Creta
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Creta

1941-1945 La battaglia e la resistenza

  1. 438 pagine
  2. Italian
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Creta

1941-1945 La battaglia e la resistenza

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Nella primavera del 1941, dopo il fallimento del tentativo d'invasione da parte dell'esercito italiano, la Grecia continentale fu occupata dalla Wehrmacht. Il 20 maggio, i tedeschi scatenarono un'imponente offensiva per conquistare anche Creta, fondamentale per il controllo del Mediterraneo orientale. Dopo dodici giorni di accanita battaglia, in cui ebbero un ruolo decisivo i paracadutisti, i tedeschi sconfissero le truppe inglesi, australiane e neozelandesi. Il duro regime di occupazione che instaurarono scatenò la resistenza degli abitanti che, aiutati dagli infiltrati britannici, fecero di tutto, a rischio della vita, per sabotare le attività militari tedesche.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858638095

Parte seconda

La battaglia di Creta

Capitolo 6

«Una seconda Scapa Flow»

Per gli esausti evacuati dalla Grecia continentale diretti a Creta, il profilo delle Montagne Bianche sopra l’orizzonte fu una delle prime vedute dell’isola. La maggioranza delle imbarcazioni con truppe a bordo ormeggiò nella baia di Suda, un porto naturale lungo 8 chilometri, protetto a nord dalla massa rocciosa di un’ampia penisola, Akrotiri, e a sud dal grande dirupo di Malaxa.
All’imbocco della baia c’erano le rovine di un castello veneziano, ma la loro attenzione fu attirata soprattutto dallo scafo di un piccolo bastimento bombardato dalla Luftwaffe. Era solo il preludio delle scene cui avrebbero assistito all’interno della baia: fumaioli e alberi di imbarcazioni affondate, due o tre navi che bruciavano in continuazione dopo ogni incursione aerea, e sovrastrutture danneggiate sparse un po’ dappertutto. L’incrociatore York giaceva arenato, con la poppa in secca, dopo un audace attacco di sei barchini esplosivi della marina italiana. Sul lungomare il villaggio di Suda, una fila di case basse bombardate o abbandonate, non era una visione incoraggiante.
Il 25 aprile quattro battaglioni della 2a divisione neozelandese arrivarono a Suda, ripetendo così a 26 anni di distanza il famoso Anzac Day (il giorno in cui il corpo di spedizione neozelandese e australiano era sbarcato a Gallipoli). Il ricordo della pianificazione britannica in quell’occasione non poteva essere di grande conforto per le truppe dei Dominion. Erano giunte da Porto Rafti a bordo del trasporto truppe Glengyle e degli incrociatori Calcutta e Perth.
Sul molo l’attività proseguiva nervosamente, dal momento che con ogni probabilità i bombardieri sarebbero ritornati. Un ufficiale dello stato maggiore britannico si avvicinò alle loro unità a bordo di una lancia sbraitando ordini: tutte le armi, con l’esclusione dei fucili e delle pistole personali, dovevano essere ammassate sul ponte. Il generale James Hargest, comandante della V brigata neozelandese, capì subito che non avrebbero mai più rivisto l’equipaggiamento che avevano portato attraverso tante difficoltà dalla Grecia e rifiutò. L’ufficiale insistette dicendo di essere il responsabile di quel settore e quindi i suoi ordini dovevano essere eseguiti. «Non mi sorprende», rispose Hargest, «che lei sia il comandante di questa ignobile zona, se è questo il modo in cui la comanda. Le assicuro che i miei non molleranno le armi.»1 Nonostante il rifiuto di Hargest, un distaccamento della polizia militare britannica sul molo riuscì a impadronirsi dell’armamento pesante di alcune compagnie. I neozelandesi non erano i soli. Quasi tutte le unità, britanniche o dei Dominion, che sbarcavano a Suda erano salutate da questa indimenticabile lezione: i soldati che non avevano abbandonato le armi durante la ritirata avevano fatto uno sforzo inutile.
