La passione che ci fa vivere
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La passione che ci fa vivere

  1. 168 pagine
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La passione che ci fa vivere

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L'uomo è l'unico essere vivente insoddisfatto della sua natura. Vibra in lui il presentimento di uno stato più perfetto e felice. Per lunghi periodi si adatta a vivere secondo regole prefissate, seguendo stanche abitudini, ma c'è un momento in cui decide di rompere ogni vincolo ed esplorare territori sconosciuti.
È quello che Francesco Alberoni chiama lo "stato nascente", una vera e propria morte-rinascita da cui si genera un nuovo modo di essere.

Il grande studioso dei sentimenti umani e dei movimenti collettivi sostiene che questa forza primigenia ci è stata inculcata nell'anima dalla Natura, e non senza motivo. Essa ci costringe a creare sempre, a guardare al futuro, a sperare contro ogni speranza. È quello "stato di grazia", che in un bagliore di lucidità ci fa credere che il mondo può migliorare, che noi possiamo diventare persone migliori, e che tutto ciò che è stato finora, quella che chiamiamo vita reale, era, in realtà, una povera vita inautentica, dolorosa.

Lo "stato nascente" è la passione che fa scorrere in noi una vita di estrema intensità, diventiamo infaticabili e tutte le nostre paure scompaiono. Scompare anche la paura della morte, perché non si ha paura di morire quando si ha l'impressione di muoversi verso ciò che è vero, giusto e bello.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858512906

