver interpretato il personaggio di Beatrice nello sceneggiato televisivo “Vita di Dante”, accanto a Giorgio Albertazzi. Lo sceneggiato aveva avuto uno straordinario successo ed ero già conosciuta. Avevo quindici anni, i calzettoni corti e il cerchietto. Tanto per cambiare, timida come non mai. Quell’anno c’erano fra gli altri Mino Reitano e Iva Zanicchi. Io arrivai come “riserva”, mentre gli altri esordienti furono tutti eliminati dal concorso. “Riserva” voleva dire che, se si ammalava un cantante, avevi l’opportunità di subentrare al suo posto. Se tutti stavano bene, nisba! Era l’anno di Annarita Spinaci, che poi andò al Festival di Sanremo con Popopopo popopopopopo, per chi ricorda il buffo refrain, anche se a dir la verità il titolo della canzone era “Quando dico che ti amo”. Il gruppetto degli esclusi, fra i quali c’erano molti talentuosi, se ne stava fuori a ridere e scherzare; un modo per esorcizzare il fatto che eravamo stati “buttati fuori”. A un certo punto Ravera mi disse col suo accento marchigiano: «Io n’te capisco, cocca, quando sei alle prove c’hai ‘na vocetta tutta carina e canti bene. Ma quando me vai in diretta la vocetta te trema! Ma com’è ‘sta cosa?». Per una strana congiuntura, che ancora oggi non so spiegarmi, quell’anno decisero di mandare in onda anche le due riserve. Una di queste era Aida Cooper, che poi sarebbe diventata la prima vocalist di Loredana Berté, e quindi una futura rockettara sfegatata, che invece all’epoca cantava un po’ sullo stile di Nilla Pizzi, era quasi pettinata come lei e vestita elegante come lei. L’altra ero io. Il presentatore disse: «Chissà quanto stai sperando che si ammali qualcuno». Risposi: «Veramente, proprio no». Perché per me arrivare fin lì era già stato un successo, un miracolo. Giunsi in finale, nonostante fossi l’ultima delle riserve. Festeggiai i sedici anni proprio durante la finale; e sedici anni erano l’età obbligatoria per poter partecipare al concorso.

