Il lungo freddo
eBook - ePub

Il lungo freddo

Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l'Urss

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il lungo freddo

Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l'Urss

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Nelle parole della grande giornalista recentemente scomparsa, l'appassionante e documentata narrazione della storia di Bruno Pontecorvo, fisico nucleare di fama mondiale che, nel pieno della Guerra fredda, scelse di abbandonare l'Occidente e di lavorare e vivere nell'Unione Sovietica. Grazie al talento della Mafai nel ricostruire gli eventi cruciali della vita di Pontecorvo in un nuovo quadro rivelatore, Il lungo freddo non offre solo un'inedita prospettiva sulla drammatica corsa alla bomba atomica - dalle decisive scoperte del Progetto Manhattan alla tragica esplosione di Hiroshima, dalla prima atomica sovietica alla bomba all'idrogeno - ma rappresenta soprattutto la memoria collettiva di una generazione che ha posto la politica al centro delle proprie scelte di vita. E svela i drammi umani di un conflitto che per più di quarant'anni ha diviso il mondo.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il lungo freddo di Miriam Mafai in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a History e Historical Biographies. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858638392

Prologo

Piazza Verdi, agosto 1950

L’uomo, seduto sullo sgabello davanti alla Casa dell’Automobile, si faceva vento con un giornale ripiegato. Sudava. Di tanto in tanto allontanava, con un gesto infastidito della mano, le mosche. L’asfalto rovente mandava un odore acido.
Piazza Verdi, a Roma, tra via Bellini e via Cimarosa, alle spalle di Villa Borghese, era più che una piazza uno slargo, un grande spazio vuoto. A quell’ora – era il primo pomeriggio di un giorno di fine agosto – i ragazzi venivano costretti in casa, dietro le persiane accostate. Solo più tardi, quando il ponentino avesse cominciato a soffiare sulla città, sarebbero usciti per andare a mangiare un gelato, fare una corsa fino a Villa Borghese, o giocare per la strada una partita di pallone.
Sulla piazza incombeva l’edificio bianco del Poligrafico dello Stato. Il gran silenzio estivo era interrotto soltanto dallo sferragliare dei tram lungo il viale alberato che si snodava al di là della piazza e che, stringendo il quartiere come in un anello, ne definiva i confini.
Rolando B. conosceva da tempo immemorabile quel quartiere e i clienti della Casa dell’Automobile. Li conosceva uno per uno: erano medici, avvocati, notai, funzionari dello Stato, che abitavano lì attorno, nelle vecchie ville di via Salaria (tutte con il loro bel giardino davanti e una torretta merlata) o nei lussuosi condomini costruiti poco prima della guerra sulla collina verde dei Parioli. La nuova Lancia Aurelia era la macchina preferita dai suoi clienti, ma non tutti la possedevano.
Era la fine di agosto del 1950. I ricchi erano partiti in ritardo per le vacanze. Alla fine di giugno era scoppiata la guerra in Corea, e con la guerra si era diffusa una incertezza che assomigliava al panico. Qualcuno aveva pensato di riprendere, come una volta, la via della Svizzera. Poi il barometro si era fissato al bello e il quartiere si era svuotato: via tutti al mare, con mogli bambini cameriere e bambinaie, a Capri a Rapallo a Viareggio o in montagna a Cortina e a Chamonix.
Al Lido di Venezia Barbara Hutton, la miliardaria americana giunta al suo ottavo matrimonio, si esibiva in un costume da bagno rigorosamente nero e rigorosamente intero; a Capri la splendida Consuelo O’Connor sposata Crespi passeggiava a piedi nudi, un filo d’oro attorno alla caviglia, in un due pezzi assolutamente scandaloso; a Viareggio per la cerimonia del premio si erano rivisti, dopo molti anni, signori in smoking e signore in abito da sera.
Tra un paio di settimane, a metà settembre, lentamente, il quartiere avrebbe ripreso la sua vita di sempre: le bambinaie sarebbero tornate a spingere le carrozzine verso il Parco dei Daini, le signore sarebbero tornate a bere un aperitivo al bar di piazza Ungheria e a frequentare, la domenica, la Messa nella stessa chiesa mentre Rolando B. sarebbe tornato a salutare, ogni mattina, i suoi clienti.