Sul lungomare furono inquadrati in compagnie, ma dopo essersi avviati in «un discreto buon ordine», il tentativo di fare le cose secondo i regolamenti ebbe fine. Uomini esausti provenienti dalla Grecia si accasciarono ai bordi della strada e si tolsero gli anfibi. All’interno, verso La Canea, lontano dalla zona del porto e dal puzzo di combustibile che bruciava, le truppe trovarono tavoli di fortuna dietro i quali i soldati britannici già sull’isola distribuivano tavolette di cioccolato, tè e pacchi di biscotti.
La vista delle uniformi stirate e pulite dei soldati del reggimento gallese, che faceva parte della guarnigione composta dalla XIV brigata di fanteria, ebbe un effetto positivo sul morale depresso dei superstiti. Gli uomini che si allontanavano da Suda imboccando Tobruk Avenue, com’era stata ribattezzata dagli inglesi, erano sporchi e stanchi. Molti avevano la testa scoperta perché avevano gettato via l’elmetto d’acciaio durante la ritirata e l’uniforme sbottonata per il caldo. I ragazzini cretesi che vendevano gelati a due dracme ciascuno fecero ottimi affari.
Per disperdere questi ingombranti assembramenti – 27.000 uomini nel corso di una settimana – vennero schierate truppe dietro Suda e La Canea, lungo la striscia di terra che andava dalle colline ai piedi delle Montagne Bianche e il mare. Si inoltrarono nei boschetti di ulivi – sulle carte i campi di raccolta non erano segnati in modo più preciso delle concessioni minerarie – cercando di sistemarsi il meglio possibile. Il calore delle giornate di primavera era ingannevole e la notte era fredda per chi si era bagnato il cappotto durante la ritirata.
Quando i reparti si furono riuniti in una zona appositamente predisposta, l’«Annie Lorry», il camion viveri, andò in giro a distribuire razioni: carne e marmellata in scatola da mangiare con le gallette che altrimenti in bocca si sarebbero tramutate in gesso. C’era poco pane a causa della mancanza di forni, ma quando l’esercito greco si offrì di mandare dai campi di prigionieri fornai italiani, l’ufficiale in comando rifiutò: «Non potevamo permetterlo. Avrebbero potuto avvelenare i nostri ragazzi».2 Con ammirevole spirito di sopportazione i greci offrirono allora i propri fornai, dicendo che loro avrebbero utilizzato la manodopera italiana.
La carne in scatola, detta anche «cane in scatola», doveva essere estratta dal contenitore con un coltello a serramanico e portata alla bocca con la lama. Seguirono le arance generosamente offerte dai cretesi, ma l’improvviso consumo di grandi quantità di frutta ebbe i suoi effetti. I boschetti di ulivi furono ben presto coperti di escrementi e il rituale dello scavo delle latrine non fu facilitato dalla carenza di utensili adatti.
I bicchieri preferiti erano le lattine tonde da 50 sigarette Player’s Navy Cut, ma i più dovettero accontentarsi delle scatole di carne svuotate per farsi il tè, ma anche per bere vino e raki. Le scarse razioni di tè e zucchero – un sacchetto per compagnia – insieme con l’ospitalità cretese aumentarono considerevolmente il consumo di vino rosso locale. Il termine greco krassi (vino rosso) – poi diventato krassied up (sbronzo) – rimase a lungo dopo Creta nello slang dei reparti.
L’affollamento attorno a La Canea si fece sempre più preoccupante. C’erano anche diverse migliaia di profughi civili in mezzo alle truppe e agli sbandati: specialisti di terra della RAF senza aerei da riparare, meccanici senza attrezzi, autisti senza veicoli, genieri senza equipaggiamenti e ritardatari provenienti da reggimenti e da formazioni minori.
L’apparizione di un aereo da ricognizione – noto come «occhio fino» – costrinse i nuovi arrivati a tuffarsi a pancia sotto nelle trincee. Un paio di piloti della RAF si ritrovarono addosso a una giovane molto attraente. Mentre cercavano di districarsi e di rimettersi in piedi, riconobbero nella ragazza Nicki del night Argentina. «Salve, Nicki», disse uno dei due con un sorriso. «Signora Pirie, prego!» rispose altezzosa per sottolineare il suo nuovo status.3
