Le parole e i fatti
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Le parole e i fatti

  1. 324 pagine
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Le parole e i fatti

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I posti di lavoro improduttivi "ostacolano la creazione di posti produttivi e perciò impediscono a molti giovani di trovare un impiego". La "solidarietà falsa" è quella "erogata con modalità che causano minori investimenti, maggiore inflazione, minore crescita, costi per le generazioni future", mentre il Trattato di Maastricht "non pone limiti alla possibilità di erogare solidarietà vera: dare ad alcuni oggi togliendo ad altri oggi, non togliendo alle generazioni future". "Se respingiamo l'idea di voler competere" con i Paesi più produttivi "perché non siamo disposti a inseguire troppo l'efficienza a scapito della solidarietà, senza volerlo prepariamo l'Italia a un futuro di disoccupazione". Ma non occorre abbandonare i valori profondi della nostra società: "basta affidarne l'attuazione a strumenti che non ostacolino troppo l'efficienza del sistema produttivo". Queste frasi provengono da articoli scritti da Mario Monti per il "Corriere della Sera" nel 1993, ma potrebbero essere utilizzate per spiegare la sua azione attuale di presidente del Consiglio. Derivano infatti da una visione generale – quella dell'"economia sociale di mercato" – che ha sempre guidato il pensiero e l'azione di Monti: da economista, da commissario europeo, da tecnico chiamato a fermare la corsa dell'Italia (e dell'Europa) verso l'abisso della crisi. Questo libro – che raccoglie gli interventi più significativi di Monti dal gennaio 1992 alla presentazione del decreto "salva-Italia" nel dicembre 2011, preceduti da un'intervista con Federico Fubini realizzata per l'occasione – mostra dunque le origini e le motivazioni di un pensiero economico e di un'azione di governo e ne presenta le linee guida: la flessibilità, la concorrenza sui mercati, la necessità di non finanziare con il debito le spese correnti, il dovere civile di pensare ai giovani, ai non tutelati, alle generazioni future. In più, dal crollo della lira nel 1992 all'esplosione della presente crisi mondiale, diventa una storia in diretta degli ultimi vent'anni, attraverso lo sguardo acutissimo di un osservatore d'eccezione.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
ISBN
9788858639016

UN ECONOMISTA ALLA PROVA DELLE RIFORME

Intervista di Federico Fubini





Nel gennaio del 1992 l’Italia stava per entrare nell’ultima grande crisi finanziaria prima di quella ancora aperta. Allora Mario Monti era un professore di Economia politica dell’Università Bocconi, lontano dai palazzi della politica. In un editoriale sul «Corriere della Sera», in quell’inverno di quiete illusoria, Monti tenta un bilancio sullo stato del Paese. «Oggi è assente la riflessione su “dove saremo” tra dieci o vent’anni» scrive. E si chiede, quanto a quel futuro che stiamo vivendo: «Quale sarà, allora, la posizione dell’Italia nella competizione industriale? Quanta delocalizzazione di attività produttive avrà luogo verso altri Paesi? Quanta parte delle attività produttive che si svolgeranno in Italia farà ancora capo ad aziende italiane? Quanta parte della popolazione attiva residente in Italia (locale o immigrata) troverà occupazione?».
Domande premonitrici nel ’92, attuali oggi. Questo libro – che raccoglie vent’anni di scritti di Monti (prevalentemente editoriali sul «Corriere della Sera»),* da una crisi all’altra, da un’esperienza di governo politico per l’emergenza a un’altra, la sua, di un governo sempre d’emergenza, ma di «impegno nazionale», cioè sostenuto da partiti contrapposti – fa riflettere anche sugli eterni ritorni della vita italiana. Nel ’94, di fronte a un Paese che non riesce a mettersi alle spalle i vecchi squilibri, Monti osserva: «Meglio, forse, un po’ di “conflitto” in una civile trasparenza che tanta “pace sociale” in un’illusione collettiva fondata sul debito». Sono i problemi con i quali ora ha a che fare come presidente del Consiglio. Nel suo studio a Palazzo Chigi, il professore ne ha parlato confrontandosi con i suoi stessi testi. Dal 1992 al 2011.

Presidente Monti, nel leggere i suoi interventi di questi vent’anni, dalla crisi finanziaria del 1992 a quella del 2011-2012, colpisce come molti temi ricorrano. Certi suoi testi di inizio anni Novanta sembrano scritti ieri, come se per l’Italia questo tempo non fosse passato. Sembra che la discussione sulla politica economica, sul rapporto con l’Europa o sulle riforme da affrontare sia quasi circolare.