L’uomo continuava a cacciare le mosche e a sventolarsi in attesa del ponentino quando sulla piazza deserta irruppe una macchina inglese, che si fermò a pochi passi da lui con un esagerato stridore di gomme. Gli inglesi non erano simpatici a Rolando B. e nemmeno gli americani, ma erano quelli che lasciavano le mance più cospicue e quindi andavano trattati con riguardo. Dunque smise di sventolarsi e si alzò per andare incontro al cliente straniero.
L’uomo scese dalla macchina, che in verità a guardarla bene era piuttosto malandata e coperta di polvere come se avesse fatto un lungo viaggio, e gli si rivolse, giocando con le chiavi che teneva in mano, in perfetto italiano.
Era giovane, abbronzato, i capelli neri e lisci pettinati all’indietro, gli occhi chiari. Indossava pantaloni di lino bianco e una maglietta aperta sul collo, non portava calze, aveva sandali impolverati e sporchi ai piedi nudi. Conosceva questa macchina?, chiese lo sconosciuto. Poteva revisionare il motore, lavarla e ingrassarla, cambiare l’olio? Certo che poteva, assicurò Rolando che si impegnò a restituirgli la macchina perfettamente in ordine in un paio di giorni.
Lo straniero (ma era davvero uno straniero?) sembrò soddisfatto. Gli lasciò le chiavi e lo salutò con un cenno cordiale della mano mentre si allontanava a piedi verso viale Liegi. Il giorno dopo, verso le quattro del pomeriggio, tornò, questa volta accompagnato da un bambino di una decina d’anni, i capelli biondi tagliati cortissimi. Si trattenne solo qualche minuto: lo guardò lavorare, ritirò qualcosa da una tasca laterale dello sportello della macchina e si raccomandò, ancora una volta, che l’olio fosse quello da lui richiesto.
Il giorno dopo all’ora fissata la Vanguard targata H.V.C.744 era pronta ingrassata e pulita, l’olio cambiato e il motore revisionato, una gran bella macchina, dopotutto, anche se mal tenuta. Ma nessuno venne a ritirarla.
Nessuno venne nemmeno nei giorni seguenti, e nemmeno nella prima settimana di settembre e nemmeno nella seconda. Fino a quando il meccanico decise che non era prudente tenere in garage una macchina di cui non conosceva il proprietario, e che poteva anche essere stata rubata. Alla fine si rivolse al commissariato di zona. Nella tasca interna della macchina non c’erano più i documenti, ma non fu difficile risalire dalla targa al nome del proprietario.
L’uomo che il 29 agosto aveva portato la Vanguard alla Casa dell’Automobile di piazza Verdi, che era tornato il giorno dopo per sollecitare il lavoro, e che non era più tornato a ritirarla, si chiamava Bruno Pontecorvo. Aveva trentasette anni un sorriso accattivante, grandi occhi chiari e l’aspetto di uno sportivo, di un uomo abituato a vivere molto all’aria aperta.
Era invece un fisico, abituato a passare la maggior parte delle sue giornate al chiuso di un laboratorio, a studiare i misteri del nucleo e delle particelle elementari. Originario di Pisa, aveva fatto parte, nei primi anni Trenta, della celebre Scuola di via Panisperna sotto la direzione di Enrico Fermi. Poi, nel 1936, si era trasferito a Parigi per lavorare al Centro di energia nucleare di Joliot-Curie. Da lì era fuggito per raggiungere l’America poche ore prima che la capitale francese venisse occupata dai tedeschi. A guerra finita era tornato in Europa, per lavorare nel Centro atomico di Harwell, in Inghilterra. Da due anni era cittadino inglese.
Tutti questi e altri particolari vennero accertati dalle competenti autorità, nel corso delle prime settimane di settembre. Ma nessuno denunciò la sua scomparsa.
In altri tempi la sua sparizione sarebbe stata considerata un fatto puramente privato, senza rilevanza, ma da quando, il 6 agosto del 1945, la prima bomba atomica era scoppiata su Hiroshima, da allora i fisici erano considerati, in tutto il mondo, personaggi di grande importanza, la risorsa militare fondamentale di cui uno Stato potesse disporre. La politica e la scienza militare avevano bussato con violenza alla porta della fisica moderna, si erano impadronite dei laboratori, degli uomini che vi lavoravano e della loro intelligenza, ne avevano messo sotto controllo le vite, gli esperimenti e i pensieri.
Quanto valeva, dunque, in quel momento Bruno Pontecorvo? Conosceva o no la formula della bomba atomica? Di quali segreti era entrato in possesso? Quali misteri era in grado di svelare? E quale Stato se ne sarebbe servito a partire da quel 29 agosto 1950, quando aveva abbandonato la sua macchina a Roma, nel garage di piazza Verdi?