Per molti civili Creta rappresentò poco più di una tappa nella loro fuga verso l’Egitto. Spesso avevano meno motivi dei soldati di fidarsi delle autorità. Quando le forze del generale Wilson si erano ritirate sulla linea delle Termopili, Lawrence Durrell telegrafò da Calamata al suo superiore al British Council di Atene chiedendogli istruzioni. Ricevette questa risposta: «Tieni duro! Viva la Gran Bretagna!»4, ma solo per scoprire in seguito che l’autore del conciso messaggio era poi fuggito a gambe levate.
Durrell, la moglie Nancy e la loro neonata Penelope sfuggirono al caos militare di Calamata solo perché un ex ufficiale della marina mercantile, un loro amico di Corfù, li accolse a bordo del suo caicco. Dopo essere sbarcata nell’antico porto veneziano di La Canea, Nancy Durrell disse di sfuggita ad alcuni soldati australiani di non avere più latte per la neonata. Con spensierato vandalismo, i soldati sfasciarono con i calci dei loro fucili le persiane verde scuro dei negozi vicini e le portarono tante scatole di latte condensato che le sarebbero bastate per sei mesi. Ma i guai dei Durrell non erano ancora finiti. Dopo dieci giorni a La Canea, partirono per l’Egitto, dove i civili che non erano in grado di dimostrare la loro identità venivano tenuti in una località sorvegliata. Non essendo riuscito a mandare un cablo in Inghilterra per informare la madre della loro fuga, Durrell ebbe la fortuna di riconoscere fuori del recinto un giornalista del Daily Mail. Lo chiamò e gli raccontò la loro vicenda.
I profughi più importanti, in particolare la famiglia reale greca, non incontrarono queste difficoltà. Giunto a Iraklion in idrovolante, il sovrano si stabilì dapprima a Villa Ariadne a Cnosso, dove fu accolto dal curatore del sito, R.W. Hutchinson, da sempre noto come «il cavaliere». La villa edoardiana, con giardini ombreggiati da palme e piombaggini, era stata costruita da Sir Arthur Evans dopo che lo zio del re, principe Giorgio, gli aveva concesso nel 1900 di appropriarsi del principale sito minoico. Dopo essersi ritirato dall’attività, Evans la trasformò in un centro archeologico britannico. Dal 1930 al 1934, negli anni che seguirono il ritiro di Evans, John Pendlebury vi aveva vissuto in veste di conservatore, mentre la presenza di sua moglie rompeva con la tradizione monastica del luogo.
La principessa Caterina, la signora Britten-Jones e il premier Tsouderos raggiunsero Giorgio II alla villa. Ma dopo pochi giorni passati a Cnosso, il re e i suoi consiglieri decisero di trasferirsi all’altra estremità dell’isola, dal momento che La Canea era diventata la sede ufficiale del governo greco.
Benché restia ad abbandonare il fratello, la principessa Caterina, si lasciò convincere a partire per il Cairo a bordo di un idrovolante. Il principe ereditario Paolo, la principessa Federica (entrambi sofferenti per gli assalti delle cimici cretesi) e la signora Britten-Jones, sempre nella sua discreta funzione di dama di compagnia, volarono ad Alessandria, poi il 2 maggio al Cairo, a bordo della stesso quadrimotore Sunderland del generale Wilson.
Maniadakis, ministro della Sicurezza Pubblica, arrivato a Creta con un gran numero di membri della sua polizia segreta, si unì al re e al premier Tsouderos. Questo gesto fu considerato talmente provocatorio dai cretesi che l’ex viceconsole britannico ad Atene e il suo omologo a La Canea si rivolsero al sovrano e a Tsouderos per avvertirli degli umori della popolazione locale. Maniadakis fu mandato in Egitto dove i suoi 50 agenti segreti si misero subito a diffondere odio e paura nella comunità in gran parte sostenitrice di Venizelos. I due viceconsoli britannici pensavano che il re e il suo governo avessero perso molto prestigio durante il breve soggiorno sull’isola. I diplomatici britannici tendevano a non vedere quanto scontento il re suscitava, forse perché lo stesso Giorgio II si sentiva autorizzato a confidarsi con loro come raramente gli riusciva di fare con i suoi concittadini. Una volta disse a Charles Mott-Radclyffe con convincente semplicità che «l’equipaggiamento essenziale di un qualunque re di Grecia era una valigia con dentro l’Apocalisse».5