La circolarità del dibattito italiano colpisce anche me. La vedo legata alla mancanza di memoria. Ogni fase di politica e della politica economica difficilmente trae beneficio dalle esperienze fatte in precedenza, semplicemente perché nessuno si ricorda più. Per questo ho sempre trovato interessanti i lavori che mettono in fila articoli scritti da una stessa persona in un certo periodo. (Ride) Dovrebbe essere un servizio pubblico al quale ogni autore è obbligato, dovrebbe esserci un’autorità della verifica della coerenza o dell’incoerenza. Soprattutto per quanto riguarda la politica economica, mi pare molto importante.

Vuole dire che lei ha ripensato agli eventi di questi decenni, nell’impostare le scelte del suo governo?
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Uno dei momenti in cui ho sentito di più il richiamo del passato e l’importanza di tenerne conto è stato nel modo di impostare il rapporto con le parti sociali e con il Parlamento. Ho dedicato attenzione a questo aspetto e alle conseguenze finanziarie che comportava l’applicazione ripetuta nel tempo di un certo metodo di governo dell’economia. Questa che sto vivendo è un’occasione pratica che mi è capitata, dunque mi sono chiesto se non possa esserci coincidenza tra i risultati che speriamo di ottenere in politica economica e un metodo di governo che sia, a un tempo, più rispettoso della Costituzione e più vecchio – nei riferimenti – di quello applicato negli anni Settanta-Ottanta. Quest’ultimo è il metodo che io critico nel libro. Quello che cerco di applicare è più vecchio perché fa riferimento a una Costituzione degli anni Quaranta, ma allo stesso tempo anche più moderno perché basato su una distinzione di ruoli più chiara di quella che avevamo nel consociativismo, di cui avevo cercato di mettere a fuoco i problemi e le contraddizioni in alcuni degli interventi raccolti in questo libro.

Si riferisce al rispetto dei ruoli delle parti sociali, delle forze di maggioranza e dell’esecutivo?

Sì. Soprattutto alla distinzione di ciò che è responsabilità dei pubblici poteri – governo che propone e Parlamento che dispone – perché riguarda la generalità dei cittadini, e invece le materie che sono più contrattuali. Qui la voce delle parti sociali evidentemente dev’essere maggiore. Nella tradizione del consociativismo italiano quasi tutto veniva trattato e spesso deciso nel triangolo sindacati-datori di lavoro-governo. Ma ci sono alcune materie, come il fisco e in parte le pensioni, per le quali prevale l’interesse generale e quindi la competenza spetta al governo e al Parlamento. Altre, come il mercato del lavoro, per le quali la pertinenza alle parti sociali è maggiore, quindi si giustifica di più il negoziato. Non è solo perché in certe situazioni il tempo stringe; è anche per questa convinzione che sulle questioni di bilancio con il mio governo non abbiamo fatto consultazioni con le parti sociali, né ne faremo. Lo stesso sulle pensioni. Abbiamo avuto un incontro di due ore qui in una stanza a Palazzo Chigi con Luigi Angeletti, Raffaele Bonanni e Susanna Camusso (i leader di Uil, Cisl e Cgil, N.d.R.). Ma li abbiamo informati, non possiamo certo dire che quella fosse una consultazione approfondita. Invece, per il mercato del lavoro, abbiamo ritenuto che la trattativa fosse più necessaria. Eppure anche su questo siamo stati attenti, sia nella sostanza che nella presentazione, a chiamarla consultazione. Non concertazione.

Ma alla fine nel confronto con i partiti sulla riforma del lavoro, la linea di demarcazione fra le prerogative degli uni e degli altri si è un po’ confusa. Non trova?

Il governo è riuscito a contenere il processo in un ambito di consultazione con le parti sociali. Per questo sono stato molto deluso dal fatto che poi però i partiti – quale più, quale meno – in quel caso abbiano accettato di riaprire essi stessi tavoli di trattativa nel momento in cui io pensavo dovesse esserci una sintesi in nome del pubblico interesse. Cioè del Parlamento. È successo così che i partiti abbiano riaperto tavoli dove, in qualche misura, diverse parti hanno cercato di avere ciò che non avevano ottenuto nel momento conclusivo della consultazione con il governo.

In un articolo del 2007 raccolto in questo volume lei ha scritto, a proposito di Tommaso Padoa-schioppa, allora ministro dell’Economia: «I tecnici sono i veri politici». Lo pensa davvero?
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L’ho scritto nel preciso contesto di quelle considerazioni su Padoa-schioppa, non ho mai pronunciato quella frase con una valenza generale, nemmeno in quella particolare circostanza.