1

L’UOMO INSODDISFATTO

L’uomo è l’unico essere vivente insoddisfatto della sua natura. Lo è sempre stato, anche nel più remoto passato, tant’è vero che ha immaginato degli esseri immortali e felici: gli dèi. Solo chi è fragile, infelice, mortale, e non vuole esserlo, può immaginare qualcuno che non lo è e considerarlo più reale di se stesso. Gli dèi sono sempre stati ciò che gli uomini desideravano essere. O, meglio, sono sempre stati ciò che l’uomo sentiva che avrebbe dovuto essere, la parte più profonda, più vera, più nobile di sé. Per pensare a se stesso, l’uomo ha dovuto sdoppiarsi: da un lato il suo io, miserabile e mortale e dall’altro la divinità. Questa sua natura mortale l’uomo non l’ha mai accettata completamente anche se l’ha subita, se ha cercato, in ogni modo, di farsene una ragione, di darsi una spiegazione di ciò che «gli è successo» venendo al mondo, intelligentissimo e fragilissimo, capace di pensare a un tempo infinito e, nel contempo, condannato alla vecchiaia e alla morte.
L’uomo si è accorto subito che la sua vita è, rispetto a ciò che egli può immaginare, incredibilmente breve, addirittura qualche cosa di assurdo, uno «scherzo di natura». Noi siamo così abituati ai lamenti dei poeti e dei filosofi sul tempo che fugge, che vola in un attimo, alla vita che sembra trascorsa in un istante, da considerarle cose banali e noiose. Ma spesso ciò che è veramente importante è proprio ciò che è più ovvio, più risaputo, più banale. Se, da che mondo è mondo, gli uomini si sono sempre lamentati della brevità della loro vita, se hanno continuamente ripetuto che questa vita è un istante e niente di più, vuol dire che questa è una esperienza fondamentale, essenziale, primordiale e ricorrente. Noi non possiamo considerarla come un errore, o un lamento, o una esagerazione. Se c’è vuol dire che ha una ragione, e una ragione profonda. Questo è il nostro punto di partenza: l’uomo è insoddisfatto della sua natura e ha una ragione per esserlo, una ragione importante.
Che sia così lo si intuisce subito anche guardando le cose dal punto di vista della evoluzione biologica. Su un corpo che non differisce molto da quello degli altri primati è cresciuto in un tempo breve – sia esso di uno o due milioni di anni – un immenso cervello costituito di miliardi di cellule e capace di miliardi di miliardi di operazioni. Questo straordinario apparato pensante non è nemmeno tutto sviluppato alla nascita. Le fibre nervose, infatti, non sono tutte mielinizzate. Si sviluppa nel corso degli anni e può essere messo in funzione solo attraverso una complicatissima istruzione. Se il cervello non subisse danneggiamenti dovuti alle malattie, ai tossici, all’invecchiamento, potrebbe imparare una quantità incredibile di cose. E invece è stato collocato in un organismo che ha la stessa capacità di rigenerazione cellulare degli altri animali. Il risultato è che non appena ha incominciato a funzionare a pieno regime, diciamo a venti-venticinque anni, il cervello incomincia a deteriorarsi perché intossicato, mal ossigenato, colpito da malattie. Cionostante, in genere, esso sopravvive a tutti gli altri organi corporei che, a poco a poco, si distruggono. Le arterie si ispessiscono, il fegato e i reni funzionano sempre più malamente, le articolazioni si irrigidiscono. Con la vecchiaia questo strumento perfetto viene letteralmente murato vivo dentro il corpo e deve assistere impotente al disfacimento di tutto l’organismo, poi al suo stesso disfacimento e, infine, alla sua morte.