La presenza del re in una roccaforte repubblicana come Creta, fedele al ricordo di Venizelos, il suo più illustre cittadino, non era di buon auspicio. Tsouderos, in quanto cretese e filomonarchico, apparteneva a una specie abbastanza rara, ma in quanto banchiere e uomo politico, agli occhi dei cretesi era diventato in pratica un ateniese per sua scelta.
Più di tutti gli altri greci, i cretesi non avevano mai perdonato al sovrano di aver garantito il 4 agosto 1936 una dubbia legittimità alla dittatura di Ioannis Metaxas. Le tradizionali simpatie venizelane erano andate deluse e durante il secondo anniversario del decreto di agosto i cretesi erano insorti. In seguito le loro armi – strumenti e simboli della resistenza all’oppressione straniera – erano state confiscate. Questo suscitò nella popolazione un disappunto ancor maggiore dell’essersi ritrovata in pratica disarmata davanti all’invasione nazista. Dopo la guerra, in occasione del plebiscito sulla monarchia del 5 settembre 1946, Creta risultò a stragrande maggioranza contraria al re. Ma i comunisti cretesi, al contrario dei loro compagni sulla terraferma, non riuscirono mai ad arrivare al potere.
Il carattere dei cretesi – bellicoso, orgoglioso, istintivamente generoso verso gli amici o gli stranieri, spietato verso i nemici o i traditori, parsimonioso nella vita quotidiana, ma prodigo nei festeggiamenti – era di sicuro molto influenzato dal paesaggio caratterizzato da drammatici contrasti in cui abitavano. Le ricche zone costiere a nord, gli interminabili boschetti di ulivi, le fertili vallate e le zone pianeggianti nascoste nelle terre alte, tutto era dominato dalla grande dorsale delle cordigliere di calcare dell’isola, le Montagne Bianche, la catena del Kedros, il monte Ida o catena di Psiloritis, e infine dai monti Lasithi o Dikti a est. Distanti 15 chilometri in linea retta, ma probabilmente 60 a piedi, da una vegetazione subtropicale con banani, carrubi e aranceti, villaggi di montagna sembravano esistere in un mondo e in un clima molto diversi.
I villaggi di montagna delle aree centrali dedite all’allevamento di pecore (e ai furti di bestiame) erano poco più di una manciata di casupole imbiancate a calce attorno a una semplice chiesa ortodossa. La dieta a base di formaggio di capra e di pecora, di patate e talvolta di carne era dura e monotona quanto la vita, ma l’aria era rinvigorente e così pulita che le ferite guarivano con sorprendente rapidità. Anche sulla costa, a Retimo, un paracadutista tedesco colpito da una pallottola che gli aveva forato le narici scoprì di potersi soffiare il naso senza difficoltà una settimana più tardi.
Sulle alture un uomo acquistava fama in base al numero di pecore che possedeva, in pianura in base al numero di ulivi; si diceva che Creta ne avesse 20 milioni. I villaggi delle valli e degli altipiani esibivano alberi di gelso cimati lungo entrambi i lati della strada, con i tronchi calcinati per difenderli dagli attacchi degli insetti. Davanti le case erano abbellite da piante in vaso e fiori, e sul retro crescevano ciliegi e pergole create dalle viti. La vita era meno difficile, ma la gente non era meno generosa. Solo nelle grandi città di Iraklion e La Canea gli abitanti sembravano aver perso alcune delle tante qualità dei cretesi che erano riuscite a sopravvivere, o addirittura prosperare, in secoli di occupazioni straniere con i loro cicli di rivolte e repressioni.
Il fatto che La Canea diventasse la nuova capitale della Grecia parve ai cretesi un’idea molto poco brillante. Rimasero imperturbabili anche quando gli affitti delle ville raggiunsero cifre in precedenza inimmaginabili. Non sembrava che questa ondata di denaro giungesse anche ai negozietti dalle persiane scolorite e dalle mercanzie sempre più scarse. E i cretesi maschi non rinunciavano alla loro abitudine di sorbire il caffè alla turca leggendo i giornali nei locali pubblici.
