Dentro la moschea
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Dentro la moschea

  1. 510 pagine
  2. Italian
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Dentro la moschea

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L'Islam di casa nostra ci affascina, ci intimidisce, ci fa paura. Ma lo conosciamo veramente? In questo libro, Yahya Pallavicini, l'imam di via Meda, a Milano, ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio alla scoperta dei luoghi e dei tempi della sua religione. Ci mostra come è fatta una moschea, chi la frequenta, come e quando si prega. Ci introduce nel cuore della sua comunità, sempre sospesa tra identità e integrazione, raccogliendo dalla voce delle donne e degli uomini la loro esperienza di musulmani occidentali, dalla nascita alla morte, dal ramadan al pellegrinaggio, dalla questione del velo a quella della scuola. E, infine, raccoglie i sermoni di venticinque imam italiani, in cui si intrecciano la testimonianza pubblica e la contemplazione di Dio, i dettami di vita pratica e la profonda sapienza dei profeti. Una fotografia in movimento dell'Islam che vive e cresce nel nostro Paese. Un prezioso contributo alla costruzione di una cultura del rispetto e del dialogo che sola può dirsi vincente.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858637487

Introduzione

Per la maggioranza degli italiani la moschea è un luogo esotico. Ricordo di viaggi favolosi: l’Egitto, il Maghreb, la Turchia, l’India… Si ammira l’architettura, si rimane colpiti dal grido dei muezzin all’alba o al tramonto, si guarda con curiosità la massa dei fedeli che si prostra. E niente più.
L’italiano, l’europeo, l’occidentale in fondo non sa nulla dell’Islâm. In un millennio e mezzo, quasi, di incontri e scontri avvenuti sulle sponde del Mediterraneo i cristiani e i musulmani hanno fatto le esperienze più varie: si sono combattuti, hanno convissuto, stretto alleanze, commerciato in beni materiali e culturali. Sono rimasti sostanzialmente ignoranti l’uno dell’altro. Persino nelle epoche d’oro del califfato di Cordova in Spagna o di Federico II in Sicilia lo scambio autentico è rimasto confinato all’interno di ristrette élite. Anche laddove la convivenza pacifica era praticata in modo diffuso, la regola è stata generalmente la non-conoscenza reciproca.
Yahya Pallavicini ci prende per mano e ci porta nel cuore di una moschea, mostrandocela nel suo momento essenziale: la recitazione della parola divina e il sermone che la illustra. I nomi degli imâm possono apparire curiosi: Abd al-Ghafur Masotti, Kamil Abd as-Salam Siccardi, Salman Abd-al Hakam Trotti, Yahya Abd al-Ahad Zanolo. Nella contaminazione linguistica risalta la novità. Sono musulmani italiani. Non vengono da fuori. Vengono da dentro, dall’interno della nostra storia italiana. Sono frutto del gigantesco rimescolamento culturale provocato dalle grandi migrazioni della globalizzazione. Ascoltiamo voci italiane, in questo libro, che ci accompagnano alla scoperta di una realtà sconosciuta. Fanno vibrare il suono della vita quotidiana. Hamid che nella sala parto di un ospedale si avvicina delicatamente alla neonata Hanifa, stretta al petto della madre Aziza Nevone, e le sussurra all’orecchio la “chiamata alla preghiera” musulmana. Il prete, autorizzato dal suo vescovo, che ospita nella cappella funebre una liturgia della parola cattolica per i parenti di un defunto diventato, come si diceva una volta, “maomettano”, mentre al mormorare delle litanie cristiane segue la preghiera rituale islamica. Il passaggio graduale di una donna italiana dalla fede nell’unico Dio dei cristiani al riconoscimento che “Muhammad è il Profeta di questo Dio Unico”.
