Le grandi battaglie del Risorgimento
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Le grandi battaglie del Risorgimento

  1. 437 pagine
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Le grandi battaglie del Risorgimento

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L'unificazione italiana è passata più per i campi di battaglia che per le aule parlamentari, i gabinetti dei ministri o gli scrittoi dei letterati, eppure nelle ricostruzioni di questo periodo storico l'interesse è sempre stato centrato sugli aspetti politici, ideali e culturali del Risorgimento. Per questo motivo, seguendo un modello storiografico brillante, che guarda gli eventi "dal basso", Scardigli racconta gli eventi bellici cercando il più possibile di far vedere cosa succedesse sul campo, privilegiando il punto di vista del soldato rispetto a quello del generale e utilizzando spesso fonti poco usate dalla storiografia tradizionale (diari, articoli di giornali, dipinti). Si mette così in luce la vita dei militari, la concretezza dei campi di battaglia e i complessi cambiamenti che questi aspetti subirono nell'arco del Risorgimento, per ottenere una visione nuova, libera dalla retorica, di come effettivamente si fece l'Italia.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858637500

I volti del Risorgimento

Questo libro è dedicato agli aspetti militari del Risorgimento e temo di dover cominciare, a costo di passare per pignolo, con lo specificare cosa intendo qui per Risorgimento.
Su questo periodo si può dire tutto e il contrario di tutto: esaltarlo o denigrarlo, istituirlo come entusiasmante momento fondatore della Patria (con la P maiuscola) o maledirlo come infida congiura per avvelenare l’esistenza alla maggioranza degli abitanti della penisola.
A osservarlo bene, è stato tante cose, così diverse fra loro e a volte così conflittuali, che è difficile riconoscervi una matrice unica. È stato un movimento unitario nazionale e anche una lotta per scacciare le influenze straniere dalla penisola. Le due cose, si badi bene, non sono uguali e nemmeno necessariamente correlate. È stato un movimento di riforma sociale, istituzionale e politica, che assecondando volontà manifeste o ricorrendo a imposizioni ha ridisegnato completamente gli assetti delle regioni d’Italia: leggi, confini, istituzioni, monete, pesi e misure, dalla Sicilia alle Alpi.
Può sembrare una contraddizione o addirittura un’assurdità, ma il Risorgimento è stato un movimento al tempo stesso rivoluzionario e antirivoluzionario. Ha sollevato popoli e li ha rimessi al loro posto. È stato guidato alternativamente da sovrani «per volontà di Dio e del popolo» e da guerriglieri, da ministri in redingote e da arruffapopoli.

Tra le tante interpretazioni e valutazioni (che peraltro registro nelle pagine di questo libro) credo ci sia una scelta da fare e dichiarare fin dall’inizio.
Si può considerare il Risorgimento come un processo lineare, in cui ogni fase fu rigidamente determinata dalla precedente e altrettanto rigidamente determinò la seguente, conducendo la penisola da una posizione iniziale, una congerie di Stati, a un traguardo, l’Italia unificata, passando inevitabilmente attraverso una serie di punti intermedi. Questa è la visione storica più diffusa, anche perché non mette in dubbio che l’esito del Risorgimento dovesse essere l’unità d’Italia.
È possibile un’altra interpretazione, che invece ritiene la nascita dell’Italia non come l’arrivo di un percorso netto e ben delineato, ma come risultante dell’agire di forze differenti, contraddittorie e spesso antagoniste, che a volte unendosi, altre volte combattendosi, portarono a un esito che all’inizio era difficilmente prevedibile.
In questo senso parlo di «guerre del Risorgimento», al plurale. Sono convinto, infatti, che la guerra che combatterono gli insorti delle Cinque giornate di Milano fu sostanzialmente differente da quella che pochi giorni dopo affrontarono i soldati piemontesi sul Mincio. La guerra di Garibaldi fu molto diversa – per modalità, ideali e strategie – da quella di Vittorio Emanuele. Così i cittadini di Messina nel 1848 e quelli di Brescia nel 1849 resistettero sotto bombe simili per ragioni in buona parte differenti. Potrei proseguire a lungo con gli esempi, ma credo che non ne servano altri, per dare almeno un’idea di quanto il Risorgimento sia stato un periodo confuso, ricco, variegato, contraddittorio.

LE DUE TORRI

C’è un altro problema molto ingombrante, che rende difficile affrontare in maniera serena il Risorgimento: i diversi segni sotto i quali è stato raccontato in passato.
Nelle fasi storiche attraversate dall’Italia unita i tanti volti delle vicende risorgimentali sono stati via via nascosti oppure esaltati, per rispondere alle necessità del momento. Nel periodo di crisi sociale tra Ottocento e Novecento il Risorgimento doveva soprattutto costituire la base di consenso per la casa regnante e per il suo esercito, poco amato in quei frangenti. Durante il fascismo doveva invece rappresentare la culla eroica di una nazione che tornasse a mostrarsi combattiva e militarmente aggressiva. Negli anni della contestazione, nel secondo dopoguerra, se ne sottolineò soprattutto l’aspetto di lotta tra movimenti popolari e autorità repressive.
Queste differenti modalità interpretative sono come le luci di una rappresentazione teatrale, che di volta in volta mettono in risalto ora un personaggio, ora un altro. Nell’arco del libro ne parlerò come di un insieme, definendolo racconto tradizionale: quello che, per semplificare, corrispondeva alle «verità» studiate sui testi scolastici.
In ogni caso credo che due modi di vedere e descrivere quel periodo, i suoi fatti, i suoi valori, i suoi risultati, abbiano resistito all’usura del tempo e si ripropongano anche oggi come le due principali chiavi di lettura.