Una famiglia così

Francamente non so quanto abbia contato la predestinazione nella mia carriera, quello che so è che tantissimo ha contato il sostegno di una famiglia come la mia. Senza di loro non sarei mai riuscita a portare a compimento un percorso così duro. Sulla strada della musica, con mio padre sapevo di sfondare una porta aperta. Era un appassionato. Papà, tuttavia, si aspettava da me un impegno parziale, non immaginava che sarei finita a fare gli sceneggiati televisivi. Voleva cantassi, ogni tanto: una serata qui, una là. Magari, chissà, arrivando pure a Sanremo. La sua regola era: «Dieci giorni massimo, poi però torni a casa». Invece, per causa mia, la famiglia dovette dividersi in due. Perché allora la lavorazione di un teleromanzo durava quasi otto mesi. Prima si faceva tutta la lettura a tavolino, come in teatro, per circa un mese, poi si registravano sequenze lunghissime, anche di venti minuti, in cui si passava dal riso al pianto senza interruzioni. Il lavoro sul set, oggi, è molto cambiato: in quattro settimane si fa un film.
Ricordo di aver festeggiato la maggiore età, diciotto anni, mentre giravo “La freccia nera”. Papà stava cominciando a risentire di questo stato di cose. Non posso negare i disagi familiari che provocavano le mie lunghe assenze da casa, anche alle mie sorelle. Solo l’amore che c’è sempre stato fra noi ha fatto sì che non si creassero fronti contrapposti.
Mia madre era sempre con me ad accompagnarmi nelle lunghe trasferte, mentre papà lavorava da impiegato, un normalissimo impiegato, alla camera dei Deputati. A forza di aspettarmi negli studi televisivi, mia madre sferruzzò chilometri di maglia, confezionando vestitini, sciarpe, scarpette da neonato, cuffiette, baschi e quei gilet lunghi che andavano di moda negli anni Settanta. Quando papà andò in pensione, i miei genitori cominciarono ad alternarsi per seguirmi. Raggiunta una certa età, mi vergognavo un po’ perché era un tantino ridicolo il fatto che fossi sempre accompagnata dai genitori. Ricordo che accadeva lo stesso a Gigliola Cinquetti. I nostri due papà si somigliavano perfino fisicamente, tutti e due calvi e con i baffetti. Quando ci si rivedeva c’era sempre una grande allegria, si scherzava proprio sul fatto di essere figlie “controllate a vista”. Non mi vergogno a dirlo: venni accompagnata fino a ventisette anni.
A ventinove, quando feci “Fantastico”, protestai: «Papà non posso andare a Milano con te o con la mamma!». Sarebbero stati molti mesi di lavorazione, e volevano addirittura alternarsi: un mese mamma, un mese zia, un mese mia sorella Lilli, più grande di me di sette anni. Invece, finalmente, ci andai da sola. Per la prima volta presi un appartamento, imparai a cucinare e a diventare autonoma. A quell’epoca restare così tanto in famiglia era impensabile, ma io e le mie due sorelle siamo uscite tardi di casa, con estrema calma. Mia sorella più grande a ventotto anni, Daniela addirittura a trentuno. A casa stavamo benissimo.
Sono nata a Panìco, cioè a piazza dell’Orologio, vicolo Sforza Cesarini 53, all’ultimo piano. Come si dice: «Romana de Roma». Avevamo un attico e un superattico, dove viveva tutta la mia famiglia. Insieme a noi c’erano i nonni e l’altra figlia, sorella di mio padre, che aveva la casa al piano di sotto. Era un’abitazione grandissima, ma in un palazzo antico, e per questo avevamo il bagno esterno e non c’era l’ascensore. C’era però un bellissimo terrazzo da cui si vedeva tutta la città.
Ho bellissimi ricordi d’infanzia legati alla mia famiglia e alle mie sorelle. Lilli, la più grande, era un po’ la vice-mamma. Si occupava spesso di Daniela, la più piccola, quando io e la mamma ci assentavamo per motivi di lavoro.
Daniela e io siamo nate in casa. Quando nacque ricordo che era estate, avevo solo due anni e nove mesi. C’era una scaletta interna che portava al superattico, e me ne stavo seduta sui gradini con un vestitino celeste di sangallo e i boccoli tutti infiocchettati. Mio padre indossava pantaloni corti e una T-shirt. Se ne stava seduto accanto a me, boccheggiante per la trepidazione e il caldo. Ci saranno stati quaranta gradi. A un tratto sentimmo il pianto della sorellina appena nata, ma quando mi comunicarono che era femmina mi venne un vero e proprio attacco di bile. Me la portarono a vedere, e quando vidi non solo che era una femminuccia, ma che l’avevano messa nella culla che era stata mia, dissi: «Le farò mangiare il cuccoso dall’asinello della Mole Adriana!». Era il luogo in cui andavamo a trascorrere i pomeriggi di gioco con le cuginette, e il cuccoso era il sederino, nel mio linguaggio infantile di allora. Perché volevo un fratello! In realtà, siamo poi diventate inseparabili, come il gatto e la volpe.

Una casa piena di musica

La nostra, era una casa piena di musica. Papà prendeva lezioni private di chitarra, la sua passione. A casa spesso cantava: Qui, / sotto il cielo di Capri, / com’è bello sognar / mentre mormora il mar. / Qui, / fra spalliere di rose / e di glicini in fior, / paradi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Io nascerò
  3. Prologo. Fragile donna forte
  4. 1. Predestinata senza saperlo
  5. 2. Tirar dritto per la propria strada
  6. 3. L’arte dell’incontro
  7. 4. Prima della “prima”
  8. 5. Quel che so dell’amore
  9. 6. Diario di un dolore
  10. 7. Amici amici
  11. 8. La forza della fede
  12. Grazie a…
  13. Appendice
  14. Loretta Goggi. Carriera artistica (teatrografia, discografia, televisione) a cura di Vincenzo Boccini
  15. Copyright