L'uomo di superficie
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L'uomo di superficie

  1. 209 pagine
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L'uomo di superficie

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Privi di sogni, incapaci di amare, pieni di paura, immersi in una realtà in cui il potere e l'apparenza sono diventati l'unico metro di giudizio, gli uomini contemporanei stanno annegando in una frustrante e avvilente ossessione per la superficie del corpo nel tentativo di celare il proprio vuoto interiore. Vittorino Andreoli, sempre attento al destino dell'uomo nella modernità, prende spunto dalla parabola della propria vita per descrivere, nel modo più personale e insieme collettivo, il deserto etico della società attuale, in cui l'imperativo del denaro ha condotto all'eccesso e alla saturazione e nella quale il malessere non è solo esistenziale ma pervade ogni struttura: dalla politica alla vita quotidiana. Una società imprigionata nell'immediato, appiattita sul marketing del corpo, che però deve ritrovare al più presto le proprie radici e la propria umanità, se non vuole morire di bellezza effimera, di violenza gratuita, di denaro, di vanità.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858641002
L’uomo di superficie
L’uomo di superficie galleggia sulla società liquida
spinto da un desiderio morto
I MUTAMENTI DI UN UOMO
La storia di ciascun uomo è segnata da episodi speciali che, anche se ridotti nel tempo, hanno una dimensione e un vissuto di grande portata.
Ma nell’affermazione di ciascun uomo pesa anche la Storia con la S maiuscola, quella di un intero popolo, intessuta di eventi che colorano, non sempre positivamente (basti pensare alle guerre), una comunità nel suo insieme. La nostra identità non si lega infatti al solo presente ma, essendo il risultato di un cammino, è connessa al passato, fissato nella memoria, e al futuro, che aleggia nell’immaginazione e persino nei sogni.
Questo percorso esistenziale va tuttavia inserito in una cornice più ampia, comprensiva delle mutazioni genetiche, di cui si occupa la paleontologia, e delle modificazioni delle civiltà, che sono dettate dal cervello plastico e che riguardano gli insiemi sociali. Nel corso della vita, ci sembra di passare da un’esistenza a un’altra, e talvolta il passato è così lontano dal presente che non lo sentiamo neppure più nostro.
Ci sono cambiamenti per conversione, come è capitato a Paolo di Tarso sulla via di Damasco: illuminato in sella al proprio cavallo, da guerriero diventa apostolo. Anche Francesco d’Assisi muta radicalmente la propria visione del mondo e il proprio agire dopo aver sentito la voce del Signore, e così Agostino di Tagaste.
Oltre alla chiamata, all’incontro con Dio, ci sono conversioni dovute all’incontro con una donna o con un uomo speciale, che diventano oggetto d’amore e cambiano la vita. Lo stesso può capitare per via di un’amicizia, di una professione gratificante, di un repentino mutamento delle condizioni economiche che cambiano anche lo status sociale. È come se ciascun uomo potesse vivere infinite esistenze diverse, che talora si realizzano e talora restano solo una speranza. Ognuno di noi avrebbe potuto vivere in maniera nettamente distinta da come ha vissuto o sta vivendo: la nostra condizione si lega a eventi, anche di piccolo significato esteriore, che tuttavia, se accadono, possono cambiare totalmente la nostra storia, il nostro valore, il destino, se questo è il termine con cui indichiamo ciò che abbiamo fatto e che potremmo non aver mai compiuto.
Sono ben consapevole che la mia vita avrebbe potuto essere differente; bastava che certe piccole cose non si fossero mostrate, che certi incontri non fossero avvenuti, sostituiti da altri analoghi ma radicalmente diversi.
Delle mille vite possibili ne consumiamo una, e non è detto che sia la migliore. La vita dell’uomo è veramente un mistero e ciascuno di noi, proprio grazie alla plasticità del cervello e dunque alla possibilità di mutare il comportamento, ma soprattutto grazie all’evenienza di un legame d’affetto particolare, potrebbe essere un altro.
Sono affascinato dai desideri che, ne sono convinto, pescano proprio tra le vite possibili. I desideri si inseriscono nella dimensione di Io ideale che ciascuno possiede e persegue, senza mai raggiungerlo completamente; alcune persone ne rimangono distanti fino a non coltivarli nemmeno più.
Contano anche gli errori. Talora un comportamento ritenuto sbagliato porta frutti positivi, mentre uno che sembrava nato sotto una buona stella si rivela di lì a poco un tranello perché produce un cambiamento di senso contrario a ciò che poco prima sembrava prospettare.
Il denaro cambia la vita ma non dà la felicità, e può generare forme di dipendenza foriere di disagi e frustrazione. L’amore cambia la vita, ma sovente dura poco e perde i colori cangianti e puri che possedeva nella luna di miele. Un figlio cambia la vita, ma sovente la rende conflittuale.
A sconvolgere l’esistenza può essere un’idea, una lettura: dimensioni non oggettuali che tuttavia mettono in moto una visione del mondo differente.
La voglia di cambiamento è presente in tutti, e tutti vorrebbero cambiare per migliorare, per stare meglio. Questo desiderio induce spesso a sottovalutare la condizione in cui ci si trova, e tutto ciò che essa può ancora dare di positivo. E allora, pur di cambiare, si butta quanto ormai ci appartiene.
È lo stesso meccanismo che domina nell’invidia. Si desidera avere ciò che un altro possiede e si fa di tutto per ottenerlo, senza accorgersi di quanto si ha già. La condizione che si persegue, e che è propria di altri, ci impedisce di usare e vivere completamente quella in cui ci troviamo. Così, appena raggiunto l’obiettivo, ci accorgiamo che altro ancora ci attira, e ci dimentichiamo persino di quanto abbiamo da poco raggiunto per correre altrove, sempre in balìa dell’invidia.
