Le colpe dei padri
eBook - ePub

Le colpe dei padri

  1. 322 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Le colpe dei padri

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Guido Marchisio, torinese, 46 anni, è un uomo arrivato.
Dirigente di una multinazionale, appoggiato dai vertici, compagno di una donna molto più giovane e bellissima: la sua è una vita in continua ascesa.
Fino al 26 ottobre 2011, una data che crea una frattura tra ciò che Guido è stato e quello che non potrà mai più essere. Quella mattina, infatti, un incontro non previsto insinua in lui il dubbio: possibile che esista da qualche parte un suo sosia, un gemello dimenticato, un suo doppio misterioso e sfuggente?
Giorno dopo giorno, il dubbio diventa ossessione e l'esistenza dell'ingegner Marchisio inizia, prima piano poi sempre più velocemente, a percorrere la stessa rovinosa china della sua azienda e della sua città.
Di tutte le sicurezze costruite col tempo, non rimane più nulla: il suo ruolo di freddo tagliatore di teste, di manager di successo, la sua figura di uomo affascinante, tutto, per colpa di quel sospetto sembra scivolare via da lui, come se accompagnasse l'emorragia che lentamente svuota l'industria italiana.
Andare a fondo significherà per Guido affacciarsi all'orlo di un baratro e accettare l'inaccettabile.
Nessuno come Alessandro Perissinotto sa fondere sentimenti personali e conflitti sociali in una storia grande che lascia il segno.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Le colpe dei padri di Alessandro Perissinotto in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Literatur e Literatur Allgemein. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858508787
1