Il canone monarchico

La prima, che definisco canone monarchico, ha significato l’apoteosi e il fondamento della monarchia dei Savoia, in quanto unificatrice e perciò legittimamente sovrana dell’Italia. Si capisce che per circa un secolo questo canone non si poté e non si dovette mettere in dubbio, pena essere considerati ostili alla corona e alla nazione. Credo che ancora oggi rappresenti la lettura storica più diffusa tra gli italiani.
L’interpretazione ha anche un suo monumento, che ne esplicita i contenuti meglio di qualsiasi analisi storica: si tratta della torre dedicata a Vittorio Emanuele a San Martino della Battaglia. All’ingresso si viene accolti dalla statua del primo re d’Italia, circondato dai busti degli otto generali caduti nelle battaglie risorgimentali e coronato dalle virtù italiane. Il significato chiarissimo è che gli artefici del Risorgimento furono il re sabaudo e il suo esercito. Il concetto viene ribadito negli altri ambienti della torre. Il visitatore sale e a ogni piano trova un grande affresco di battaglia, che descrive una tappa del processo di unificazione eroico-monarchico: una sequenza di vittorie verso il successo finale.
Quanto la ricostruzione sia parziale, se non falsa, si vedrà esaminando ciascuna delle presunte vittorie rappresentate: riparlerò di tutto questo al momento di raccontare la battaglia di San Martino del 1859.

Il canone democratico

La seconda chiave, contrapposta alla prima, è un canone democratico, che trova i suoi momenti vittoriosi e memorabili nelle insurrezioni delle città, nel 1848-49, e nelle spedizioni garibaldine. A celebrarlo non esiste un monumento propriamente detto: piuttosto se ne possono rintracciare i temi nelle memorie e nei libri che raccontano quell’epoca di eroi. Le opere di Abba, Cattaneo, Dumas, Nievo –, per citare solo qualche autore tra i più celebri – non hanno paragoni di parte monarchica.
Però, a ben vedere, questa immaginaria torre di libri, che si contrappone a quella in muratura di San Martino, ci consegna un ritratto quasi altrettanto parziale di quello monarchico: un quadro in cui tutti i patrioti appaiono bravi, disinteressati e pronti al sacrificio, in cui tutte le rivolte sono giuste e gloriose.
Per questo motivo introduco l’ipotesi che di Risorgimenti, limitatamente al campo militare, ce ne furono almeno due: il canone monarchico, nobiliare, basato sull’esercito regolare (le divise blu), e il canone democratico, affidato ai volontari e alle leve popolari (le camicie rosse). È una semplificazione, ma tornerà molto utile nel racconto che ora comincia.

IL TURISTA DI BATTAGLIE

Alla trattazione storica delle guerre risorgimentali ho aggiunto spesso paragrafi che raccontano cosa è stato degli antichi campi di battaglia. Sono brevi relazioni delle mie visite, fatte nella convinzione che le battaglie si possono raccontare e spiegare con le parole, con i disegni e i diagrammi, ma si capiscono davvero solo vedendo i luoghi. Durante questi viaggi mi sono comportato da turista e non da storico: oltre che osservare i luoghi, ho voluto anche capire cosa rimanesse degli avvenimenti di cui furono teatro e quanto viva fosse ancora la memoria.
Perciò davo un’occhiata su Internet, per avere un’idea di cosa potessi trovare, e poi mi limitavo a seguire le eventuali indicazioni stradali, oppure a leggere cartelli esplicativi o didattici. Se non c’era nulla del genere, chiedevo a qualcuno sul posto.
Leggerete, per esempio, che a Marsala Garibaldi è ancora tanto presente da dare il nome addirittura a un panino, mentre a Goito non c’è assolutamente nulla a ricordare la battaglia del 1848; che sui campi di Tolentino e di Novara mi hanno fatto da guida dei veri esperti, mentre a Pastrengo ho dovuto seguire le indicazioni di un barista e a Gaeta non sono riuscito a parlare con il tabaccaio che, secondo le persone del luogo, avrebbe potuto illuminarmi sull’assedio del 1861.
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PARTE PRIMA

