Sopra la porta dell’aula è fissato un pannello di legno rettangolare che Zaman ha levigato e dipinto di bianco smagliante. Con il pennello ha tracciato quattro versi...
Sono versi tratti dal ghazal di Hafez che Zaman predilige:
Giuseppe ritornerà nella terra di Canaan, non piangere,
il deserto diventerà un giardino di rose, non piangere.
Dovesse arrivare il diluvio e annegare ogni creatura vivente,
Noè sarà la tua guida nell’occhio del ciclone, non piangere.
(Da Mille splendidi soli)
I personaggi di Hosseini sono grandi lettori di poesia persiana: Amir e Hassan passano il pomeriggio sulle pagine dello Shahnamah; il padre di Laila si consuma gli occhi sui poeti classici, Sa‘di, Attar, Hafez; Hassan legge a Rahim Khan, ormai quasi cieco, il Poema spirituale di Rumi e le quartine di Omar Kayyam e persino Rashid dimostra di conoscere il poema romanzesco di Laila e Majnun. Il mendicante che Amir incontra nella Kabul dei talebani commenta con un verso di Hafez la propria delusione per il disastro in cui si è risolta la presa del potere da parte degli studenti islamici: L’amore sembrava così semplice, ma poi arrivarono le pene! La citazione è rivelatrice: il vecchio era stato collega di Sofia Akrami, la madre che Amir non ha mai conosciuto.
Anche il mondo di Hosseini si nutre della tradizione letteraria persiana: sua madre, proprio come quella di Amir, prima dell’esilio negli Stati Uniti era stata insegnante di letteratura farsi a Kabul.
I versi di Hafez che Zaman scrive sopra la porta della classe riassumono in modo poetico la filosofia esistenziale di Khaled Hosseini: per vivere è indispensabile coltivare la speranza anche quando sembra di gettare il seme nella sabbia del deserto.
Il “Conservatore” del Corano
Nel 1387 Tamerlano era accorso con il suo esercito a Shiraz, in Persia, per schiacciare per la seconda volta una rivolta capeggiata da Shah Mansur, un vassallo ribelle dell’impero mongolo, che l’implacabile Timur lo Zoppo avrebbe definitivamente vinto e ucciso.
Si narra che durante il suo soggiorno in città Tamerlano avesse voluto conoscere Hafez, il poeta che nel primo verso di una sua lirica aveva osato parlare con disprezzo di Samarkanda e Bokhara, le splendide capitali timuridi.
Se quel bel turco di Shiraz prendesse in mano il mio cuore,
per il suo nero neo darei Samarkanda e Bokhara.
Convocato dal sovrano tartaro, Hafez si presentò vestito molto miseramente. «Come! Io ho conquistato mezzo mondo con la mia gloriosa spada per abbellire le città sedi del mio governo, Samarkanda e Bokhara, e tu, miserabile vigliacco, vorresti darle via per il neo di un turco di Shiraz!» lo investì Tamerlano. «Sire,» gli avrebbe risposto il poeta «è appunto a causa della mia smisurata prodigalità che mi trovo ridotto in questo stato!» La pronta arguzia di Hafez fu apprezzata e il poeta ricevette un dono degno del signore di mezzo mondo.
Hafez è il soprannome con cui è conosciuto il poeta Shamsoddin Mohammed Shirazi e significa «Colui che conserva», sottintendendo «il Corano a memoria». Mohammed, bambino di prodigiosa memoria, aveva infatti mandato a mente il Libro Sacro apprendendolo dalla recitazione del padre.
Hafez nacque a Shiraz verso il 1320. Si racconta che da adolescente avesse lavorato come fattorino in una panetteria e che consegnasse il pane ai ricchi del quartiere. Fu così che vide la bellissima Shakh-e Nabat e se ne innamorò. Consapevole che il suo amore non sarebbe mai stato ricambiato, ma rapito dalla bellezza della donna, il poeta avrebbe avuto la sua prima esperienza mistica, propiziata dal desiderio di un’unione impossibile.
Nonostante alcuni brevi periodi di disgrazia, il poeta fu apprezzato dai sovrani che si succedettero sul trono di Shiraz, ai quali dedicò non pochi panegirici, pur non essendo mai vissuto a corte.
Hafez non è soltanto considerato il maggior poeta in lingua farsi, ma ancora in vita fu venerato per le sue doti profetiche. La sua fama di veggente non ha perso prestigio e, come accadeva nel nostro Medioevo con l’Eneide di Virgilio, il suo Divan (Canzoniere) viene aperto a caso per trarre auspici. Non solo. A questo scopo circolano mazzi di carte da gioco con i suoi versi, molti dei quali sono diventati veri e propri proverbi. Tutti i parlanti di lingua farsi ne conoscono alcuni a memoria: la magia della sua poesia incanta oggi come sei secoli fa.
