Tokyo Orizzontale
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Tokyo Orizzontale

  1. 266 pagine
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Tokyo Orizzontale

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Informazioni sul libro

« Laura sa far schioccare le parole come piace a me! » La Pina, speaker di Radio DeeJay Quattro ragazzi si incontrano una notte, a Shibuya, nel quartiere più giovane e convulso di Tokyo. Tutto avviene per caso, a cavallo di un'eclissi di luna. Sara, Hiroshi, Carmen e Jun sono diversi, come discorde è la loro visione dell'amore e della vita. Nella città-melograno i quattro si sfiorano senza saperlo, si trovano e si perdono un attimo dopo. Sara cerca l'amore definitivo, Hiroshi qualcuno che accetti con lui il fallimento, Carmen è bugiarda e si piega alla passione mentre Jun pretende il mondo riverso ai suoi piedi. Tokyo li guarda, li separa e li avvicina nell'arco di tre giorni soltanto, destinati tuttavia a cambiare la vita di ognuno di loro. Perché è questo che Tokyo fa alle persone: le cambia.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858510476

Domenica

Ore 00.04

Shibuya ha l’odore aspro e acidulo delle cose andate a male. È una città difficile da respirare e costringe chi la percorre a improvvise apnee. Sono vampate improvvise, odori di cibi diversi che si incontrano nell’aria, fognature difettose che svelano il liquido di governo del quartiere. Come i sottaceti e il loro aceto, i carciofini e il loro olio, c’è Shibuya e c’è il marciume che nasconde sotto al letto, nelle fessure di un lavello mai pulito a fondo, le cianfrusaglie riposte in un cassetto prima dell’arrivo di un ospite inatteso.
Arrivano così, senza farsi annunciare, profumi e puzze che soltanto nell’aria potrebbero incontrarsi. Ramen e patatine fritte del McDonald’s, zaffate di Armani o di Chanel sulla pelle delle donne e sudore acido su quella dei vecchi; caramello delle crêpes e vomito di chi beve per buttare fuori noia e dispiaceri.
Le si notano appena quelle bocche che s’aprono di poco per far entrare dell’aria giusto il necessario o il palmo di una mano che s’avvicina alla faccia nel tentativo di difendere lo spazio davanti al proprio naso.
È scoccata da poco la mezzanotte di un sabato sera d’estate del duemilanove e Hiroshi, Carmen, Jun e Sara si trovano tutti a Shibuya, ognuno però con un diverso odore addosso e un sapore differente nella bocca.
Hiroshi esce da un fumoso bar a pochi passi dalla stazione e dopo aver provato invano a mettersi in contatto con il cellulare di Sara, pensa che gli piacerebbe portare quella straniera proprio lì, una notte, a bere qualcosa, mostrarle così la bellezza del rosso schiantato su tutte le pareti del locale e il luccichio delle decine di lampadari appesi al soffitto o attaccati ai muri. Hiroshi ha addosso il profumo di Masako che, pochi istanti fa, ha preso a braccetto lui e Hideo fingendosi ubriaca. In bocca ha un sapore amaro di birra che lo rende pensieroso e incastrati tra i molari ha frammenti di edamame.
In quell’istante Carmen e Jun escono da un love hotel a poca distanza dal Lion che ormai ha chiuso da parecchio. Si dirigono verso la piazza di Shibuya con tanti foglietti nelle tasche e altrettanti pensieri fissi in gola. Lei avrebbe bisogno di Sara, di chiederle pareri e sgomitare tra i dispiaceri dell’amica per ricevere attenzione, srotolare quei pezzetti di carta, tradurre quanto serve, mostrare i vari passaggi e decidere se poter infine essere felice. Un odore dolciastro di carne li investe e si voltano entrambi verso la griglia degli yakitori di un ristorantino colmo di uomini in giacca e cravatta. In bocca Carmelita ha il sapore del sesso di Jun e addosso ha il suo sudore.
Nello stesso momento Sara procede molto lentamente verso le strisce pedonali, con una sonnolenza crescente e una marea in pancia. Il ragazzo mulatto la segue. La custodia nera a tracolla e due aloni scuri sotto le ascelle.
Fa caldo questa notte, l’eclissi si avvicina e Tokyo s’emoziona.
A Shibuya un incontro vale quanto un’esistenza, Sara lo sa bene. Incontrarsi è maledettamente complicato. Perché la gente corre in direzioni divergenti e la fretta brucia i tempi necessari a sedimentare ciò che si è seminato. Anche Carmen se lo dice, a Shibuya attendere significa perdere. Le persone s’aggrappano l’una all’altra per paura di affogare. I salvagenti, gli unici veri appigli nella grande metropoli giapponese, sono le persone, non solo gli amici o i conoscenti ma tutti gli abitanti, quella folla informe che avvolge le persone e le fa sentire meno sole.
Sara cammina tra la gente. Lo fa con molta lentezza e pensando troppo. La tortura il pensiero di un altro incontro fallito, di un altro contatto smarrito tra le vie di Tokyo e che ha la certezza non recupererà mai più. Perché è una donna intelligente e sa che si ritrovano solo le cose che sono state nostre e non quelle che ci hanno sfiorato.
Sara cammina tra la gente. Lo fa con molta lentezza, passo dopo passo. Oltre le strisce pedonali di Shibuya. E ha in mente un pezzo di musica elettronica che pompa il suo volume, come amplificatore dei battiti cardiaci delle persone che ha intorno. È un brano dei SayCet e fa un chiasso assordante. Continua a camminare ma sente che lo sta facendo solo perché ormai non può più fermarsi, il semaforo sta per cambiar divisa e il lato opposto della strada è ancora lontano.
Sara cammina ma la gente quasi non c’è più. Il semaforo lampeggia già da un po’. Una vertigine calda le si ficca nello stomaco e sale, con moto circolare, fino al tubo della gola, raggiunge l’attaccatura della spina dorsale, i timpani e fa a brandelli il suo senso d’equilibrio. Si ritrova a piegarsi su se stessa mentre arranca.
Il semaforo adesso è rosso e le poche persone rimaste corrono.
Una spallata la raggiunge a destra e la borsetta di una tipa le graffia il braccio.
Sua sorella, Hiroshi, soprattutto Hiroshi, la faccia interrogativa di Carmen, il tizio del mese scorso, sua sorella, e ancora Hiroshi: tutto insieme in una centrifuga. Si porta le mani alla testa mentre le macchine partono e sente da lontano arrivare i loro clacson.
Poi un istante e una mano le afferra il polso tirandola a sé.
Dita robuste non mollano la presa mentre un turbine di vertigini, come mai ne ha avute prima, corrono scalmanate dallo stomaco alle tempie sussurrando un infantile girotondo: la gente, i palazzi, i semafori rossi e le dita arrotolate sul suo polso. Tutt’intorno tutt’intorno, giro girotondo, casca il mondo casca la terra tutti giù per terra. Girotondo, girotondo, casca il mondo casca la terra e tutti giù per terra. Tutt’intorno tutt’intorno giro tondo giro tondo e casca il mondo. Casca la terra. E tutti giù per terra.
«Io ti conosco» dice la voce attaccata a quella mano.
Sara la prende come una promessa e abbandona il peso del corpo a ciò che resta della piazza.