Battaglie all’alba del Risorgimento

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1

L’avventura di Murat

«Italiani, l’ora è venuta che debbano compiersi gli alti destini d’Italia. La provvidenza vi chiama in fine ad essere una nazione indipendente.»
Chi avesse la fortuna di scovare in soffitta un vecchio manifesto con parole così decise, cosa potrebbe pensare? Certo, avrebbe per le mani un prezioso reperto risorgimentale, ma di quale provenienza? Scorrerebbero veloci nella mente i fotogrammi di un film appreso sui banchi di scuola: le Cinque giornate di Milano, le repubbliche del Quarantotto, Venezia, Roma, Manin, Garibaldi, Mazzini, le guerre di piemontesi e austriaci. Reliquia di un tempo lontanissimo, forse quel pezzo di carta fu affisso ai muri delle case di Brescia, moltiplicando l’ira della belva? (Come si chiamava? La iena? Haynau!) Oppure a Marsala, a Palermo o da qualche parte nei domini del papa? E chi lo scrisse? Vittorio Emanuele o uno sconosciuto eroico patriota che sfidava gli oppressori perché credeva nella libertà e nell’Italia? (Che parole desuete: credere nell’Italia!).
Invece no. L’autore era un francese, protagonista di un’altra storia con altri personaggi, che molti non considerano nemmeno risorgimentali. Joachim Murat, maresciallo di Napoleone e poi, all’epoca del manifesto, Gioacchino re di Napoli: anno 1815. Napoleone era scappato dall’isola d’Elba, in cui l’avevano esiliato, e stava riunendo un esercito per riprendere la lotta contro le potenze d’Europa, marciando spedito verso il suo destino, Waterloo, la fine di un’era. Mentre a Parigi l’imperatore riappiccava l’incendio, Murat saliva da Napoli a Rimini per affrontare gli austriaci e dalle spiagge di Romagna esortava gli italiani alla sollevazione, con quelle parole così precise, nette, da non ammettere repliche. Come se dicessero: italiani, che aspettate a darvi la sveglia?
Ma il 1815 non è l’anno della Restaurazione, di Metternich e dell’Italia espressione geografica? Al solito, la storia è sempre una faccenda complicata. Bisogna raccontarla dall’inizio.
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UNA CERTA IDEA D’ITALIA

Il periodo napoleonico aveva unito la penisola, dopo secoli di divisioni. Certo non si era trattato di un’Italia veramente unita, piuttosto era il risultato di un’imposizione esterna, non di una scelta, che avesse come fondamento un forte senso d’appartenenza. Diciamo che era una quasi-Italia unita, che offriva comunque un’alternativa fino a pochi anni prima impensabile al sistema di valori e di istituzioni dell’assolutismo.
Sotto Napoleone gli italiani provarono a essere, se non proprio una nazione, almeno un’entità economica, commerciale, legislativa e amministrativa unica. Per la prima volta da secoli toccarono con mano la comodità di avere pesi e misure più o meno uguali a Bari come a Venezia e giudici che adoperavano lo stesso codice a Roma come a Brescia.
Il dominio napoleonico e l’influenza della Rivoluzione indussero i nostri compatrioti a porsi molte domande e a chiedersi, per esempio, se veramente si dovesse rimpiangere il mondo precedente l’arrivo dei francesi, fatto di staterelli divisi in tutto e su tutto, chiusi e diffidenti verso i vicini. Tantissimi si risposero di no: questo non significava che tutti si ritrovarono automaticamente sostenitori di un’Italia una e unita, ma semplicemente che erano disposti a pensare alla penisola, ai suoi abitanti e alle sue divisioni, in maniera differente rispetto al passato.
Una parte di questi «innovatori» italiani – non scomodiamo ancora il termine «patrioti» – era pronta anche a un passo ulteriore. L’Italia degli staterelli era quella delle corti sfarzose e dei nobili inetti, petulanti ed egoisti. Negli anni napoleonici, invece, ci si era abituati a vedere in certa misura premiato il merito e a essere comandati sovente – non sempre, ma sovente – da chi avesse dimostrato capacità e si fosse guadagnato i galloni sul campo. Che poi anche i napoleonici si fossero affrettati a scimmiottare usi e lussi degli aristocratici, importava poco: la differenza tra gli uni e gli altri era, se non abissale, certamente palpabile.
Quando Napoleone cadde, questa quasi-Italia, con le sue nuove convinzioni e le sue speranze, rimase come sospesa, in attesa che qualcuno decidesse del suo futuro.

Un esercito dimenticato

Si trattava prevalentemente di un passaggio politico, ma con un aspetto concreto. Mentre l’imperatore dei francesi viveva i suoi Cento giorni, in Lombardia c’erano ancora quasi 45.000 uomini inquadrati nell’ex esercito del Regno d’Italia, che avevano combattuto sotto Napoleone e poi avevano dato buona prova resistendo con successo all’avanzata austriaca. Nel caos in cui versavano l’Europa e l’Italia, rappresentavano una compagine notevole, che avrebbe potuto influire sui destini della penisola, se qualcuno si fosse messo alla sua guida, se ci fosse stato un generale deciso a guadagnarsi un dominio o un sovrano che avesse voluto ampliare i propri possedimenti.
Questo era tanto più vero considerando che un simile esercito non avrebbe trovato molt...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le grandi battaglie del Risorgimento