IV
Il dispiegamento della mente e il pensiero
Vestigium secretissimae unitatis.
Riflesso di un’intima recondita unità.
Agostino, Confessioni I, 19
Con l’elaborazione dei contenuti acquisiti – quelli che emergono dai sensi e quelli richiamati di volta in volta dal «grande libro» della memoria – comincia l’insieme di attività cerebrali superiori, che si suole definire mente. Da questo punto di vista, l’uso della parola mente è più che ragionevole. Anch’io, da uomo di scienza che ritiene la nostra testa composta soltanto da molecole, cellule e circuiti nervosi, la utilizzo nel linguaggio quotidiano. Secondo i più, però, il termine mente designa qualcos’altro distinto dal cervello e dal suo funzionamento, al di sopra di esso, che corrisponde all’incarnazione forse più tenace e duratura dell’idea tradizionale di anima.
Pochi, infatti, al giorno d’oggi parlano di anima al di fuori dell’ambito religioso, ma moltissime persone nominano in continuazione la mente: per costoro questa è in fondo il sostituto secolare dell’anima stessa, un’istanza e un’attività superiori e capaci di dare un senso e un obiettivo alle diverse operazioni portate avanti dal cervello. Si tratta in fondo del vecchio dilemma dualismo-monismo: se cioè nella testa esistono due piani, quello del cervello e quello della mente, oppure esclusivamente il secondo. (Io personalmente non conosco nessuno che sostiene il primo.) Quando si tratta di dichiararsi in pubblico, sono pochissimi quelli che si definiscono apertamente dualisti, ma i loro discorsi li qualificano in maniera indiscutibile come dualisti, nel senso che danno per scontata l’esistenza nella nostra testa di qualcosa d’altro rispetto al cervello; salvo non riuscire a precisare di cosa si tratti. Credo sia utile addentrarci nei meccanismi del cervello, per mostrare come tutti i suoi processi siano spiegabili in termini rigorosamente scientifici.
Quella che io chiamo mente è stata a volte battezzata, soprattutto in passato, mente computazionale, perché computation in inglese equivale al nostro calcolo. In questa accezione si definisce quindi la mente che conduce operazioni logiche rigorose e razionali, o quasi.
Innanzitutto, cerchiamo di stabilire cos’è la razionalità. Esiste senza dubbio una razionalità elementare che ispira più o meno ogni azione, altrimenti gli animali farebbero un mucchio di cose insensate. Si tratta di una razionalità appunto essenziale – permette di girare a destra se la preda è andata in quella direzione o accelerare se quella aumenta la velocità – che negli animali superiori e sociali si può tradurre anche in strategie più complesse, in grado di produrre risultati migliori. Molti animali sanno anche compiere operazioni aritmetiche elementari e contare con un po’ di approssimazione un certo numero di elementi.
Possiamo parlare in questo caso di ragionamento? In situazioni semplici e immediate il sistema nervoso degli animali superiori è in grado evidentemente di discernere una condotta quasi razionale e di seguirla. Nel caso degli animali, anche più evoluti, ci si riferisce comunque a meccanismi automatici o semiautomatici da applicare alle situazioni più frequenti e consuete. Occorre che le percezioni non siano troppo in contrasto con l’andamento delle cose del mondo e che i meccanismi automatici della decisione siano sufficientemente adatti al tipo di vita che conduce in genere l’individuo. Una parte di quello che non è automatico e innato può essere poi appreso durante la vita osservando i membri più maturi del gruppo.
Se la situazione è molto nuova, se non è facile cogliere tutte le condizioni che concorrono a definirla e se il ragionamento richiede più di uno o due passaggi logici, tutto questo non è sufficiente e induce gli animali a comportamenti erratici o incongrui. Negli esseri umani invece può sembrare una capacità raziocinante di ordine superiore, che richiede di solito una maggior ampiezza di visione, una più lunga concatenazione di passaggi logici e un certo grado di astrazione.
Si entra così nel regno della logica e del ragionamento consequenziale, quelle facoltà che contraddistinguono l’uomo, come c’insegnano fin da bambini, e che permettono di definirlo come animale razionale.
Infatti si è scoperto in seguito che nessuno ragiona secondo queste linee e che nessun individuo è sempre perfettamente logico. Quella aristotelica deve essere ugualmente considerata un mirabile monumento dello spirito umano, poiché la logica è una disciplina, l’unica forse, ad essere nata adulta.
I princìpi che la logica deve seguire e i metodi necessari e sufficienti per elaborare logicamente proposizioni e dati di partenza sono stati individuati talmente bene che su di essi si sono basate la creazione e l’evoluzione della programmazione del pensiero artificiale dei computer e di tutti gli automatismi a essi correlati. Infatti l’informatica e la cosiddetta Intelligenza Artificiale sono stati i veri beneficiari delle conoscenze accumulate con la logica classica e i suoi successivi sviluppi. Ci troviamo così di fronte all’ennesimo paradosso: le leggi della logica da noi individuate non governano il nostro modo di ragionare, anche se potrebbero farlo, ma sono state fondamentali per imitarlo nei programmi dell’informatica. La nostra mente potrebbe insomma funzionare benissimo seguendo i princìpi che regolano i calcolatori, ma non lo fa, perché è nello stesso tempo superiore e inferiore a essi: superiore perché è molto più veloce nel portare avanti alcuni processi e può tenere conto di molti più dati al contorno allo stesso tempo; inferiore perché nella procedura lineare è assai più lenta e si stanca dopo pochi passi, mostrando spesso vere e proprie smagliature.
Può stupire che la nostra mente abbia tali falle o inadeguatezze, ma occorre inquadrare i fatti in una logica complessiva. Innanzitutto, non si tratta di errori elementari che si presentano in processi quotidiani e consueti, ma al contrario di situazioni abbastanza complesse e di natura astratta. In secondo luogo, è necessario considerare che il nostro cervello non si è formato e perfezionato nel nostro mondo. L’ultima volta che è stato geneticamente modificato risale a più o meno centocinquantamila anni fa, e allora le condizioni di vita erano piuttosto diverse per i membri della nostra specie. Non c’erano giocatori professionisti di scacchi, scommettitori esperti o agenti assicurativi. Quello che occorreva era prendere decisioni rapide in un ambiente semplificato ma ricco d’insidie: scappare o aggredire, fingersi morto o chiamare aiuto, attaccare discorso o tergiversare, a seconda delle circostanze. E per queste esigenze la nostra logica un po’ lacunosa andava più che bene: era insomma adatta allo scopo per il quale era stata concepita, o per meglio dire si era evoluta.
La conclusione è che la nostra mente è logica e consequenziale solo fino a un certo punto. Poi applica una logica per così dire «a spanne» e possiede un’innata tendenza al compromesso operativo. Si tratta di un modo di procedere un po’ approssimativo ma più che sufficiente per affrontare la quotidianità. Il fatto poi che la nostra mente individuale non sia in tutto e per tutto razionale non è necessariamente un male. Nell’affrontare problemi particolarmente complessi, che richiederebbero una lunghissima catena di ragionamenti logici, procedere per schemi intuitivi ed euristici, anche se non totalmente razionali, può essere utile per rendere più spedito il processo decisionale.
In questo contesto, l’espressione «superiori» non indica nulla di oggettivo, perché riflette intimamente un nostro giudizio di valore. Il cervello è giornalmente impegnato in un numero enorme di operazioni, molte delle quali non vengono prese in considerazione come attività della mente, perché ci paiono questioni «di bassa manovalanza» cerebrale. Consideriamo per esempio le azioni che ci permettono di avere una visione stereoscopica – quella tecnica di realizzazione e visione di immagini, atta a trasmettere l’illusione di tridimensionalità – o quelle che ci consentono di portare il cucchiaio alla bocca o di seguire con gli occhi il volo di un uccello. Si tratta di attività complicatissime, che richiedono spesso una stupefacente capacità di calcolo, ma in genere sono giudicate di livello «inferiore».
Così facendo commettiamo un arbitrio enorme e soprattutto ci precludiamo la possibilità di comprendere molte delle funzioni cosiddette superiori, che sembrano perciò come sorgere dal nulla o dall’attività della Mente, dello Spirito o dell’Anima. In verità, tutte le funzioni cerebrali, superiori o inferiori, si fondano e poggiano su processi automatici o semiautomatici che accadono a livello di base: il sublime è fondato sul concreto e il complesso sull’elementare, senza alcuna soluzione di continuità. Se esistesse un punto d’attacco, uno snodo vitale, esso costituirebbe il punto debole, il tallone d’Achille del sistema, il primo a compromettersi o a saltare. I processi nervosi e mentali procedono invece all’insegna della continuità, anche se con l’evoluzione si sono molto complicati.