CI VORREBBERO LE BRIGATE ROSSE

Questa storia inizia con un pugno in faccia e finisce con un colpo di pistola, o viceversa, a seconda dell’ordine che vogliamo dare alle cose, perché l’ordine è solo una convenzione e il tempo, che sembra allineare gli eventi lungo sequenze immutabili, talvolta si ritorce su se stesso come legno di vite. In ogni caso c’è un pugno, ben assestato, ma alla persona sbagliata. E c’è un colpo di pistola, sparato verso la persona giusta, ammesso che esista qualcuno che davvero si merita un proiettile.
Siamo seduti in un bar, Franco e io. È un bar alla moda, di quelli che non ci piacciono. Però è comodo incontrarsi in piazza Vittorio e lì i caffè sono tutti alla moda. Per fortuna non è ora di aperitivi e di fighetti: i clienti sono eccezioni. Una coppia di amanti clandestini si è chiusa in una bolla in fondo alla sala e, al banco, un uomo, di cui vedo solo la schiena, di tanto in tanto porge in avanti il bicchiere per farselo riempire di vino bianco.
Ogni volta, io e Franco ci diciamo che dovremmo capire se la vecchia “Fogna” esiste ancora, ma poi non lo facciamo, per pigrizia o per malafede. La “Fogna” è la bettola dove ci trovavamo da ragazzi, il sabato sera; un locale lungo e stretto che, oltre il bancone, ospitava tre tavolini, rotondi, pubblicitari: Caffè Paulista. Niente birra alla spina, solo bottiglie grandi di Peroni. Uno dei tre tavolini era il nostro, mio, di Franco e di Roberto. Uno era riservato ai calabresi, quattro vecchi di quarantacinque anni, in servizio permanente continuo nel bar: carte, sigarette e frequenti raffiche di Dio fa’, la bestemmia che gli immigrati dal sud imparavano a infilare ogni quattro parole per mostrare ai torinesi la loro ferma intenzione di integrarsi. Dio fa’, variante troncata di Dio fauss, dio falso e bugiardo. Bestemmia da officina, da pezzo che cade dal tornio, bestemmia che marca l’arrivo dell’addetto ai “tempi e metodi”, col suo cronometro. Bestemmia da fonderia, da colata di ghisa che acceca all’improvviso; bestemmia da lavoro, abusivamente esportata al bar, per accompagnare una primiera mancata o un rigore negato alla giuventus.
Il terzo tavolo era vuoto, sempre.
Ogni volta diciamo che torniamo là, dove si erano consumate le nostre utopie adolescenti, sotto lo sguardo dei calabresi. Ma poi, ogni volta, preferiamo piazza Vittorio e il decoro spudoratamente vintage della Drogheria. Ogni volta significa poi una volta l’anno: è quella la frequenza con cui io e Franco ci vediamo. E la sera, rientrando a casa, diciamo alle nostre mogli che l’incontro è stato bellissimo, che abbiamo ripreso il discorso da dove l’avevamo lasciato l’anno prima, come se i trecentosessantacinque giorni in mezzo fossero stati congelati in una breve parentesi; ma non è vero, semplicemente ci piace crederlo. Roberto invece è desaparecido; ultimo domicilio conosciuto: Bonn. Persino Facebook si sottrae al compito di ritrovarlo. E poco ci importa.
Siamo seduti al bar dunque, io e Franco. E parliamo, e davvero lo facciamo come se il tempo non fosse passato, come se credessimo ancora nella parola che cambia il mondo.
«La gente è esasperata: prima o poi qualcuno riprende a sparare.»
«Non credo,» faccio io «la lezione degli anni ’70 l’abbiamo imparata.»
Lui insiste.
«Io sento dire da tutte le parti: “Ci vorrebbero le Brigate Rosse”.»
Il barista ci guarda, con l’aria di chi non ama che si facciano certi discorsi. L’uomo al banco ne approfitta per afferrare la bottiglia di prosecco e servirsi da solo.
«Non ho nessuna nostalgia per quel periodo.»
«Non ti piacerebbe che qualcuno infilasse una pallottola in mezzo agli occhi a qualche ministro? O magari a qualche giornalista, a quelli più spudorati, a quelli più venduti, quelli che hanno abbastanza faccia da culo per dire che è la sinistra che controlla i mezzi di informazione.»
Prima di rispondere mi prendo un attimo per pensare a tutte le volte che, di fronte alla televisione, mi è venuto il voltastomaco. Un attimo, per pensare alla sofferenza vera che abbiamo sentito tutti noi, schiavi ma non servi. E in quell’attimo mi rendo conto di aver provato il desiderio di ucciderli, loro e i potenti a cui baciano la mano. Ma non riesco a dirlo. Non ho il coraggio per ammettere di aver contemplato l’omicidio politico come igiene del nostro paese. Quindi mi rifugio nella banalità assoluta: «La violenza non è mai una soluzione».
Franco capisce che sto mentendo in malo modo e mi incalza: «Te lo ricordi il rapimento Dozier vero? Non dire che non stavi dalla parte delle Brigate Rosse perché non ti credo».