Storie invisibili, vissute nelle nostre città e nei nostri paesi. Lo ha spiegato a un cronista con umorismo un neoconvertito veneto: “Ma ti sei fatto turco?” chiedono gli amici. “Mi sono fatto credente, ecco cosa mi sono fatto”. Mario Scialoja, già vice-rappresentante d’Italia all’ONU nel 1998, ha spiegato come è avvenuta la sua conversione: “Ad attrarmi è stato il monoteismo rigoroso, assoluto, che ci accomuna all’Ebraismo. E soprattutto il fatto che tra il fedele e il Signore il rapporto è diretto, senza sacerdoti ai quali confessare il peccato”. Con Dio la partita si gioca da soli, senza clero, senza santi, senza dogmi.
Dentro la moschea ascoltiamo (forse per la prima volta) la parola del Corano. “Allâh”, dice la sura di Abramo, “rafforzerà coloro che credono con la parola ferma, in questo mondo e nell’Altro.” Colpisce il continuo rivolgersi di Dio all’essere umano, incalzandolo quasi, ammonendolo a non dimenticare mai la presenza divina e proteggendolo dallo sconforto esistenziale. “E in verità” è scritto “con la difficoltà c’è la facilità”, cioè Dio si manifesta nell’uno e nell’altro aspetto del vivere umano. Spesso sono richiami di grande tenerezza: “Non è con il ricordo di Dio che si tranquillizzano i cuori?” o inviti a una religiosità lontana dagli eccessi: “O figli di Adam, prendete i vostri abiti quando siete in ogni moschea e mangiate e bevete, ma non esagerate. In verità Lui non ama coloro che sono stravaganti”. D’altronde, come non restare affascinati quando nel Libro si ritrovano tracce dell’Antico Testamento e del Nuovo, che assumono la forma di parabole tramandate attraverso i secoli? Prendiamo l’episodio di Zaccaria, che chiede al Signore un segno, un erede. Dio gli risponde: “Il suo nome sarà Yahya (Giovanni il Battista)”. E Zaccaria insiste, vuole sapere come sarà possibile la nascita visto che la moglie è ormai sterile. Replica Dio che per Lui è facile, perché anche Zaccaria è stato creato dal nulla. Ma Zaccaria ritorna alla carica una terza volta e domanda un segno, ed ecco che il Signore gli rivela che il miracolo consisterà nello stare in silenzio per tre giorni. Come per inculcare nell’uomo la consapevolezza che ci vuole umiltà nell’accogliere i doni divini.
Il Corano è un libro complesso, la stessa religiosità musulmana non è monolitica, ha assunto molte forme. Ciò che conta, qui, è lasciarsi accostare al verbo coranico per sentirne il ritmo e intuirne, prima ancora che sviscerarne i significati, la potenza spirituale che nel mondo odierno ispira un miliardo e trecento milioni di credenti.
In Italia l’Islâm fa paura a molti. Un’inchiesta, condotta in vari Paesi europei per conto del “Financial Times” nell’agosto 2007, mostra che il 30 per cento degli italiani considera la presenza dei musulmani una minaccia per la sicurezza nazionale (il 38 per cento in Gran Bretagna). È un dato da affrontare con freddezza di analisi. Perché c’è anche, a far da contrappeso, un’Italia accogliente, tendenzialmente la maggioranza, segnata da un atteggiamento antico di apertura all’altro. La stessa inchiesta del “Financial Times” rileva che il 49 per cento degli italiani ritengono i musulmani bersaglio di “pregiudizi e critiche ingiustificate”. Ma è inutile nascondersi che, quando sui media appaiono notizie relative alla presenza musulmana nel nostro Paese, ciò avviene di massima sull’onda di episodi allarmanti o che evocano l’inquietudine della gente.