Ma si aspettava che il rapporto con i partiti sarebbe stato così difficile? A partire dal taglio delle spese, incluse quelle della politica, i fraintendimenti non sono mai mancati.

Mi aspettavo un rapporto più difficile con i partiti. Nel complesso, in questi mesi l’ho trovato più semplice di quanto si potesse prevedere. Non so quanti a metà novembre 2011 avrebbero creduto che in pochi mesi avremmo potuto fare tanto con l’appoggio dei partiti. C’è stato un significativo contenimento del disavanzo, quindi la riforma delle pensioni che oggi viene considerata la più avanzata in Europa, poi il pacchetto di liberalizzazioni e di concorrenza. Quel programma di apertura del mercato dei servizi potrà non soddisfare pienamente né me né altri che tengono in gran conto i valori della concorrenza, ma è più di quanto fosse stato fatto in Italia negli anni precedenti. Infine ci sono la riforma del lavoro, l’avvio della spending review, quello delle cessioni dei beni dello Stato, la blindatura del vincolo di bilancio in Costituzione e la sua attuazione. La riforma del lavoro, tanto per dirne una, non piace a nessuna delle parti «contrapposte». E, se vogliamo, è normale. Eppure è considerata una riforma del lavoro significativa e importante di cui l’Unione Europea ha chiesto l’approvazione definitiva in tempi rapidi. Questi sono fatti concreti e realizzati, oltre agli interventi messi in cantiere.

Insomma, non ha mai pensato che sarebbe rimasto ostaggio dei calcoli del centrodestra o del centrosinistra?

Mi limito a constatare quali sono le riforme fatte con questo quadro politico. Si tratta di una cooperazione inedita e sulla carta straordinariamente difficile tra un partito che ha fatto un passo indietro e un altro che mai avrebbe pensato di lavorare con chi poco prima era al governo. Poi ci siamo noi, tecnici chiamati a governare che all’inizio avevamo proposto ai politici di essere presenti essi stessi nel governo; ma i politici hanno declinato e preferito collaborare da fuori. Dentro di me c’era un enorme punto interrogativo, eppure poi le scelte essenziali sono state compiute. Non tocca a me stilare un bilancio sulla qualità di ciò che si è fatto; sono tutte scelte che comportano sacrifici e, a seconda delle proprie idee, si possono apprezzare al 100 per cento, all’80 per cento o al 30 per cento. Ma sono comunque decisioni assunte con il voto del Parlamento. Se il rapporto con i partiti fosse stato molto negativo, ci avrebbe impedito di arrivare a questo punto. Invece ha funzionato.

Dentro di lei, in questi sei mesi, si è mai dato una soglia? Intendo una linea nella sabbia alla quale lei dice a se stesso: «Non ci sto più». Dopo gli attacchi ripetuti, le pressioni, i paletti per limitare le riforme, magari le sarà capitato di pensare: «Se è questo che vogliono, lo fanno con qualcun altro».

Una soglia c’è sempre. C’è stata fin dall’inizio. Non ho mai minacciato le dimissioni ma è vero che di volta in volta ho un’idea precisa in testa, sia sui singoli casi che in generale. Se si parla di una soglia di dignità personale, quella è già stata superata molte volte verso il basso (sorride), qualora si adottassero i criteri che uno adotta nella vita civile o nella vita professionale, o in quella accademica.

Parla di certi attacchi personali che ha ricevuto?

Be’, sì. Ci sono tre soglie diverse in realtà. La prima è quella della dignità personale o del normale amor proprio: quanto a quella, se uno ha un incarico pubblico, soprattutto in un momento così difficile, deve abituarsi all’insensibilità e cercare di non reagire. Poi c’è una soglia che riguarda la qualità delle decisioni prese. Qui non siamo nel campo delle percezioni, delle lodi o degli attacchi personali, ma della qualità delle scelte politiche e legislative. Lì ovviamente non dichiaro mai prima la soglia che mi sono dato, ma la valutazione di qual è il livello accettabile per una riforma o un provvedimento la faccio sempre. Sicuramente avrei ritirato certe proposte, se le avessi viste snaturate. In alcuni casi il risultato finale è stato meno buono di quanto avrei voluto, ma naturalmente va considerata anche l’alternativa: cosa succede se non si fa una certa riforma o si abbandona il campo perché un certo provvedimento subisce trasformazioni che non convincono completamente? Poi c’è una categoria intermedia e ultima di cose che non sono pure questioni di dignità personale, né di pura valutazione oggettiva della qualità del risultato. Se sono valutazioni fuorvianti che inficiano molto la credibilità del governo, non è più solo questione di saper incassare giudizi sgradevoli.