Nel suo bellissimo racconto Fiori per Algernon, Daniel Keyes1 narra di un povero idiota che, grazie a una terapia, diventa intelligente, addirittura un genio. Però la fase di grande attività cerebrale dura pochissimo. A poco a poco riappare la demenza. Lui, intelligentissimo, è allora costretto ad assistere allo scempio che avviene dentro di sé. Una esperienza atroce, straziante. In realtà la vicenda di Algernon è quella di ciascun uomo che viene murato vivo nel proprio corpo, costretto ad assistere alla propria progressiva distruzione, pezzo per pezzo, fino alla morte. Ecco perché è adeguata l’espressione «scherzo di natura». È infatti come se qualcuno avesse costruito uno smisurato calcolatore che richiede decenni di lavoro per essere messo in funzione. Però questo calcolatore non l’ha installato in un grande edificio razionale, non l’ha protetto, alimentato in modo appropriato. No, lo ha lasciato in edifici decrepiti o addirittura all’aperto, al sole, all’aria, al vento, sotto l’acqua, dove incomincia a deteriorarsi prima di essere programmato e dove, in poco tempo, diventa un rottame2. Immaginiamo ora che questo calcolatore sia dotato di coscienza. Cosa dovrebbe pensare di se stesso? Cosa dovrebbe dire dei suoi costruttori?
Gli uomini hanno capito subito che il loro corpo era penosamente inadeguato rispetto alle loro capacità intelletuali e vi si sono sentiti ospiti stranieri. È così che è nata – in tutte le società e in tutti i tempi – l’idea di un’anima immortale costretta a stare in un corpo mortale. Noi abbiamo oggi l’impressione che i nostri antenati siano stati un po’ megalomani nell’attribuirsi un’anima immortale, addirittura divina. E megalomani ci sembrano i loro sacerdoti, sciamani e mistici che hanno sempre preteso di essere in contatto con le divinità, cioè con qualcosa di distinto e superiore alla natura. Ma questo era il modo con cui essi esprimevano l’immediata, insopprimibile esperienza di portare in sé qualcosa che trascende il dato della natura: una sovranatura. Questo orgoglio primordiale è l’altra faccia del rifiuto primordiale di cui abbiamo parlato.
Da un lato quindi l’uomo si è attribuito un’anima immortale, della stessa natura degli dèi o della loro sostanza, una scintilla divina che anima la materia. Anche nella Bibbia Dio ha fatto l’uomo a «sua immagine e somiglianza». Dall’altro, però, quegli stessi uomini hanno cercato, in ogni modo, di spiegarsi perché, nonostante questa parentela con Dio o gli dèi, era toccata loro in sorte una vita così breve, povera e piena di dolori. E per farsene una ragione hanno descritto la loro condizione come illusione (indù e buddisti), destino (i greci), come caduta della scintilla divina nella materia (zoroastriani, manichei, gnostici), come peccato da espiare (ebrei) o come una croce da portare (cristiani). E tutte le religioni e tutte le filosofie hanno sempre promesso, o in questa vita, o nell’altra, o alla fine dei tempi, la fine della miseria e del dolore. Non però nello stesso modo.
Una prima fondamentale divisione è quella che separa la tradizione indiana e, in modo particolare, il buddismo, da quanto invece è avvenuto in Occidente. In India, verso il VI secolo prima di Cristo, si è diffuso il convincimento che l’universo, il mondo, il corpo, l’infinita varietà delle cose che nascono e muoiono nel tempo, siano solo e soltanto una illusione. L’uomo è insoddisfatto della sua natura perché, in realtà, ciò che gli appare come natura è un inganno, un gioco di specchi. Chi crede nella natura e nel tempo è come se cadesse in un sogno. La morte e la rinascita sono un cadere da un sogno in un altro sogno e tutti angosciosi. Rinunciando a credere nel sogno, cioè rinunciando a credere nel tempo e nelle cose, rinunciando ai desideri, all’ambizione, allo sforzo, ci si può risvegliare, cioè uscire dal sogno. Secondo questa prospettiva non si deve modificare la natura, anzi ci si deve disinteressare di lei. Più la si «prende sul serio», più si interviene, più si resta imprigionati nell’illusione cosmica.
Totalmente opposto è stato lo sviluppo dell’Occidente.
Qui l’insofferenza che l’uomo ha provato nei riguardi della sua natura si è dapprima tradotta in religioni che promettono la fine della «prigionia» nel corpo e il ricongiungimento con Dio. Le religioni misteriche greche, il giudaismo, il cristianesimo e l’islam, sono tutte «religioni di salvezza». La «salvezza» è la fine di quello stato angoscioso in cui l’uomo si trova buttato e che queste religioni spiegano come caduta o come colpa. A prima vista queste religioni sembrano passive come quelle orientali. Ma non è così. L’universo, infatti, non è una illusione, ma il prodotto della creazione divina, qualcosa in cui l’uomo è tenuto ad agire3.