Ha ragione. Se almeno una volta nella tua vita avevi manifestato per la libertà in Cile o contro l’apertura di nuove basi NATO, in quell’occasione non potevi che essere dalla parte delle Brigate Rosse. No, non lo dicevi apertamente, ma a scuola, negli intervalli o durante le ore di officina, dove parlare col compagno era l’unica strategia di salvezza, il sequestro Dozier assumeva contorni epici. Era Robin Hood contro lo sceriffo di Nottingham, era Davide contro Golia. Un generale americano! Era la scelta della vittima che faceva amare il carnefice.
«Sì, un comandante NATO in mano ai brigatisti era un godimento.»
«Era come il Toro che batte il Real Madrid, nel ’92.»
Gli sorrido: mi piace il paragone. Lui torna alla carica: «Allora facciamo un po’ di tifo per la P38?».
E con la mano abbozza un gesto che la mia generazione conosce, quello con il pollice, l’indice e il medio a imitare una pistola.
È a quel punto che l’uomo al banco si alza dallo sgabello, è di poco più vecchio di noi. Osservo il suo incedere traballante e immagino che debba andare in bagno. Invece fa due passi e si ferma, davanti al nostro tavolo, lo sguardo appannato. E, tutto a un tratto, il suo muoversi lento, da pachiderma stanco e disorientato, si trasforma in un guizzo. È col sinistro che colpisce il mento di Franco. Non so se sia mancino, ma il colpo è fiacco, spento; Franco non avrebbe difficoltà a restituirglielo, con più forza, ma rimane lì, inebetito, a prendersi, dopo il pugno, l’invettiva dell’altro: «Non bestemmiare» gli urla sfidandolo con gli occhi. «Con la P38, le Brigate Rosse hanno ucciso un mio compagno di scuola. E anche un altro, uno che abitava vicino a casa mia, alla Falchera, un amico di mio padre…»
La voce, impastata fin dalle prime parole, si spegne e l’uomo esce dal bar. Il barista ci guarda di nuovo, un po’ come a dire che ce la siamo cercata e un po’ per verificare che la cosa sia finita lì, che a Franco non venga in mente di inseguirlo o di aspettarlo per spaccargli la faccia: non voglio rogne nel mio locale.
Ma Franco è più avvilito che arrabbiato. Il cazzotto lo ha appena solleticato, ma le parole sono andate più in profondità e hanno riportato alla luce un’immagine che noi, che ci avviciniamo alla cinquantina, abbiamo sepolto nell’animo nel 1979, quando vivere in questa città faceva paura, quando niente ti metteva al riparo dall’eventualità di essere la prossima vittima. È l’immagine di un ragazzo di diciotto anni che, per caso, si trova in mezzo a una sparatoria: si butta a terra, dietro un’auto, ma questo gesto non basta a salvargli la vita. Non è una scena che abbiamo visto, ce l’hanno raccontata, e proprio per questo ci è parsa ancora più drammatica. Ci hanno detto che, vedendo il ragazzo scomparire dietro la macchina parcheggiata, il brigatista si è chinato e ha fatto partire una raffica all’altezza del suolo, per uccidere. Ancora oggi non so se davvero sia andata così o se Emanuele sia stato colpito da un proiettile vagante quando era ancora in piedi, ma poco importa. Di certo so che non è stato un brigatista a sparare, ma uno di Prima Linea.
«Secondo te,» mi chiede Franco «quello lì era compagno di Emanuele Iurilli?»
Annuisco, in silenzio, e lui abbassa lo sguardo: si vergogna di aver inneggiato al terrorismo.
Franco era accanto a me il 9 marzo del 1979, nell’officina di aggiustaggio dell’istituto tecnico che entrambi frequentavamo per alimentare il sogno familiare di avere un figlio alla Fiat. La notizia della morte di un ragazzo che stava rincasando da un altro istituto tecnico ci aveva ammutoliti e il chiacchiericcio, che di solito accompagnava lo stridere della lima su un pezzo serrato nella morsa, era cessato di colpo rendendo ancora più lugubre l’officina.
«E l’altro? Quello della Falchera?»
«Credo si riferisse a Carmine Civitate. È stato ucciso da Marco Donat-Cattin e da un altro, ma si è trattato di uno scambio di persona: volevano ammazzare un certo Villari che secondo loro era responsabile della morte di due compagni. Ma anche Villari non c’entrava niente.»
«Com’è che sai tutte queste cose?»
«È perché hanno a che vedere con la storia di Guido Marchisio, uno che ho intervistato qualche mese fa. Mi sembrava una vicenda interessante la sua, ma il giornale non me l’ha pubblicata.»
«Marchisio quello della Moosbrugger?»
«Lo conosci?»
«Sì, perché era amico di…»
In fondo ci conosciamo tutti, perché siamo nati a Torino e a Torino i gradi di separazione sono sempre meno di sei, perché siamo cresciuti tutti sotto l’occhio vigile della stessa matrigna, quella che una volta dettava il ritmo del nostro lavoro, del nostro riposo, che definiva l’orizzonte dei nostri sogni e che oggi, invecchiata e indebolita, è come quelle donne, un tempo bellissime, che del loro passato di creature magnifiche e crudeli, non hanno saputo conservare che la spietatezza.
2