Si riferisce alle accuse che sono state mosse al governo dopo i suicidi per ragioni economiche di cui tanto hanno parlato i media?

Quelle accuse sono talmente infondate che spero nessuno ci creda: è un caso estremo e grave del primo tipo, le accuse personali. Ma quando sento dire che questo è un governo sadico che ha per solo obiettivo quello di tassare gli italiani, be’, questa è un’altra storia. È un tipo di valutazione che in una politica economica dove conta la credibilità, la reputazione, la capacità di far capire l’obiettivo non provoca solo prurito e fastidio. Se ripetute molte volte e percepite anche all’estero, accuse come queste possono impedire poi al saldo dei risultati di essere positivo. E in questo rientra anche la questione, delicatissima, della responsabilità della crisi in cui ci troviamo.
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Lei qualche volta ha detto che chi è responsabile di aver portato l’Italia a questo punto dovrebbe riflettere. Ma si ha l’impressione che non sia facile per lei parlare di questo tema.

La situazione per definizione doveva essere gravissima, altrimenti non ci sarebbe stata la cesura politica e quasi istituzionale che si è avuta. In caso contrario non sarebbero stati chiamati dei signori che non erano in politica, e magari sarebbero entrati nel governo anche dei politici. Forse il fatto che non siano venuti a bordo con noi sottolinea quanto fosse percepita la gravità del momento.
Questa nostra è una situazione un po’ particolare. In un normale caso in cui un nuovo governo arriva a seguito di elezioni vinte, si fa una revisione dei conti pubblici, si accusano i predecessori di aver lasciato il bilancio in cattivo stato e magari si accentuano i problemi. Qui, no.

Perché no?

Perché questo governo ha come principali alimentatori e produttori di voti in Parlamento tre forze politiche. Di esse le due maggiori, una in un periodo più distante, l’altra in uno più recente – più l’una o più l’altra secondo il giudizio dei singoli – , hanno governato una lunga fase che evidentemente non ha avuto una gestione ottimale. Per definizione non l’ha avuta. Se l’avesse avuta, l’Italia a metà novembre del 2011 non si sarebbe trovata in quella situazione così difficile. Questo fa sì che mi sia preclusa la via che tutti i governi del mondo hanno – e di solito usano molto più del giusto – di scaricare le colpe sui predecessori, che sono i loro avversari del momento.
Ogni mese che passa può diventare poco chiaro per i cittadini, che non hanno in mente la cronologia delle decisioni e dell’andamento dei mercati, che cosa del loro disagio sia dovuto a chi c’è da pochi mesi e cosa a chi c’era tempo fa.
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Come ne esce?

Valorizzando le continuità e cercando di sottolinearle. Questo ha reso affascinante l’esercizio quando era nuovo. All’inizio, quando dovevo andare più spesso in Parlamento, vedevo che in base alle minime sfumature di ciò che dicevo applaudivano da una parte o dall’altra. Rarissimi gli applausi insieme. Ma è riuscita una cosa contro le leggi della natura, una cooperazione fra forze opposte. Quindi, quando valorizzare le continuità faceva piacere agli uni, ma meno agli altri, ho cercato di dare rilevanza alle continuità lunghe, ad esempio sulla politica europea. È un esercizio che credo sarà studiato dal punto di vista politologico, perché è piuttosto peculiare. Ha delle facilità e delle difficoltà particolari.

Non è che lei si sente un po’ solo in queste bellissime stanze di Palazzo Chigi?

Solo? Non mi sento solo, e non unicamente perché ho ministri molto leali e bravissimi, così come i collaboratori. Che intende dire? Che le sembro preoccupato?

Solo da un punto di vista istituzionale. I partiti che dovrebbero sostenerla lo fanno con ambiguità. Scalpitano, recalcitrano.

Un altro modo di vederla è che non è chiaro perché dovrebbero sostenerci. Ma perché mai dovrebbero sostenere questo governo? Il nostro lavoro produce per loro costi politici rilevanti di breve periodo. Che alla fine la responsabilità di certe decisioni sia nostra, mi pare ovvio. Ma in passato chi sedeva in queste stanze a Palazzo Chigi aveva dietro di sé una forza politica, grande o piccola che fosse, alleata o meno con altre. Coloro che sono stati presidenti del Consiglio prima di me non dovevano guadagnarsi tutti i giorni il consenso. Io invece non ho un retroterra politico mio, eppure de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le parole e i fatti
  4. Cronologia essenziale
  5. Titoli originali degli articoli pubblicati sul «Corriere della Sera»