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Che cosa fa paura? C’è nel sottofondo un problema di ambivalenza che ha le sue radici nel substrato religioso nazionale. Le due minoranze storiche con cui l’Italia moderna ha dovuto confrontarsi, erano e sono talmente circoscritte da non rappresentare una sfida al Cattolicesimo. Gli ebrei, per tradizione, non hanno mai avuto obiettivi di proselitismo. Nemmeno i valdesi, benché collegati al vasto mondo evangelico internazionale, si sono mai posti come antagonisti della Chiesa cattolica.
Diverso il caso dell’Islâm. Anche se la maggioranza dei musulmani sul nostro territorio si concentra essenzialmente sui problemi dell’esistenza quotidiana, è l’Islâm di per sé ad avere un’impronta di universalismo e proselitismo. L’Islâm è vicino al Cristianesimo per il suo richiamo a Gesù e alla tradizione dell’Antico e Nuovo Testamento e ne è lontano per la convinzione di essere in possesso del Sigillo ultimo della Rivelazione (e quindi Maometto appare come il profeta massimo, di cui gli altri sono propedeutici). I musulmani credono nello stesso Dio dei cristiani eppure i tratti del divino sono assai differenti nelle due religioni. Ma soprattutto, dopo essere stata soggetta negli ultimi due secoli di espansione coloniale alla pretesa di proselitismo delle potenze europee, la galassia musulmana – almeno nelle sue avanguardie più militanti – è convinta del proprio diritto a convertire anche gli occidentali. C’è, poi, un elemento ulteriore. Spaventa le gerarchie ecclesiastiche cattoliche l’adesione profonda delle masse musulmane ai riti essenziali del loro credo – dalla preghiera al digiuno – in contrasto con il lassismo mostrato dalle popolazioni europee, in gran parte soltanto statisticamente cristiane. Mi raccontava il cardinale francese Paul Poupard, per molti anni presidente del Consiglio pontificio per la cultura, di aver assistito un giorno al dibattito acceso tra due suoi connazionali, uno cattolico e l’altro musulmano. Gli aveva provocato un estremo disagio vedere che il cattolico, a differenza del musulmano, non era in grado di articolare con convinzione le argomentazioni a sostegno della propria fede.
C’è tuttavia nei rapporti più che millenari tra musulmani e cristiani un aspetto da tenere presente. Le società islamiche – tranne stagioni isolate di violenza e fanatismo – hanno sempre tollerato al loro interno la presenza di comunità religiose differenti: dai cristiani agli ebrei. I seguaci dei monoteismi erano certamente sudditi senza la pienezza dei diritti dei musulmani, ma liberi di praticare la propria religione. Le antiche chiese cristiane al Cairo, a Gerusalemme, a Costantinopoli ne sono una testimonianza eloquente.
Invece le società dell’Occidente europeo, almeno sino a quando si sono rette in regime di “cristianità”, che solo la Rivoluzione francese ha infranto, non hanno mai accettato una simile libertà per i propri sudditi appartenenti a fedi differenti. Conosciamo la drammatica esperienza degli ebrei in Europa, tra ghetti e pogrom. Qui basti accennare alla vicenda spagnola. Emblematica. Mentre i califfi di Cordova hanno sempre dato ai cristiani libertà di culto, le promesse di libertà garantite dai cattolicissimi re di Spagna Isabella e Ferdinando alla resa degli ultimi musulmani del regno di Granada sono durate una brevissima stagione. Cancellate dopo pochi anni in un epilogo inesorabile di conversioni forzate, espulsioni, persecuzioni ed esecuzioni.
Ma c’è anche un fattore che suscita particolare allarme nelle società occidentali contemporanee. Il fattore sharî‘ah, che riguarda l’equiparazione della legge religiosa a quella civile. L’Islâm storico, quello tradizionale che i fondamentalisti vogliono resuscitare e tendono a imporre aggressivamente nelle società musulmane contemporanee, non conosce la distinzione laica tra sfera religiosa e sfera politica. La Legge divina (com’era nell’Ebraismo prima della distruzione del Tempio) non può essere diversa da quella degli uomini. Legge civile e legge religiosa sono identiche. E se è scritto che l’adultera va lapidata, così deve essere fatto!