Ore 00.40

«Guarda che a me piace aspettare.»
«Eh? Non ti infastidisce neanche un po’?» domanda sorpresa Masako, poi aggiunge: «Io lascerei stare al posto tuo. Se una non risponde o ha il cellulare staccato o è un segno. Insomma non è destino, no?».
«Non credo al destino» sentenzia Hiroshi. «E faresti bene a non crederci neanche tu. Porta solo a tante rinunce.»
«Il destino esiste eccome» risponde Masako un poco risentita «e se la tipa non risponde vuol dire che non è il caso di insistere.»
Nessuno controbatte ma Masako non è soddisfatta.
«Ma davvero non ti dà fastidio aspettare?»
«Penso le cose migliori mentre aspetto.»
«Su di lei o su te stesso?»
«Dipende dalle volte.»
«E ora a cosa stai pensando?» rintuzza languida Masako.
«Cose banali» ridacchia Hiroshi
La ragazza ha un brivido lungo la schiena. È brilla, straparla, ma vorrebbe esserlo di più. Si stringe il corpo tra le braccia fingendo d’aver freddo. C’è solo la notte, l’aria odorosa di Shibuya e qualche risata sguaiata che proviene da una strada parallela. Dalla sua parrucca verde scendono gocce di sudore, come rugiada su un prato tosato di fresco.
«Non si può sapere a cosa pensi? Cosa c’è dentro alla tua testa? Non si può?» chiede la ragazza tirando fuori le labbra e ostentando un finto dispiacere. Rosica Masako e rosica di brutto.
«Dai aniki, diccelo ti prego» interrompe Hideo ridendo.
«Smettetela di prendere in giro. Piuttosto andate avanti, provo un’ultima volta a chiamare e poi vi raggiungo dentro.»
«Mi raccomando ricordati di portarti dietro la card del locale o il pollice della mano destra.»
Masako si mette il pollice in bocca e lo tira fuori umido di denti e di saliva.
Lo può fare, è ubriaca e così può infine essere se stessa, selvaggia e scostumata.
«Già già. Al Womb si entra o così» e Hiroshi disegna nell’aria il perimetro di una carta rettangolare «o così.» E mima il gesto con cui si lasciano le impronte digitali.
«Vada per il pollice allora» conclude e fa il segno dell’ok. Masako vorrebbe avvicinarsi a quella mano e mettersi in bocca anche il pollice di Hiroshi, ancora puntato verso l’alto. Ma non può farlo, neanche fingendosi ubriaca.
Hideo li guarda parlare. Vede gli occhi di Masako rivolti altrove, come sempre lontani da quelli di Hiroshi, e vede lo sguardo del fratello posato distrattamente su entrambi. Hideo ha sempre interpretato l’atteggiamento della ragazza come una sorta di venerazione nei confronti di Hiroshi, in quanto suo fratello. La voglia folle che Masako nutre per Hiroshi e per la sua voce cupa, il suo desiderio di farci l’amore in modo violento e di scambiarsi confidenze sconvenienti, Hideo la prende per una forma di rispetto prima di tutto verso sé e poi, solo di riflesso, verso Hiroshi. Come a dire: “Amo tutto ciò che ami tu solo perché lo ami tu... la tua famiglia è la mia famiglia...”.
Hideo non sospetta, lui è come era suo padre: limpido e ingenuo. Due buone ragioni per essere amato e, con la stessa ovvietà, anche disprezzato.
Hideo cinge la vita di Masako mentre si dirigono verso l’ingresso del Womb ma lei, inquieta, si gira a guardare Hiroshi che traffica con il cellulare.
«Non capisco tutta questa insistenza. Se una non risponde non risponde, dovrebbe finire tutto là» dice la ragazza.
«Speriamo sia la volta buona invece» sussurra Hideo.
«Per cosa?»
«Per trovare la donna giusta.»
«Ma chi? Quella che ha chiamato te invece che lui?»
Hideo annuisce.