Ma anche le religioni occidentali, da sole, non avrebbero prodotto una trasformazione. In Occidente, in realtà, ha agito un meccanismo ancora più radicale: gli uomini si sono ribellati alla loro condizione e hanno cercato di trasformare la loro natura. Solo in Occidente è stata portata avanti, e senza riserve, quella trasformazione pratica a cui noi diamo il nome di progresso tecnico. Negli abissi della preistoria gli uomini si sono scoperti senza pelo e avevano freddo, senza zanne ed erano minacciati da animali predatori, senza la capacità di arrampicarsi come le scimmie o la capacità di fuggire come le gazzelle, ed erano circondati di pericoli. Se si fossero limitati a considerare tutto il mondo illusione, concentrandosi nella meditazione, cosa sarebbe accaduto di loro? Se si fossero limitati a sognare una vita più felice dopo la morte, o una redenzione collettiva, sarebbero mutate le cose? Per fortuna, dobbiamo dire, essi non si sono limitati a maledire la loro natura idiota ma, popolando l’universo di potenze immaginarie, hanno creato a se stessi il modello da seguire. Non c’è una sola delle scoperte dell’uomo che non sia stata immaginata millenni e millenni fa. I primi documenti umani in nostro possesso ci mostrano una umanità che immagina, fantastica cose meravigliose. Gli dèi si spostavano alla velocità del vento o del pensiero, parlavano a distanza fra di loro e con gli uomini. I giganti innalzavano montagne e scavavano fiumi; i maghi avevano specchi con cui guardare a distanza, tappeti volanti, filtri per guarire le malattie. Questa immaginazione non è stata solo un compenso alla mancanza, ma una traccia per il desiderio, una guida per l’intelligenza e per l’azione.
1 DANIEL KEYES, Fiori per Algernon, in Aa.Vv., Le meraviglie del possibile, Einaudi, Torino 1959.
2 FRANÇOIS JACOB in Le jeu des possibles, Fayard, Paris 1981, p. 75, usa questa espressione: «È un po’ come l’installazione di un motore a reazione su una vecchia carretta per cavalli». Sul tema della rapida evoluzione della neocorteccia vedi H.J. JERISON, Evolution of the Brain and Intelligence, Academic Press, New York 1973.
3 Per quanto riguarda il destino umano nel mondo, la differenza essenziale fra tradizione ebraico-cristiana e induismo è la seguente: la dottrina induista è ciclica, tanto che vede il succedersi della nascita e della morte come un eterno ritorno, a cui si sfugge mediante l’eliminazione della «maya». Invece il pensiero ebraico è lineare, tanto che l’uomo, seppur tra cadute e trasalimenti, può concludere e completare la sua esperienza di vita in Dio. Su questo confronto, vedi G. PARRINDER, Upanishads, Gita and Bible, Faber and Faber, London 1962. Se la vita è, per la tradizione ebraico-cristiana, una linea retta verso la salvezza, e non un cerchio da cui si fuoriesce nel «nirvana», si può capire come mai in essa si innestino le successive idee di evoluzione e progresso, se non addirittura il moderno «spirito» capitalistico. Cfr. M. WEBER, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano 1961 e L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965. Di qui si deduce anche che il realismo umanistico – da Feuerbach e Marx fino all’esistenzialismo ateo di Sartre – coglie solo un aspetto della religione cristiana. Sì, è vero che l’uomo finito aliena la sua essenza in Dio, che l’uomo sensibile è misura di tutte le cose (vedi L. FEUERBACH, L’essenza della religione, Einaudi, Torino 1972) e che l’uomo aspira a essere il Dio da lui stesso creato (vedi J.-P., SARTRE, Essere e nulla, Il Saggiatore, Milano 1964). Ma non è vero che lo slancio metafisico sia una «passione inutile». L’uomo anzi è «salvo» proprio quando agisce per superare la sua «natura idiota».