Il ghazal
Babi e Zaman conoscono a memoria molti ghazal di Hafez, i più eleganti di tutta la letteratura persiana. Il ghazal, che noi potremmo chiamare canzone o elegia, è un componimento lirico breve, dai cinque ai quindici versi, con la medesima rima, ciascuno diviso in due segmenti chiamati emistichi; in particolare i due emistichi del primo verso rimano tra di loro. In realtà i versi che Zaman scrive sulla porta della sua classe sono due, composti appunto di quattro emistichi.
Nel ghazal non c’è uno sviluppo narrativo o emotivo del tema: l’idea o l’impressione espressa nel primo verso può essere variata nei successivi senza nulla aggiungere concettualmente. Questa mancanza di uno svolgimento dell’enunciato e il fatto che ogni verso ha un senso in sé compiuto hanno fatto sì che nel corso del tempo nel Divan di Hafez i copisti abbiano alterato l’ordine dei versi o ne abbiano inseriti non pochi apocrifi.
Al tempo di Hafez era ormai invalso l’uso di inserire nell’ultimo verso di un ghazal il soprannome del poeta.
Se l’imam della comunità dovesse chiedere,
digli che Hafez ha compiuto l’abluzione con il vino.
Le parole della lirica sono accompagnate dalla musica che ne rende ancor più inebriante l’incanto.
Affinché i menestrelli del mio Desiderio ti diano notizia
versi e ghazal con note e armonie sollecito ti mando!
Nessun poeta ha trovato forme più eleganti e combinazioni più sofisticate per cantare i temi convenzionali della lirica persiana. Non bisogna dimenticare che l’espressione immediata dei sentimenti è ritenuta di cattivo gusto nel mondo persiano, mentre sono la raffinatezza delle metafore, l’astrusità dei paragoni, il decorativismo verbale a suscitare ammirazione. Se Hafez ha ereditato dalla tradizione i motivi della sua ispirazione, la maestria con cui plasma la parola e l’originalità con cui combina gli elementi tradizionali sono sua personale creazione.
Il poeta di Shiraz inventa dunque rapporti inediti tra i materiali tradizionali, ma non crea nuovi temi. Forse si può apprezzare la qualità unica della poesia di Hafez, osservando l’arabesco islamico: all’interno di uno schema rigorosamente geometrico, l’artista può combinare i medesimi elementi del repertorio tradizionale in una varietà infinita, intrecciando in modi sempre nuovi racemi, fiori e foglie oppure cerchi, triangoli e poligoni stellari ottenendo un risultato ogni volta diverso.
Amare, bere e cantare
Il mondo poetico di Hafez è complesso e si inserisce in una tradizione letteraria poco conosciuta in Occidente, anche se il poeta persiano è stato l’ispiratore del Divano occidentale-orientale di Goethe, una delle opere più significative dell’Ottocento europeo.
Il ghazal canta con le stesse parole l’amore umano e l’amore mistico tanto da renderli indistinguibili. Compagni immancabili dell’amore sono il vino e la musica.
L’orecchio è teso ai sussurri del flauto, al lamento della cetra.
L’occhio tengo sul rubino del tuo labbro, sul girare del calice.
L’oggetto più invocato nel canto è l’Amico, l’Amato, il Coppiere, con espressioni che evocano amori apparentemente o di fatto omosessuali, difficile e nello stesso tempo ozioso saperlo.
Nelle società islamiche tradizionali l’espressione dell’amore è molto diversa da quella dei paesi occidentali. La rigida separazione dei sessi fa sì che il manifestare in pubblico emozioni amorose tra uomo e donna, anche se marito e moglie, sia ritenuto sommamente sconveniente e questo tabù investe anche l’espressione poetica. Nel ghazal antico sembra non esserci via di mezzo: l’amore eterosessuale o si riduce a una consumazione sbrigativa o diventa l’amore ‘udhrita per cui Laila e Majnun muoiono casti.
L’espressione dell’affetto tra uomini è invece socialmente accettabile, ma non, almeno in via ufficiale, il vissuto sessuale di una relazione amorosa. L’omosessualità maschile è indirettamente condannata dal Corano e punita dalla shari‘a. Di quella femminile non si fa parola nei testi. Nel paradiso islamico, tuttavia, i fedeli saranno accolti oltre che dalle famose uri, vergini modeste di sguardo e bellissime d’occhi, da «garzoni d’eterna gioventù». Chi siano questi giovani «che al vederli diresti sono perle disperse» (La sura dell’uomo, LXXVI, 19) e quale sia il loro ruolo paradisiaco non è mai stato chiarito. Forse per cattiva coscienza, forse per conformismo moralistico. Alcuni commentatori coranici non escludono che questi efebi siano a disposizione anche delle defunte, ma è solo una generosa illazione.
L’ambiguità dei significati ritorna prepotentemente nella poesia di Hafez. Si sa che tradurre una poesia è un’operazione spesso disperata: nel passaggio da una lingua a un’altra vanno perduti la rima, il ritmo e la musicalità, che sono componenti essenziali dei...