«Dici che lo è?»
«La volta buona? Potrebbe. Hai visto che faccia ha fatto quando gli ho detto il nome di quella ragazza?»
«Ma dai, è assurdo. A me sembra comunque troppo presto. Si sono appena scambiati i numeri di cellulare e lui per sbaglio non le ha dato neanche il suo ma il tuo.»
«Macchan, è colpa mia. Il portafogli di Hiroshi è pieno dei miei biglietti da visita più che dei suoi. Fa il fratello maggiore e mi vuole fare pubblicità con i clienti, quindi se li tiene sempre a portata di mano.»
«Per prima cosa non chiamarmi con quel nome ridicolo» lo interrompe bruscamente Masako continuando poi stizzita «e comunque tuo fratello è troppo sbadato per fare il salaryman. E se scambia i suoi biglietti da visita con i tuoi anche sul lavoro? Finché è con una bicht straniera.»
«Ma che ne sai, magari aveva solo alzato un po’ il gomito quella sera e non ricordava neppure il proprio nome, capita...» cerca di ironizzare Hideo, perplesso dall’improvviso astio nella voce di Masako.
«Capita? E a chi? E poi anche scambiarsi i numeri di cellulare quando si è ubriachi non è il massimo. Figurati se da un incontro così può nascere una cosa seria» sputa acida Masako. La parrucca le cala un po’ sugli occhi e lei la butta indietro con rabbia.
«Perché no? Sono giovani, in fondo questo è uno dei tanti modi di iniziare una relazione a Tokyo.»
«E tu che ne sai di come si inizia una relazione a Tokyo? La prima e l’ultima storia che hai avuto inizia e finisce con me. E posso dire con certezza che tu non sei un esperto.»
Hideo non capisce e si limita a guardarla, ritirandosi in un silenzio di difesa.
«Non ne sai niente tu. Niente di niente! E lui... uno che si innamora della prima bitch che gli dà il suo numero di cellulare? Tuo fratello è un coglione!» grida la ragazza strappandosi con violenza la parrucca dalla testa.
Due giovani giapponesi in tacchi a spillo la guardano con curiosità. Una si gira ridacchiando verso uno dei gruppetti in attesa davanti all’entrata del locale.
Hideo si vergogna, lui è fatto così. Tollera ogni cosa e sembra che lo faccia senza sforzo. Ma poi scoppia e quando accade di solito non si fa vedere da nessuno. Vede sul volto di Masako un’espressione a cui non sa dare un nome. E finisce, come sempre, che il nome se lo inventa, perché in fondo poco cambia. Se una donna non vuole dirti cosa sta provando, non te lo dirà. E anche se insisterai, lei userà parole e concetti così complicati che non capirai comunque niente. Tanto vale stare zitti e far da sé.
Sì, Masako è ubriaca stasera e magari è anche troppo protettiva nei confronti di Hiroshi, ecco cosa è. Sì, ubriaca e protettiva. Ha bevuto troppo e ha paura che Hiroshi possa soffrire. Sì, è così. Ubriaca e protettiva.
Poi raccoglie la parrucca da terra, la strofina sulla giacca per pulirla e la ripone con dolcezza nello zaino.

Ore 00.45

«Ehi, stai bene? Cazzo, sei caduta all’improvviso. Se non ti raccoglievo io facevi la fine di una bottiglietta di plastica sotto le ruote di un camion. Stai bene?»
Sara non sa dove si trovi né chi sia il tipo piegato su di lei, ma sa per certo che la risposta a quella domanda ce l’ha stampata in faccia.
«Tutto ok?»
Sara tace e aspetta pazientemente che l’altro le dia qu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tokyo orizzontale
  3. Venerdì
  4. Sabato
  5. Domenica
  6. Un anno più tardi
  7. Glossario
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright