Storia del Novecento italiano
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Storia del Novecento italiano

Cent'anni di entusiasmo, di paure, di speranza

  1. 700 pagine
  2. Italian
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Storia del Novecento italiano

Cent'anni di entusiasmo, di paure, di speranza

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Agli inizi del Novecento, nonostante l'unità politica raggiunta nel 1861, gli italiani restavano per lo più estranei tra loro: sudditi dello stesso re, ancora privi dei diritti, delle libertà e dell'istruzione per essere a tutti gli effetti cittadini del nuovo stato. L'Italia era un paese contadino e in gran parte analfabeta. Questo libro narra le tappe del difficile percorso per conquistare una piena cittadinanza: dai primi passi verso la democrazia nell'Italia liberale alla dittatura fascista, dalla costruzione della Repubblica democratica fino a oggi, passando per due conflitti mondiali, una guerra civile e quasi mezzo secolo di guerra fredda. E insieme il passaggio da società rurale a società industriale, i mutamenti di tradizioni, costumi, ideali e ideologie. Un secolo denso di avvenimenti e personaggi, soggetto a interpretazioni controverse. Simona Colarizi tiene presente questo cospicuo patrimonio storiografico e ci presenta un agile racconto rivolto anche a un pubblico di lettori non specialisti, in particolare i giovani che di questo secolo non hanno quasi ricordo diretto.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858640371
Argomento
Storia

PARTE PRIMA

L’ITALIA LIBERALE

1

L’ETÀ GIOLITTIANA (1900-1913)

