Un treno sta risalendo la pianura padana verso Milano; si è lasciato alle spalle il mare e i paesi che si intravedono appena dal finestrino, in mezzo ai boschi di castagni, subito ingoiati dal buio delle gallerie.
In uno scompartimento di seconda classe c’è una ragazza; è sola, e il treno è semivuoto in questo mercoledì pomeriggio di una stagione qualunque.
La ragazza è molto giovane, ha capelli scuri raccolti dietro la nuca in un nodo morbido, pantaloni chiari che si allargano a zampa d’elefante sulle zeppe alte di sughero. Le hanno raccomandato di rendersi anonima il più possibile, nell’abbigliamento e nel modo di comportarsi, e lei ha ripassato nella mente, con pignoleria e più volte, tutti i particolari di quel viaggio cominciato alla stazione di Genova. È il suo primo incarico importante, non può commettere errori, ma è calma e precisa per carattere, e anche per questo l’hanno scelta.
Il primo appuntamento è a Voghera. Aveva subito pensato che strano proprio questa città, e per tutto il viaggio aveva combattuto contro la tentazione di lasciarsi andare alla suggestione evocativa dei nomi delle cose e delle città. Avrebbe voluto essere più vuota, più capace di fare vuoto dentro di sé, non lasciarsi distrarre.
Sfoglia lentamente una rivista di moda senza nemmeno vederla e le pagine lucide le sfilano opache davanti agli occhi. Anche leggere una qualunque rivista femminile durante un viaggio in treno fa parte di quel corredo di normalità che tutti loro dovevano per forza acquisire. Ma intanto pensava a Voghera; e non riusciva a tenere a bada quel sottile stato di ansia che ravvicinarsi a quella città le procurava ogni volta; come se avesse ancora dieci anni, quando la città le era arrivata addosso all’improvviso per la prima volta. Ne aveva sentito il nome annunciato dall’altopariante della stazione, mentre il treno rallentava. E poi la scritta grande a lettere nere, sospesa sui binari come una minaccia. Sembrava una città qualunque, un po’ grigia e triste, ma forse bisognava guardare meglio, affacciarsi al finestrino e cercare di capire quale malefico potere possedesse. Perché la voce di sua madre le risuonava ancora in testa, mentre urlava al marito con voce rancorosa frasi incomprensibili di cui non afferrava il significato, ma solo il suono minaccioso e incombente; una delle più ricorrenti era quella puttana di Voghera. Lei, che sentiva tutto anche se non avrebbe proprio voluto, all’inizio non lo sapeva che Voghera era una città, e non conosceva nemmeno il significato di quell’altra parola. Poi aveva imparato che Voghera era una città sulla linea ferroviaria Genova-Milano, e che suo padre passava di lì una volta ogni quindici giorni, quando era di turno su quella linea. Spesso ci passava la notte. Poi con il tempo aveva capito anche il significato di quell’altra parola e tutto era diventato più chiaro. Ma non era mai riuscita a dissociare il nome di quella città dalle sensazioni sgradevoli provate la prima volta che era passata di lì e aveva sbirciato dal finestrino solo con gli occhi, con il batticuore e un senso di repulsione e insieme di curiosità per qualcosa di misterioso e proibito.
Altre volte, in seguito, aveva immaginato lunghe file di donne invitanti e sguaiate lungo il marciapiede della stazione, come le era capitato di vedere in Via Prè. Altre volte invece aveva immaginato la puttana di Voghera in una di quelle case tristi e un po’ annerite che si intravedevano in mezzo alla nebbia, mentre il treno entrava in stazione lentamente; case in cui per cena forse si mangiava la minestrina con il dado come a casa sua.
Aveva sperimentato anche un’altra volta il potere oscuro delle parole sconosciute e il significato minaccioso che potevano assumere.
Questa volta protagonista era il nonno paterno, e lei era molto piccola. Il nonno si arrabbiava raramente, ma diventava furioso quando parlava di un tale senza nome, e lei molto più tardi avrebbe scoperto che si trattava del fratello, l’unico che avesse, arrivato con lui da un paese di contadini del Sud.
Avevano in tasca qualcosa di importante, i semi di un fiore di campo che forse avrebbe potuto essere coltivato in serra in grandi quantità, dopo trattamenti di loro invenzione. Fu così, infatti, e quei semi portarono ricchezza, ma solo al fratello cattivo che se ne appropriò. Il nonno rimase un contadino povero mentre l’altro diventò un ricco coltivatore di fiori e vicino alle serre costruì una bellissima villa bianca e avevano l’automobile.
E il nonno urlava maledetti ranuncoli, quello era il fiore, il ranuncolo. Ma lei per molto tempo aveva pensato che i ranuncoli fossero animali cattivi e malefici, e che somigliassero ai ragni, e anche quando aveva scoperto che si trattava di fiori non era mai riuscita a vederli come tali; e quel fiore le era sempre sembrato un po’ sinistro, con quei petali fitti chiusi intorno al cuore giallo e privi di profum...