PRIMA PARTE

1

Il segreto della bomba

La prima bomba atomica del mondo assomigliava «a un bidone della spazzatura allungato e con le pinne». Così l’aveva descritta Paul Tibbets, il comandante del B 29 che la portò a destinazione. Lunga poco più di tre metri e con un diametro di 74 cm, tutta di opaco acciaio brunito, aveva l’aspetto di un cilindro corazzato con un muso leggermente arrotondato. Pesava 4200 chilogrammi. Venne sganciata sulla città giapponese di Hiroshima dall’aereo che lo stesso Tibbets aveva battezzato, in onore della sua mamma, Enola Gay. Erano le 8 e 15 del mattino del 6 agosto 1945. Dopo 43 secondi esatti esplose a 570 metri dal suolo, sopra l’ospedale Shima, 170 metri a sud-est del ponte Aioi.
«Eravamo a diciotto chilometri e mezzo in linea d’aria dall’esplosione atomica, ma tutto l’aereo scricchiolò e cigolò per il colpo» raccontò lo stesso Tibbets. «Ci girammo a guardare Hiroshima. La città era nascosta da quella nuvola orribile, ribollente, a forma di fungo, terribile e incredibilmente alta. Per un momento non parlò nessuno, poi si misero a parlare tutti...»
Il mitragliere di coda incaricato di scattare le fotografie così descrisse la scena: «Il fungo era una visione spettacolare di per sé: una massa ribollente di fumo grigio rossastro, e si vedeva benissimo che dentro aveva un nucleo rosso nel quale tutto bruciava... Sembrava una colata di lava o di melassa che coprisse tutta la città e pareva che traboccasse e salisse per le colline... Intanto scoppiavano incendi dappertutto e così in poco tempo diventò difficile vedere qualcosa per via del fumo».
Quando era scoppiata la guerra Hiroshima aveva 400.000 abitanti, ma molti erano stati evacuati. All’inizio di agosto del 1945, la popolazione residente era di circa 280.000 civili, più 40.000 soldati: 320.000 persone in tutto. I morti di quel giorno furono almeno 100.000, molte altre decine di migliaia morirono nelle settimane e negli anni successivi per malattie ricollegabili alla bomba. La temperatura sul luogo dell’esplosione raggiunse quel giorno i 3000 gradi. Coloro che stavano all’aperto in un raggio di circa un chilometro ebbero gli organi interni vaporizzati e si ridussero a mucchietti di cenere fumigante.
Tre giorni dopo una seconda atomica, familiarmente chiamata Fat Man, venne sganciata su Nagasaki. Esplose alle 11 di mattina del 9 agosto a 340 metri di altezza sulle colline della città. A Nagasaki morirono subito 70.000 persone e altrettante negli anni successivi per le conseguenze dell’esplosione. Il giorno dopo l’imperatore Hiro Hito offrì agli americani la resa. La Seconda guerra mondiale era finita ed era cominciata l’era del Terrore atomico.
In Europa la guerra era finita già in primavera: il 25 aprile le truppe americane avevano incontrato quelle russe sull’Elba e l’8 maggio la Germania si era arresa. L’Italia aveva firmato l’armistizio due anni prima, nel settembre del 1943.
Solo il Giappone dunque resisteva, sia pure in condizioni disperate: la sua produzione industriale era ridotta della metà, la flotta imperiale non era più in condizione di nuocere e la contraerea non riusciva nemmeno a difendere la capitale che, dai primi di marzo, veniva bombardata ogni notte. Di fatto il Giappone poteva considerarsi sconfitto.
Proprio nelle settimane successive alla resa della Germania, in un deserto sperduto del Nuovo Messico venivano intensificati gli sforzi per portare a compimento il Progetto Manhattan. Si trattava di mettere a punto una nuova arma alla quale migliaia di scienziati, di tecnici, di ingegneri, di chimici di tutto il mondo stavano lavorando da quasi tre anni nel più assoluto segreto.
Il test ebbe luogo il 16 luglio. Quel giorno, al confine tra l’Arizona e il Nuovo Messico, qualcuno notò sbalordito un fenomeno mai prima osservato, un bagliore chiaro e accecante come se «il sole fosse sorto all’improvviso e all’improvviso fosse tramontato». Quel sole era la bomba atomica esplosa in via sperimentale ad Alamogordo, a 240 chilometri dal confine.
Enrico Fermi, principale artefice di quel successo, commentò, soddisfatto: «Questa è grande fisica». Robert Oppenheimer, che civettava con le filosofie orientali, citò un verso del Bhagavadgita, la sacra scrittura indù: «Ora sono diventato morte, il distruttore dei mondi». Brainbridg, sbrigativo, disse: «Adesso siamo tutti figli di puttana».
Qualche giorno dopo, quel bagliore chiaro e accecante che sanciva il trionfo della scienza e della tecnica degli Usa e la loro superiorità militare, arrivava fino a Potsdam, una cittadina della Germania occupata dove erano riuniti, per regolare i futuri assetti del mondo, Churchill, Truman e Stalin, rappresentanti delle tre nazioni vincitrici del conflitto. Un rapporto dettagliato sull’esperimento, la sua potenza e le sue possibili conseguenze, era stato consegnato a Truman da Henry Stimson, segretario di Stato per la guerra, giunto appositamente in volo dal Nuovo Messico.
Da quel momento l’atteggiamento di Truman cambiò. «Egli sembrava molto più sicuro di sé,» racconta Robert Murphy «più incline a partecipare energicamente alle discussioni e a opporsi a talune asserzioni di Stalin. Un analogo cambiamento si verificò nei modi di Churchill. Appariva chiaro che era accaduto qualcosa.»
Sul tavolo delle trattative, che proseguivano con difficoltà, Truman volle giocare questa carta, facendo sapere a Stalin che gli Usa avevano sperimentato, con successo, una nuova arma di straordinaria potenza offensiva. Pare che i due statisti ne parlassero nel corso di una passeggiata lungo i giardini del palazzo. Stalin ascoltò con attenzione, ma la sua reazione non fu quella che Truman si attendeva. Il leader sovietico infatti non sembrò particolarmente impressionato o incuriosito dall’annuncio e si limitò a esprimere la speranza che gli Usa facessero buon uso della nuova arma.
Tanta apparente indifferenza aveva una spiegazione che allora né Truman né Churchill potevano immaginare. I sovietici infatti da tempo erano al corrente non solo del tentativo americano di sfruttare a fini militari l’energia nucleare ma di quei lavori, condotti nel più assoluto segreto, conoscevano non pochi particolari, compresa la localizzazione degli impianti, i nomi dei responsabili della ricerca e, probabilmente, il sistema scelto per provocare l’esplosione.
Non la notizia del successo dell’esperimento, ma dell’avvenuto lancio della bomba su Hiroshima, una decisione presa dagli americani senza concordarla con gli Alleati, ebbe su Stalin un effetto drammatico. Egli si convinse che sarebbe iniziata, da quel 6 di agosto, una nuova guerra.
Non era il solo a pensarlo. Il generale Groves, responsabile dei servizi segreti di Los Alamos e consigliere ascoltato del presidente Truman, non ebbe mai dubbi sullo scopo e l’importanza della bomba. «Mi bastarono due settimane da quando assunsi la direzione del progetto» disse «per rendermi conto che il nostro vero nemico era la Russia.»