1. Si chiude un’epoca

Il Novecento si inaugura in Italia con un assassinio: il 29 luglio 1900, viene ucciso a colpi di pistola il re, mentre in carrozza fa ritorno alla sua residenza estiva di Monza. Sembra un presagio infausto del nuovo secolo che tanto sangue e tanti lutti è destinato a portare; ma gli italiani non guardano con pessimismo al futuro. Anzi, la morte di Umberto I ha per loro il significato della fine di un’epoca, la tragica conclusione dell’Ottocento, pieno di luci e di ombre, di speranze e di delusioni. Il «re buono», come lo definiscono gli zelanti agiografi, ha sulla coscienza le molte vittime di una politica duramente repressiva, inaugurata nell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando è apparsa chiara la difficoltà dei governi di gestire la crescita accelerata del paese che si sta trasformando in una moderna società di massa.1 Sulla scia dello sviluppo capitalistico, via via più rapido, in Italia e in tutta Europa, i proletari si mobilitano tumultuosamente, rivendicando un nuovo protagonismo nella vita nazionale, nuovi diritti, nuovi spazi di libertà. Gli Stati ottocenteschi faticano a prenderne atto e lenti sono i cambiamenti negli edifici istituzionali, costruiti in funzione di società dove le masse lavoratrici erano ancora plebe, «popolino», folla indifferenziata di sudditi, privi della coscienza e del ruolo di cittadini. Eppure, il vento del liberalismo e poi quello della democrazia incominciano a imprimere nella società europea molti dei caratteri che ancora oggi, dopo più di un secolo, ne marcano l’identità. Certo, accanto alla Francia e alla Gran Bretagna, avviate sui binari di un’evoluzione democratica, a difendere l’ordine antico ci sono i grandi imperi degli Asburgo e dei Romanoff, mentre la Prussia, diventata un gigante con l’unificazione degli Stati tedeschi, fa modello a sé: una moderna potenza da un punto di vista economico e sociale, a guida fortemente autoritaria.2
Il giovanissimo regno sabaudo, ai margini dell’Olimpo dei potenti, si è dato anch’esso una fisionomia di Stato liberale in cammino verso la democrazia; né può essere altrimenti. Liberali e democratici erano stati gli italiani che avevano lottato per la nascita della nazione e sui valori del liberalismo era stato fondato l’edificio istituzionale. Nel Parlamento la maggioranza è saldamente nelle mani delle due grandi correnti liberali, la Destra Storica e la Sinistra Storica – come vengono definite – che si confrontano con un’opposizione radicale e repubblicana, anch’essa erede diretta dei padri fondatori, Mazzini e Garibaldi, ma decisa a trasformare il più rapidamente possibile il regno sabaudo in una democrazia.3 Vittorio Emanuele II, il re dell’unità d’Italia, aveva accettato questo ordine e, alla sua morte, il figlio, Umberto I, salito al trono nel 1878, in apparenza non ostacola lo sviluppo democratico dello Stato che passa per un ampliamento dei poteri del Parlamento, mentre la Corona viene relegata nel ruolo di garante costituzionale. La famiglia reale sembra adeguarsi di buon grado a questo compito di garanzia e di rappresentanza, per anni svolto con indubbio successo, grazie anche al fascino della regina Margherita, una bella donna, ben presto famosa per lo splendore dei suoi ricevimenti ma anche per le innumerevoli iniziative benefiche. In realtà, Umberto e la moglie si sono rassegnati a uno stato di fatto, rimanendo intimamente ostili al regime parlamentare e ben poco fiduciosi nella lealtà dei «borghesi» che si sono arrogati il diritto di governare la nazione.4 Una nazione più di nome che di fatto, perché un reale sentimento di appartenenza all’Italia rimane patrimonio solo delle élites risorgimentali borghesi che avevano attivamente partecipato al processo di unità politica della penisola. La grande massa dei sudditi di Umberto I è italiana solo sulla carta: dal dominio degli Asburgo, dei Lorena, dei Borbone e dei papi era passata, più o meno indifferente e passiva, a quello dei Savoia. Insomma, per la maggioranza del popolo contadino una casa regnante vale l’altra. Meno estranea al nuovo regno si mostra la popolazione delle città; ma, ancora sul finire del secolo, il problema di fare gli italiani – come aveva detto D’Azeglio – è ben lontano dalla soluzione.5
A rendere difficile la crescita di una coscienza nazionale contribuisce in modo determinante il tessuto civile e sociale dell’Italia, fragilissimo rispetto a quello delle grandi nazioni europee che hanno alle spalle un secolo di rivoluzione industriale e la tradizione degli Stati assoluti. Nel 1861, quando si era compiuta l’unificazione del paese, più di settanta italiani su cento erano ancora analfabeti, con punte che arrivavano al 90% della popolazione in Sardegna. Dopo vent’anni, nel 1881, la situazione è migliorata di ben poco – 67% di analfabeti – anche se, a partire da quel momento, la legge Coppino sull’istruzione elementare (1877) comincia a dare i suoi frutti: nel ’91 si arriva al 57%; ma in Sicilia e in Puglia si è fermi sul 70% e in altre zone del Sud gli indici sono ancora più alti.6 Un’ignoranza così diffusa limita vistosamente il diritto di accesso alla piena cittadinanza anche quando la modifica delle legge elettorale (1876) abolisce la discriminante del censo, ma introduce quella dell’alfabetismo. Negli anni Novanta, su una popolazione che si avvia ormai al traguardo dei trenta milioni, alle urne vanno circa tre milioni di italiani. Troppo pochi perché si sviluppi un senso di appartenenza allo Stato nella massa dei sudditi tra i quali prevale ancora uno stato d’animo di estraneità al giovane regno.7 Se è impossibile trovare l’identità comune di italiani come cittadini, è altrettanto difficile procedere alla nazionalizzazione delle masse attraverso il sentimento patriottico. La patria è parola ancora vuota di significato per i milioni e milioni di sudditi che rimangono impermeabili alla diffusione di una cultura nazionale, anche per ostacoli oggettivi, l’analfabetismo, appunto, e la lingua. Nelle cento Italie dei dialetti non si parla ancora l’italiano che esiste solo come linguaggio colto dei libri, assurto a lingua ufficiale, insegnato nelle scuole e parlato da una minoranza dei cittadini in pubblico – in privato, anche nelle «buone famiglie», aristocratiche e borghesi, si indulge nelle espressioni dialettali o nel francese, come nella stessa casa regnante che non ha dimenticato le origini savoiarde.8