La storia del Novecento mostra che il cammino degli Stati musulmani verso la modernità – dalla Turchia all’Egitto alle nazioni del Maghreb – passa attraverso l’affermarsi della distinzione (importata dall’Occidente) tra legislazione civile e dettami religiosi. Con il khomeinismo in Iran si è registrata, invece, una drammatica controtendenza, un tuffo nel passato teocratico. E anche in alcuni Stati federali della Nigeria si è assistito al ritorno della sharî‘ah come legge civile, il che ha provocato gravi conflitti con le locali popolazioni cristiane. Le varie correnti fondamentaliste, che sognano una “rivincita islamica”, portano con sé questo fantasma, che a sua volta alimenta l’isteria dei gruppi xenofobi in Occidente. E non c’è dubbio che il rigorismo aggressivo della corrente del wahabismo, che in Arabia Saudita è ideologia di Stato e che con fondi sauditi punta alla moltiplicazione di moschee e centri islamici in Europa e nel mondo, contribuisce a incrementare un’atmosfera di allarme.
Sulla presenza dell’Islâm in Italia grava ulteriormente tutta la problematica dell’immigrazione. Se i convertiti italiani all’Islâm sono più o meno cinquantamila, il numero degli immigrati musulmani ammonta a circa un milione. Sono uomini e donne, non bisogna dimenticarlo mai, di etnie differenti, storie differenti, culture differenti. Albanesi, tunisini, senegalesi, egiziani, algerini, pachistani, cittadini del Bangladesh, somali, iraniani, turchi, nigeriani. In testa i marocchini, la comunità più grande, che raggiunge circa il 30 per cento.
L’Italia è cambiata in fretta. Nell’arco di qualche decennio volti, lingue, abiti, modi di vivere, prima visti dalla massa degli italiani solo saltuariamente in viaggio o sugli schermi televisivi, hanno fatto irruzione nei quartieri delle grandi città e nei paesini di provincia. Con difficoltà inevitabili, con frizioni comprensibili, con riflessi automatici di xenofobia in parte della popolazione. E con la conta astiosa della “loro” criminalità, delle “loro” trasgressioni.
Che vi sia un esplodere di microcriminalità e di aggressività delinquenziale in gruppi marginali ogni qual volta si mettono in moto fenomeni migratori, è noto a sociologi e criminologi. Eppure, quando cominciano a diffondersi i sussulti xenofobi, è impressionante vedere quanto possa essere forte l’amnesia generale di un popolo. Chi – da italiano – ha vissuto l’emigrazione dei nostri connazionali in Germania, in Svizzera, in Belgio negli anni Sessanta del Novecento ricorderà gli stereotipi ossessivi usati nei confronti delle comunità italiane all’estero: “Sono sporchi, rumorosi, delinquenti, non rispettano l’ordine e la legalità”. E soprattutto il ritornello: “Perché non se ne stanno a casa loro?”. Sono gli stessi che si possono ascoltare oggi nel nostro Paese all’indirizzo di tanti immigrati. Poco importa se musulmani o cristiani.
Una battuta del ministro degli Interni Giuliano Amato sui “costumi siculo-pakistani”, per ricordare atteggiamenti patriarcali e sessisti radicati fino a cinquant’anni fa nel nostro Paese, ha suscitato in Sicilia ondate di dichiarazioni indignate. Ma si può dimenticare che la stessa ferocia contro la “donna disobbediente”, di cui si sono resi colpevoli recentemente alcuni immigrati di fede musulmana, ha ispirato in anni non lontani delitti d’onore altrettanto crudeli nel nostro Meridione? L’Italia postunitaria, non quella medievale, ha conosciuto tra le mura protette delle case – spesso con il silenzio di autorità istituzionali o ecclesiali – sistematiche violenze familiari, oggi magicamente...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dentro la moschea