Qualche settimana dopo la fine della guerra, nel corso di un incontro con il presidente degli Stati Uniti, Robert Oppenheimer – lo scienziato che aveva avuto la responsabilità del Progetto Manhattan – confessava: «Sento che abbiamo le mani macchiate di sangue». «Poco male,» replicò Truman «verrà via tutto sotto il rubinetto.»
L’angoscia di Oppenheimer era condivisa da gran parte degli scienziati che, dopo aver collaborato alla messa a punto della bomba atomica, erano ora in preda a dubbi e rimorsi. Leo Szilard, un fisico di origine ungherese tra i primi a sostenere la necessità della bomba, qualche giorno dopo Hiroshima scriveva: «È una delle più grandi bestialità della storia, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista della nostra posizione morale».
Ma anche la sprezzante risposta di Truman non andava attribuita al suo temperamento. «Andrà via tutto sotto il rubinetto...», come dire che gli scrupoli, le incertezze, i dubbi, i ripensamenti degli scienziati erano solo la riprova della loro ingenuità, della loro ignoranza sulla complessa situazione internazionale. In qualche modo Truman aveva ragione: nessuno degli illustri fisici, chimici, ingegneri, che aveva lavorato e che lavorava ancora alla bomba aveva una precisa idea dei rapporti politici esistenti durante e dopo la guerra tra le grandi potenze; nessuno di loro immaginava le divisioni e i sospetti che avevano percorso l’alleanza anche durante la guerra, destinati a esplodere in reciproche ostilità già pochi mesi dopo la fine del conflitto.
Lo stato d’animo dei dirigenti americani era contraddittorio. Da una parte erano sicuri che l’Urss avrebbe avuto bisogno di decenni prima di costruire l’atomica, data la sua grave arretratezza tecnologica, dall’altra sembravano terrorizzati alla prospettiva che presto potesse entrarne in possesso.
Nell’inverno del 1945-46 Robert Oppenheimer venne convocato da Truman che gli chiese quando a suo avviso i russi avrebbero potuto fabbricare la bomba. «Non lo so proprio» rispose Oppenheimer. «Io invece lo so...» replicò il presidente. «Quando?» si incuriosì lo scienziato. «Mai.» Il volto di Truman, notò Oppenheimer, in quel momento era come illuminato da una mistica fiducia.
Era una fiducia del tutto ingiustificata. Ai primi di settembre del 1949, in un laboratorio della Marina americana, un chimico, effettuando un normale controllo sui campioni di acqua piovana, riscontrava alcune anomalie. Sulla base dei microcurie di cesio e ittrio rilevati in alcuni di quei campioni, raggiunse la certezza che i russi avevano fatto esplodere una bomba atomica. Era vero. L’esplosione aveva avuto luogo esattamente qualche giorno prima, il 29 agosto. Quattro anni dopo Hiroshima, dunque, l’Urss aveva raggiunto l’America.
La reazione di Truman fu immediata. Il 24 settembre annunciò che, in risposta al successo sovietico, gli Usa avrebbero immediatamente dato il via a un più ambizioso progetto nucleare: la fabbricazione della bomba all’idrogeno, detta anche Superbomba, assai superiore per capacità distruttiva a quella di Hiroshima. Cominciava così quella drammatica corsa a nuove armi atomiche sempre più potenti e pericolose che avrebbe impegnato Usa e Urss per oltre quarant’anni.
Con l’intensificazione dei programmi di armamento atomico, si intensificava anche in America il controllo su tutti i possibili sospetti. Il primo problema che si posero le autorità americane all’annuncio dello scoppio dell’atomica sovietica fu quello della sicurezza. Come avevano fatto i sovietici, con la loro economia dissestata dalla guerra, con le loro fabbriche arretrate, con un paese quasi alla fame e tra cumuli di rovine a costruire la bomba? Chi erano gli scienziati che avevano lavorato a quel progetto? E soprattutto, chi erano gli uomini che avevano passato loro il segreto, così strettamente custodito a Los Alamos? Chi erano, insomma, le spie che avevano consentito ai sovietici di rompere il monopolio dell’arma atomica, l’unico che poteva garantire al mondo occidentale la sua salvezza?