UN PUGNO SULLA TEMPIA

Come in quella di chiunque altro, anche nella vita di Guido Marchisio ci sono alcune date che segnano una frattura insanabile: il 26 ottobre 2011 è una di queste.
Quando io ero bambino, a scuola girava una leggenda metropolitana che suonava così: lo sai che se ti danno un pugno sulla tempia subito non ti accorgi di niente e poi dopo tre giorni muori? A garantire della veridicità dell’informazione era sempre un cugino, o un fratello maggiore o qualcuno che aveva un amico a cui era capitato. Il 26 ottobre 2011 per Guido Marchisio è un colpo alla tempia: lì, sul momento, non si accorge di nulla, ma dopo qualche tempo si accascia.
Il 26 ottobre 2011, alle ore 8.45, Guido Marchisio premette così forte il clacson che, quando ritrasse la mano, quello continuò a suonare ancora per qualche secondo prima di tornare, con uno scatto secco, in posizione di riposo. La Panda verde davanti a lui aveva proceduto a passo di lumaca fino a che il semaforo non era diventato giallo e poi rosso: solo a quel punto aveva accelerato riuscendo a passare prima che, dalla traversa, iniziasse la processione dei camion. Non sapeva se era più inferocito per il deficiente della Panda o per il fatto che lui stesso, quel giorno, guidava una Panda, rossa per di più. Sulla portiera, la sua auto mostrava una scritta bianca: GERMANCAR – AUTO SOSTITUTIVA. La Mercedes che l’azienda gli aveva messo a disposizione doveva passare il tagliando e lui si trovava lì, in una sardomobile.
E forse pensava all’umiliazione dell’utilitaria quando, senza riflettere, coordinò l’occhio con il piede e schiacciò l’acceleratore appena la luce verde del semaforo bucò la foschia. Non so invece quali fossero i pensieri dell’uomo alla guida dell’autobotte Shell che a quel semaforo non fece troppa attenzione. Quando Guido Marchisio si voltò a sinistra, raggelato dal rumore dei freni, il muso del camion era già così vicino che poteva leggervi la scritta di plastica cromata piazzata tra il vetro e la griglia del radiatore: IVECO TURBOSTAR.
Non capirò mai perché, nell’imminenza della fine, non potendo contribuire in alcun modo alla salvezza e realizzando l’inevitabile, la nostra mente si rifugi in particolari di nessun conto: il colore della camicia dell’uomo che sta per spararci, il profumo di funghi che avvertiamo mentre manchiamo una presa e precipitiamo nel vuoto, la marca dell’autocarro che sta per travolgerci.
Vent’anni prima, mentre preparava l’esame di analisi matematica, Guido era rimasto affascinato dal concetto di “limite”, di “tendente a zero” e quando, durante le lezioni di disegno meccanico, si trovava in mano due matite, non era raro che giocasse ad avvicinarle sempre più, cercando di capire quale fosse il momento esatto in cui lo spazio tra loro era il più piccolo possibile senza ancora essere nullo, in cui la loro distanza diveniva infinitesima pur mantenendosi maggiore di zero. Il 26 ottobre 2011 egli capì che la differenza tra “zero” e “tendente a zero” poteva essere la differenza stessa tra la vita e la morte. Nel momento in cui il rumore di freni si spense polverizzando nell’aria il ferodo delle pastiglie, la distanza tra il paraurti del camion e la fiancata della Panda non era maggiore di quella tra le due matite con le quali aveva cercato di dare concretezza al “limite”.
Probabilmente, se solo avesse potuto aprire la portiera, sarebbe sceso ad affrontare il camionista, magari lo avrebbe persino preso a pugni. Invece, bloccato nella sua scatola di latta, il respiro troncato dalla paura, si accontentò delle mani che l’altro, da dietro il parabrezza, alzava in segno di scusa.
Il tempo, che per qualche secondo si era smarrito, riprese a scorrere; il mondo, pietrificato, tornò a essere fluido. Guido avviò di nuovo il motore imballato e si scostò quel tanto che bastava per leggere la targa del mezzo pesante: BJ 214 CW. La memorizzò, senza problemi: ci era abituato. Poi ripartì, alla testa di un corteo di automobilisti divenuti all’improvviso più prudenti, più silenziosi. E si ritrovò a guidare come certi vecchi, aggrappato al volante, il naso a un palmo dal parabrezza, quasi fosse il vetro a essere appannato e non la sua mente...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le colpe dei padri
  4. 1. Ci vorrebbero le Brigate Rosse
  5. 2. Un pugno sulla tempia
  6. 3. Gentleman agreement
  7. 4. Creature dell’ombra
  8. 5. Carlotta
  9. 6. Ristrutturazione
  10. 7. Marchisio – Contreri
  11. 8. La domenica della buona gente
  12. 9. Come un ospedale
  13. 10. Ernesto Bolle
  14. 11. Mia mamma è maestra
  15. 12. È cominciata così
  16. 13. Il numero 7
  17. 14. Flash-bulbs
  18. 15. Fiat 850 rossa
  19. 16. Re Cecconi
  20. 17. Libera nos a luame
  21. 18. Legatt e Goliadkin
  22. 19. Sotto l’ascella
  23. 20. Via Giacomo Dina 40
  24. 21. Storia di Bello
  25. 22. Via Giacomo Dina 42
  26. 23. Le colpe dei padri
  27. 24. Se consideri le colpe
  28. 25. La cura
  29. 26. The social network
  30. 27. È successo quello che è successo
  31. 28. Quando a mio padre si fermò il cuore
  32. 29. Latinorum
  33. 30. Privato, pubblico, ultra-pubblico
  34. 31. La sindrome di Stoccolma
  35. 32. Io lavoro al bar di un albergo a ore
  36. 33. Il ferroviere
  37. 34. Nomi e cognomi
  38. 35. La smagliatura
  39. 36. Questo è il giorno che salgono le nebbie dal fiume
  40. Copyright