Una delle condizioni che certamente sono cambiate nel passaggio dagli ominidi all’uomo è l’ampiezza della memoria, in particolare della cosiddetta memoria di lavoro, quella che custodisce temporaneamente un certo numero di concetti e nozioni in attesa di elaborazione.
Purtroppo non siamo a conoscenza di tutto ciò che ci piacerebbe sapere circa il funzionamento della memoria. E ignoriamo soprattutto il punto centrale: dove e come sono scritti i nostri ricordi. Non in una regione circoscritta, questo è certo, ma anzi appaiono distribuiti in tutte le principali regioni del cervello e, più precisamente, della corteccia cerebrale se parliamo dei contenuti della memoria dichiarativa o esplicita, che riguarda le nozioni esplicitabili, come le risposte a domande del tipo: «Qual è la capitale della Bulgaria?» o «Che cosa afferma il teorema di Pitagora?». Per i contenuti della memoria procedurale o implicita, che custodisce le nostre abilità esecutive (per esempio saper andare in bicicletta o arrotolare gli spaghetti con la forchetta), si può ipotizzare invece anche un coinvolgimento dei cosiddetti gangli della base.
Ciascuno di noi utilizza quotidianamente dispositivi di memoria della potenza dei mega- e dei giga-byte, che in sostanza hanno il compito di trasformare una sequenza temporale di eventi in una sequenza spaziale, registrandola su un supporto, in modo da poter estrarre in seguito l’informazione di partenza. Paradossalmente, siamo abilissimi a costruire memorie artificiali molto potenti, eppure sappiamo molto poco dell’essenza della nostra memoria.
Partiamo dalle conoscenze acquisite: ogni nuovo apprendimento duraturo altera in tutto o in parte l’architettura complessiva dei contatti sinaptici del nostro cervello, il quale, come abbiamo visto, è composto da cellule nervose, o neuroni, che ricevono, rielaborano e trasmettono segnali nervosi, nella direzione obbligata che va dai dendriti al corpo cellulare e da questo all’assone. Giunto all’estremità dell’assone, il segnale nervoso deve «saltare» al neurone successivo di una catena, se si tratta di un circuito nervoso, o a qualcuno dei neuroni vicini se si tratta di una rete, come accade quasi sempre nel cervello.
Il punto di contatto tra due neuroni prende il nome di sinapsi. Alcune sono fisse e inamovibili, ma molte altre possono variare di posizione e di intensità durante tutta la vita, e soprattutto nel periodo dello sviluppo infantile. La presenza o meno di una sinapsi in un dato punto del cervello, la sua forza e la sua specificità possono condizionare fortemente la funzionalità della regione in questione. Nel cervello abbiamo circa cento miliardi di neuroni connessi fra di loro tramite la bellezza di un milione di miliardi di sinapsi. Un numero enorme, superiore a quello di tutte le cellule del nostro corpo. È evidente quindi la potenza combinatoria di questa immensa rete di connessioni.
Dallo studio del comportamento di animali molto semplici abbiamo imparato che ogni nuovo apprendimento, anche piccolo ed elementare, crea, rafforza o elimina almeno un contatto sinaptico e non c’è alcun motivo di pensare che anche negli esseri umani non avvenga qualcosa di simile. E sappiamo anche che i geni che si attivano per un qualsiasi atto di apprendimento sono gli stessi in tutti gli organismi, dalla semplice lumaca di mare al topo e all’uomo.
Per quanto riguarda l’estensione temporale sappiamo anche che abbiamo due tipi principali di memoria, una a breve termine e una a lungo termine. Nella prima i ricordi sono custoditi per pochi secondi e poi in genere vanno perduti. Servono per l’immediato: comporre un numero telefonico, memorizzare il «riporto» di un’operazione matematica. Guai se queste informazioni permanessero più a lungo, ci farebbero sbagliare nell’eseguire le operazioni successive.
Non tutte però si perdono. Alcuni di questi ricordi labili si fissano e passano al compartimento della memoria a lungo termine, dove possono permanere per mesi, per anni o per tutta la vita. Il passaggio dei ricordi dal compartimento a breve termine a quello a lungo termine avviene in una specifica struttura cerebrale che prende il nome di ippocampo. Una lesione a questa struttura mette a rischio o addirittura impedisce il passaggio dei ricordi. Quello che si sapeva prima della lesione viene conservato, ma è compromesso l’apprendimento di nuove nozioni.