Circa a metà dell’ottobre del 1949, il capo della divisione studi teorici dell’Ente inglese per le ricerche sull’energia atomica chiese un colloquio con Henry Arnold, l’ufficiale incaricato della sicurezza. Sembrava un po’ imbarazzato.
«Mio padre» annunciò «ha deciso di trasferirsi a Lipsia per ricoprire la cattedra di teologia presso quella università, e io mi chiedo se questo non mi ponga dei problemi, visto l’incarico che ricopro. Forse si tratta di una sciocchezza, ma ho creduto mio dovere dirlo. Lei, cosa mi suggerisce?»
Lipsia era nella Germania occupata dai sovietici. Il padre di un responsabile di primo piano della ricerca atomica inglese sceglieva, in un momento di gravissimo inasprimento dei rapporti internazionali, di vivere e lavorare nella Germania comunista. Aveva tutto il diritto di farlo ma questo rendeva estremamente difficile la posizione del figlio che aveva accesso, ormai da molti anni, a importanti segreti. Arnold, un ufficiale sulla cinquantina, la faccia tonda e una accentuata calvizie, scosse il capo e prese tempo. «La decisione, eventualmente, non spetta a me... Ha fatto bene a parlarmene. Sentiremo cosa ne pensano i miei superiori.»
E così la faccenda sembrò accantonata.
Il capo della divisione studi teorici di Harwell era un fisico di origine tedesca, da tempo naturalizzato inglese. Aveva trentanove anni e si chiamava Klaus Fuchs. Figlio di un pastore evangelico, alcuni suoi parenti erano stati massacrati dai nazisti. Giovanissimo era riuscito a fuggire dalla Germania nei primi mesi del 1933 e a raggiungere l’Inghilterra dove si era laureato in fisica, a prezzo di grandi sforzi e sacrifici. Era stato uno studente brillante e in qualche momento geniale: una intelligenza da tenere d’occhio e valorizzare, pensavano i suoi professori. Tra coloro che avevano letto e apprezzato i suoi lavori c’erano Max Born e Rudolf Peierls, due scienziati tedeschi che dopo la promulgazione delle leggi razziali si erano rifugiati in Inghilterra.
Nel 1940, Rudolf Peierls, assieme a Otto Frisch, un altro scienziato tedesco, ebreo ed emigrato, aveva presentato al governo inglese un memorandum per la costruzione di una bomba atomica basata sul principio della separazione gassosa de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il lungo freddo