Una coscienza collettiva comincia comunque a farsi strada; ma sono i disagi quasi insopportabili di una vita di lavoro – quando c’è – di fatica e di miseria a fare da collante. La politicizzazione delle masse che precede l’acquisizione di un’identità nazionale, si va realizzando nelle organizzazioni socialiste e cattoliche, con pesanti conseguenze per gli equilibri politici del giovane regno sabaudo. Il proletariato socialista e cattolico è per definizione antinazionale: l’uno segue l’ideologia internazionalista, l’altro ubbidisce alla Chiesa che ancora considera i Savoia gli usurpatori.9 A bloccare la strada della partecipazione politica c’è, naturalmente, la piaga dell’analfabetismo che esclude dal voto milioni e milioni di contadini e operai – nel 1895 sono solo 12 i deputati eletti nelle liste del PSI, fondato nel 1892. Ma, neppure un deputato cattolico siede nel Parlamento sabaudo a rappresentare le grandi masse dei fedeli che il non expedit dei papi tiene lontane dalla vita politica del regno.10 Non è consentito ai cattolici partecipare al voto, esercitare cioè un diritto di cittadini nello Stato fondato da Vittorio Emanuele II che Pio IX aveva scomunicato nel 1870. È logico, dunque, che davanti ai primi fermenti sociali la borghesia al potere si senta doppiamente minacciata: non c’è solo il timore di un sovvertimento dell’ordine; è in gioco l’intero edificio nazionale, costruito senza una solida base popolare e, ancora dopo trent’anni, chiuso all’ingresso della maggioranza degli italiani. Sarebbe necessario aprire le porte dello Stato il più presto possibile per far confluire il magma sociale ribollente entro canali politici e istituzionali, assai più governabili delle piazze dove la protesta deborda in tumulti senza controllo. Bisognerebbe, insomma, incamminarsi con coraggio sulla strada della democrazia, un percorso però che spaventa una larga parte della classe dirigente. Alla Camera e al Senato si confrontano due schieramenti: i liberali di sinistra che insieme ai gruppi minoritari dei radicali e dei repubblicani spingono per un allargamento delle basi del consenso, e i liberali di destra che resistono a questa prospettiva, timorosi degli sconvolgimenti inevitabili in un processo di crescita accelerato come mai nel passato.
Quando, nel 1893, esplodono le agitazioni dei fasci dei minatori e dei contadini in Sicilia e in Lunigiana, il primo ministro è Crispi, luogotenente di Garibaldi nell’ormai mitica spedizione dei Mille. Viene dalle file della Sinistra Storica; ma non ha alcuno scrupolo a proclamare lo stato d’assedio in Sicilia e in Lunigiana, a sciogliere il partito socialista e a cancellare le libertà dei lavoratori a colpi di leggi eccezionali.11 Più di cento morti e duemila arrestati sono il tragico bilancio della repressione contro i fasci, accusati di cospirazione contro lo Stato. Dopo tre anni tutto ricomincia: alla fine del 1897, un’annata agricola sfavorevole innesca in tutto il paese scioperi e rivolte popolari per il pane, culminate nel 1898 con i moti di Milano. Di Rudinì, un liberale conservatore che in questo momento guida l’esecutivo, ha la stessa reazione del garibaldino Crispi: vengono chiusi i giornali dell’opposizione, sciolte le associazioni socialiste e cattoliche, mentre a Milano, messa in stato d’assedio, il generale Bava Beccaris ordina di sparare sulla folla. Ottanta, secondo le fonti ufficiali, sono le vittime; più di trecento ne denuncia l’opposizione. Migliaia di persone vengono arrestate e inflitte più di mille condanne con pene durissime – 12 anni di carcere vengono inflitti a Filippo Turati, il leader del PSI. Di nuovo, l’accusa è quella di attentato alle istituzioni dello Stato; ma da questa reazione estrema emerge chiaro che la maggioranza liberale non vuole aprire gli occhi sulla realtà di una società investita dall’ondata delle trasformazioni sociali. E il re, lo stesso re che aveva tante volte dichiarato la dinastia sarà democratica o avrà finito di esistere, non ha alcuna remora a premiare il generale del massacro, Bava Beccaris, insignito della gran croce dell’Ordine militare dei Savoia, in riconoscimento del servizio reso alle istituzioni e alla civiltà.12
Il secolo XIX si va così chiudendo con una svolta autoritaria che sembra debba durare chissà ancora per quanti anni. A teorizzarla, nel fronte dei liberali conservatori si leva la voce autorevole di Sidney Sonnino che nel 1897, in un articolo sulla «Nuova Antologia», ha scritto a chiare lettere che il sovrano si deve riappropriare di tutte le prerogative previste dallo Statuto Albertino del 1848, ridimensionando i poteri via via passati nelle mani del Parlamento; e il generale Pelloux che guida i governi dal 1898 al 1900, appare deciso a percorrere fino in fondo questa strada.13 Tuttavia, il troppo sangue versato ha suscitato un’ondata di indignazione che valica gli ambienti socialisti e quelli anarchici dove maturerà il regicidio; anche i radicali, i repubblicani, i liberali progressisti aprono una dura polemica contro il governo e non passa certo inosservato il gesto clamoroso del direttore del «Corriere della sera» – il quotidiano degli industriali – che rassegna le dimissioni per protesta. Il movimento a favore dell’amnistia per i detenuti politici che si è costituito all’indomani della strage, in breve diventa così forte da ottenere ben due successivi indulti nel giro di sei mesi. Al coro degli oppositori si uniscono poi le voci di alcuni esponenti cattolici, preoccupati per la sorte delle loro organizzazioni che la politica del pugno di ferro non ha risparmiato. E, in loro aiuto, interviene persino il papa, Leone XIII, che, con l’enciclica Spesse volte, spezza una lancia a favore dell’associazionismo cattolico, rivendicando il suo ruolo di pacificazione sociale. L’intervento del pontefice fa da autorevole contrappeso al ben diverso atteggiamento dei clericali conservatori, compiaciuti invece della svolta autoritaria del governo liberale che per la prima volta ha il loro pieno consenso.14
È però la mobilitazione della sinistra liberale – i liberali «costituzionali», guidati da Giolitti – a diventare determinante per il successo delle opposizioni in Parlamento. Qui i giolittiani danno man forte all’esigua pattuglia dei radicali, dei repubblicani e dei socialisti, impegnati nella battaglia ostruzionistica per bloccare una modifica al regolamento della Camera, lesiva dei poteri parlamentari. Una simile forma di lotta non si è mai vista a Montecitorio: il salotto ovattato della classe dirigente, tutto stucchi dorati e velluti rossi – la bomboniera, come viene definito – si trasforma in un’arena tumultuosa dove in un’atmosfera surriscaldata i parlamentari si scontrano, e non solo a parole. Uno spettacolo del genere è impensabile per l’epoca; ma per bloccare l’ostruzionismo – di cui è campione assoluto il deputato socialista Enrico Ferri, capace di parlare inin...

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  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Storia del Novecento italiano