Famoso è stato negli anni il caso di un paziente indicato convenzionalmente come H.M. Si trattava di un ingegnere americano che sin dall’infanzia soffriva di una grave forma di epilessia. Nel 1953 il medico che lo aveva in cura, William Scoville, come ultima ratio propose e praticò un intervento chirurgico abbastanza drastico: la resezione bilaterale dell’ippocampo. Dopo l’operazione l’epilessia fu risolta, ma H.M. iniziò a soffrire di una grave forma di amnesia anterograda. Costui ricordava tutto quello che aveva appreso fino al momento dell’intervento, dimostrando di avere una memoria a lungo termine intatta, ma non era capace di imparare niente di nuovo. Si poteva sostenere con lui una valida conversazione, ma se ci si allontanava e si ritornava un paio di minuti dopo, H.M. non ricordava niente del suo interlocutore che doveva ripresentarsi.
Al contrario, un’opportuna stimolazione elettrica di una specifica regione dell’ippocampo mentre si acquisisce una data informazione sembra avere l’effetto di fissarne il ricordo in maniera indelebile.
Il passaggio di un ricordo dal breve al lungo termine dipende molto dalla sua risonanza emotiva per il soggetto: maggiore è la risonanza, maggiore è la probabilità che tale passaggio avvenga. D’altra parte, l’ippocampo fa parte del cosiddetto sistema limbico, quella regione del cervello che sovrintende alla nostra vita emozionale. Un altro organo cerebrale fondamentale di questo sistema è l’amigdala, che sembra conservare specificamente la memoria emotiva, cioè il ricordo dell’effetto provato nelle singole esperienze del passato, e che può costituire una guida per quelle del futuro. Ippocampo e amigdala, che lavorano spesso in tandem, sono strutture essenziali della memorizzazione e forse della conservazione dei ricordi, tanto nella loro articolazione cognitiva quanto in quella emotiva.
Il compartimento dei ricordi a breve termine può ospitare temporaneamente osservazioni fatte sul momento ma anche ricordi e associazioni richiamati al momento dal compartimento dei ricordi a lungo termine. In quest’ottica funge un po’ da memoria di lavoro o memoria operativa.
Anche se non è chiarissimo il rapporto fra quest’ultima e la memoria a breve termine, non c’è dubbio che occupi un ruolo centrale in ogni forma di elaborazione mentale. Non si può fare un ragionamento, che si basa in larga parte su un complesso di associazioni, se non si tengono presenti al contempo alla mente tutti gli elementi che possono entrare in questo complesso di associazioni. D’altronde, se l’intelligenza è almeno in parte la capacità di trovare nessi significativi fra cose diverse, più cose sono presenti nello stesso tempo alla nostra mente, meglio è.
Alcune differenze fra noi e gli animali sono di natura qualitativa, non facili da studiare, ma anche di natura quantitativa, e quindi più semplici da caratterizzare. Tra queste ultime svetta l’ampiezza e la capacità della nostra memoria operativa. La nostra vita mentale è così ricca ed effervescente perché può fondarsi su un elevato numero di associazioni e risonanze emotive, rese possibili dall’abbondanza degli elementi presenti in ogni istante nella nostra memoria di lavoro.
Quest’ampiezza degli spazi della nostra memoria e la dilatazione dei tempi dell’elaborazione degli stimoli esterni e interni permettono lo sviluppo di tutte quelle attività e di quei processi mentali cui in genere diamo il nome di pensiero, uno dei concetti più popolari e apparentemente evidenti, ma al quale a ben guardare non corrisponde niente di unitario e facilmente individuabile. «Noi uomini siamo caratterizzati dal possesso del pensiero» si sente ripetere abbastanza spesso. Peccato che non sia affatto chiaro che cosa questo voglia dire, in generale e più nel dettaglio.
Una prima definizione operativa di pensiero potrebbe essere quella di un’elaborazione dei dati dell’esperienza e dei contenuti della memoria caratteristici di un determinato momento della vita della nostra mente, volta a produrre altre esperienze e altri contenuti mentali e, talvolta, a generare altrettante azioni e un certo numero di comportamenti. In linea teorica tutto questo è poi finalizzato, inevitabilmente direi, alla sopravvivenza e allo sfruttamento ottimale delle opportunità offerte dal mondo circostante.
Gli esseri umani sono portati ad attribuire al pensiero quei caratteri di libertà e creatività che sono loro familiari. Se l’idea di creatività nasce da una valutazione molto sog...