Gli uomini, perlopiù di mezz’età, dal momento che i giovani erano rimasti intrappolati con la divisione cretese sulle montagne dell’Epiro, offrivano un bizzarro contrasto al nuovo arrivato. Quelli che abitavano in città indossavano abiti informi, mentre quelli che vivevano in collina esibivano mustacchi che dovevano farli apparire feroci e il tradizionale costume cretese consistente in un copricapo nero con un pompon – il sariki –, un panciotto ricamato e una cintura, ovvero una fascia del colore delle more sopra grandi pantaloni a sbuffo – i soldati inglesi li chiamavano «reggimerda» – e alti stivali che davano il tocco finale a quell’abbigliamento da pirati o da cavalieri erranti.
I cretesi accolsero i soldati britannici come parenti lontani che fossero arrivati inattesi da un altro Paese. Stephanides vide un gruppo di cretesi che danzavano il pentozali – un ballo molto vivace – fermarsi per invitare i soldati a unirsi a loro. Gli imbarazzati britannici, a disagio nelle loro ruvide uniformi mimetiche, cercarono di impararne i movimenti e furono i primi a ridere insieme con i ballerini della loro stessa goffaggine.
Per quelli che erano sfuggiti ai combattimenti sul suolo greco, l’isola di Creta rappresentò un meraviglioso rifugio, essendo un luogo d’incredibile bellezza e di grande ospitalità, dove i bicchieri erano continuamente sollevati in brindisi alla causa comune. Pur essendo forti bevitori, i cretesi rimasero stupiti dalle spaventose sbronze che gli anglosassoni erano capaci di prendere. Secondo il grado della loro ubriacatura, i soldati inebetiti vagavano cantando canzoni sentimentali od oscene. Se la BBC trasmetteva canzoni popolari come The Banks of Loch Lomond o There is a Tavern in the Town i soldati in preda alla nostalgia si radunavano subito attorno a una radio.
Il bere aveva anche l’effetto di portare alla luce la tensione che già esisteva tra i soldati dei Dominion e i simboli britannici dell’autorità, poliziotti militari o ufficiali che fossero. I neozelandesi e gli australiani a Creta non erano né regolari né coscritti, ma si erano offerti volontari per la durata della guerra e la loro mancanza di rispetto – quasi un punto d’onore per i militari del continente australe – costringeva gli ufficiali britannici a evitarli ogni volta che fosse possibile. All’arrivo in Egitto un neozelandese aveva salutato così un ufficiale britannico piuttosto languido che si trastullava con uno scacciamosche: «Ehi, dove hai messo il resto del cavallo?».6 Sicuramente i neozelandesi avevano la loro quota di «lavativi» e di gente che si era arruolata per evitare qualche grana con la polizia e la giustizia, ma al contrario degli australiani non incutevano timore negli ufficiali britannici.
Un capitano dei carristi, che aveva già incontrato gli australiani in Grecia, notò scherzando solo in parte a proposito della 6a divisione australiana: «Credo che siano stati reclutati nelle prigioni».7 A La Canea un ufficiale britannico, vedendo un australiano riempirsi le tasche con la frutta di una bancarella e rifiutare di pagare la vecchia fruttivendola, lo rimproverò solo per ritrovarsi sotto il naso la canna di una pistola tedesca. E un cretese raccontò di come, quando un colonnello britannico (forse Jasper Blunt) che accompagnava il re di Grecia era andato a sedare una rissa fuori dalla finestra dietro la quale lui e il sovrano stavano parlando, l’australiano responsabile del baccano lo aveva preso per la gola e per poco non l’aveva strangolato.
Di notte le misure degli australiani per evitare attacchi aerei consistevano nello sparare a qualunque luce vedessero, dal fiammifero per accendere una sigaretta ai fari oscurati di un veicolo. Harold Caccia ricordava di essere transitato una notte accanto a una zona sotto la loro sorveglianza e di aver passato «uno dei momenti di maggiore tensione della mia vita».8 Poco dopo, a Retimo, questa indisciplinata marmaglia avrebbe combattuto i paracadutisti tedeschi con selvaggi...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Ringraziamenti
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. Appendici
  9. Note
  10. Bibliografia e fonti
  11. Indice