2

LO “STATO NASCENTE”

L’uomo non solo è insoddisfatto della sua natura, ha anche un’idea, un’intuizione di uno stato incredibilmente più perfetto e più felice. Ogni tanto l’uomo intravvede una superumanità, e un nuovo uomo. Vi è una esperienza che noi facciamo, di quando in quando, nella nostra vita e che i gruppi sociali e i popoli incontrano nella loro storia. Io l’ho chiamato stato nascente. Infatti non è un modo di essere stabile, duraturo, ma è come un nascere, un risvegliarsi, uno scoprire che il possibile è aperto davanti a noi, che il mondo può essere meraviglioso e che tutto ciò che è stato finora, quella che chiamiamo la vita reale, era, in realtà, una povera vita inautentica, dolorosa. Nello stato nascente noi rompiamo le barriere che ci tengono stretti, spezziamo le norme della società a cui ubbidiamo tremando perché, ora, ci sentiamo portatori di diritti che nessuno può più conculcare. Ci sentiamo in comunione profonda con gli altri uomini, con tutti gli altri uomini. E se ci ribelliamo e combattiamo contro chi ci ostacola è perché costoro, ai nostri occhi, non impediscono solo la nostra particolare soddisfazione, ma perché si oppongono a un piano generale di liberazione, anche alla loro stessa liberazione. In questo stato sentiamo scorrere in noi una vita di estrema intensità, diventiamo infaticabili e tutte le nostre paure scompaiono. Scompare anche la paura della morte perché non si ha paura di morire quando si ha l’impressione di muoversi verso ciò che è vero, giusto e bello. Ci accorgiamo allora anche che tutti gli uomini, un giorno, potranno diventare fratelli, costituire una unità di ordine superiore, unanime, dove tutti restano liberi e, nello stesso tempo, tutti vogliono la stessa mèta. E ci dimentichiamo degli interessi meschini e volgari perché privi di importanza. Pur realizzando nel più profondo noi stessi, è come se abbandonassimo la nostra personalità empirica, con i suoi limiti e i suoi difetti. Ci apriamo, infatti, a una comprensione, a una generosità, a un altruismo di cui non ci saremmo sentiti capaci. Tutto diventa grande e divino intorno a noi, eppure tutto resta anche umanissimo perché lo stato nascente non è una ebbrezza, non è diventare superuomini. Tutto ciò che siamo e siamo stati infatti ci appare povero e fragile e noi sappiamo di essere ancora così. Quella umanità traboccante di vita, di intelligenza e di generosità è solo intravvista, è la mèta verso cui noi ci muoviamo. Da sola basta a renderci felici, ma resta una mèta. Spesso questa mèta appare prossima, imminente, altre volte più lontana. Lo stato nascente, comunque, non è l’approdo nel porto paradisiaco, è l’aprirsi di una porta sull’essere, un intravvederlo nella sua splendente perfezione.
Quando proviamo questa esperienza? Innanzitutto quando ci innamoriamo. Innamorarsi non è soltanto essere attratti da una persona, vederla bella e desiderabile. È un mutamento interiore di tutto l’essere; noi vediamo l’amato diverso perché siamo diventati diversi. La nostra sensibilità si è centuplicata, i colori sono diventati luminosi, i suoni limpidi. Per il fatto di amare lui, il nostro amato, anche tutte le altre persone ci appaiono in altro modo. Innanzitutto più umane. Mentre prima quasi non le vedevamo, ora riusciamo a intuire i loro sentimenti, è come se fossimo diventati capaci di metterci in comunicazione con loro. Non abbiamo più voglia di mentire. Soprattutto con noi stessi e con l’amato. Ripercorriamo, nel ricordo, la nostra vita e ci accorgiamo che, prima di aver incontrato chi amiamo, questa vita era meschina, insipida. L’amato non è la perfezione, noi vediamo i suoi difetti; se è piccolo, o magro, o ha il naso lungo, oppure corto. Ma tutte queste cose cessano di diventare difetti, perché noi riusciamo ora a vederne la essenzialità e il valore. I nostri occhi diventano capaci di scoprire la bellezza dell’essere così come è. E se l’amato ci dice di sì, allora siamo felici e vorremmo che il tempo si fermasse, e vorremmo che tutti gli altri esseri umani fossero anch’essi felici, e tutta l’umanità e tutto l’universo a cui ci sentiamo intimamente, solidarmente uniti.
Ma lo stesso tipo di esperienza l’abbiamo se, nella nostra vita, ci accade di convertirci a una fede, sia essa religiosa o politica. Anche la conversione è una rivoluzione interiore, una metanoia, come diceva san Paolo, attraverso cui la nostra vita passata e il mondo, così come ci era apparso finora, diventano privi di valore. E, davanti a noi, si apre un nuovo mondo che ci attrae e ci spaventa, perché è il meraviglioso e il terribile, perché convertirsi significa lasciare tutto ciò che è noto, affrontare il disprezzo della gente, l’incomprensione degli amici, l’incertezza che continuamente si affaccia dentro di noi.
Lo stato nascente non è un pacifico stato di certezza. Nell’amore, come nella conversione, noi ci buttiamo in un rischio esistenziale, gettiamo la nostra vita al di là, verso la speranza luminosa senza sapere – perché nessuno ce lo può dire – se la via è percorribile. Quando ci innamoriamo non sappiamo se saremo riamati con la stessa terribile forza che ci trascina. In realtà non sappiamo neppure con sicurezza se amiamo. Ci accorgiamo di amare perché il pensiero dell’amato ci ritorna continuamente in mente anche se lo vogliamo scacciare, perché ci assale un desiderio di piangere, un bisogno di rivedere i suoi occhi sia pure per un istante, di sentirci accarezzare sia pure per l’ultima volta. Ci accorgiamo che siamo innamorati perché il nostro amore ci si impone. Ma non siamo certi dell’amore dell’amato; potrebbe essere una infatuazione, un capriccio e, infatti, abbiamo bisogno di chiederglielo continuamente: mi ami? L’amore è un gettarsi nell’abisso del tutto e del niente; è vedere la luce e correrle incontro, anche a rischio della vita. Ma lo stesso avviene nella conversione. Il dio che ti è apparso...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La passione che ci fa vivere
  3. Introduzione
  4. 1. L’uomo insoddisfatto
  5. 2. Lo “stato nascente”
  6. 3. La “chiamata”
  7. 4. Inquietudine e desiderio
  8. 5. Il libero arbitrio
  9. 6. La terra come un giardino
  10. 7. Morte e rinascita
  11. 8. Il mistero dentro di noi
  12. 9. L’uomo nuovo
  13. 10. La strada dell’improbabile
  14. 11. Felicità e volontà di potenza
  15. 12. Impermanenza e cambiamenti
  16. 13. Il giorno del giudizio
  17. 14. Pessimismo e ottimismo
  18. 15. Il valore della complessità
  19. 16. Progresso e incertezza
  20. 17. La vertigine dell’evoluzione
  21. 18. Scienza e povertà
  22. 19. La forza che ci trascende
  23. Copyright