L’invidioso non usa mai ciò che ha, gli manca sempre ciò che vuole. Non ha, e non è: cerca di essere e di avere qualcosa che nemmeno conosce e che desidera solo perché appartiene ad altri.
L’invidioso non ha un Io forte, ben strutturato, ma si appoggia sempre a un Io gregario, e rimane così un nessuno faticosamente in corsa.
Per questo occorre fermarsi e meditare su quale senso abbia il vivere nel mondo, per evitare il rischio di pensarsi immortali e dunque di voler accumulare per sempre, ignorando che ciascun uomo è appeso a un filo e che basta un colpo di vento per farlo traballare prima e cadere poi.
I cambiamenti di un uomo si legano indubbiamente al passare del tempo. La fanciullezza è la fase del bisogno della famiglia, l’adolescenza è invece l’età della metamorfosi, che non si riesce a controllare e perciò fa paura. L’età adulta si lega ai sogni del successo e del ruolo sociale. Proprio per questo, il più delle volte si perseguono obiettivi parziali, che una volta raggiunti si spostano in avanti. C’è infine la vecchiaia, sopra i sessantacinque anni di età, in cui finisce l’agone della vita adulta e del lavoro e si deve trovare un senso nel proprio passato o in un’azione che non si lega se non al gusto e alla voglia di aiutare gli altri.
Ogni schema appare approssimativo e banalizzante, ma non c’è dubbio che le fasi dell’esistenza siano variazioni in se stesse, anche se oggi esistono protesi per sostituire i deficit che nel passato erano inevitabili e molto evidenti. Persino la sessualità nel vecchio può essere mantenuta artificiosamente, e il giovanilismo, cioè il vivere dimenticando i propri dati anagrafici, è sempre più diffuso; ci si sottopone così a sforzi drammatici per mantenere gli addominali tonici, la pelle distesa, persino i capelli in testa. La lotta alla calvizie, all’impotenza, al decadimento del corpo sono alcune delle tipiche strategie per nascondere la propria età e imbrogliare la biologia, ma generano solo tanta tristezza. Anche in questo caso, per cercare ciò che la vecchiaia non è si perde quanto essa è e può dare.
È molto difficile scindere i cambiamenti del singolo uomo da quelli del mondo in cui è immerso e di cui è parte. Mondo inteso nelle sue caratteristiche fisiche e architettoniche, ma soprattutto sotto l’aspetto sociale, e dunque come contesto dei rapporti tra gli uomini e delle relazioni che ciascuno stabilisce con gli altri.
Il mondo esterno ha un ubi consistam oggettivo, ma ogni uomo ha solo la percezione dei propri vissuti, e dunque di come vive il mondo in cui si trova. A dominare la sua esperienza è proprio la soggettività.
Se uno si trova in stato d’ansia, percepisce il mondo e i suoi particolari in maniera diversa rispetto a quando è sereno e magari sta vivendo una relazione d’amore. Il vissuto muta poi enormemente in condizioni di preoccupazione o di paura.
Insomma, esiste un’obbiettività, quella in cui crede la scienza, ma il singolo conosce solo il mondo filtrato dalla propria vita, e da come si sente. La realtà sfuma di fronte al vissuto e il mondo circostante può riempirsi di mostri, invisibili agli altri ma terrifici e spaventevoli per colui che li subisce.
Il sentimento cambia tutto, contro la fisica, contro la ragione e persino contro la scienza. L’uomo è fatto anche delle deformazioni causate dai legami, dalle simpatie e antipatie e da una serie di idiosincrasie per cui la scena, che è universale, scompare davanti al soggetto, che è invece assolutamente unico e sconosciuto a se stesso: un mistero, in balìa di modificazioni, talora rapidissime, che mutano completamente e concretamente la sua visione del mondo. Se io vedo la Madonna o un orco nella mia stanza, tutti lo potranno negare, ma per me è un’esperienza reale, e molto concreta. A complicare la definizione della realtà si è inserita oggi la dimensione virtuale di un mondo che ha l’aspetto di quello esistente, ma che non c’è affatto. Sembra esserci, ma è pura illusione.
È consigliabile, parlando di mutamento di un uomo, soffermarsi sul suo corpo e poi sulla sua mente, anche se ciò comporta una certa artificiosità perché mente e corpo si influenzano a vicenda. E poi passare ad analizzare la società, e dunque il rapporto intersoggettivo che è condizione per essere uomo. Il corpo, dunque, la mente e la società.
Costituiscono l’insieme, il sistema di ciascun vivente: se muta il mondo, cambia l’uomo che ne è parte, e viceversa.
Nel ripercorrere i mutamenti che un uomo ha incontrato e vissuto, ho scelto di riferirmi all’uomo che credo di conoscere meglio, me stesso, e di inserirlo nel suo tempo. Un tempo che inizia nell’aprile del 1940 e continua ancora oggi.
Uso la mia storia per significare come l’uomo e il suo mondo si sono modificati quasi irrevocabilmente nell’arco di poco più di settant’anni. Credo in questa maniera di poter mostrare come i cambiamenti siano straordinariamente importanti, e siano così tanti da fare di ciascuno di noi un sistema in continua trasformazione.
In questa fantasmagoria di variazioni mi rimane tuttavia la percezione di essere sempre lo stesso Io (identità) e di trovarmi nello stesso mondo, di riconoscerlo uno, anche se continuamente diverso. L’uomo è un attore in scena per una storia sconosciuta in cui cambiano continuamente l’abito, la recita, i personaggi, e anche la scenografia, tanto da avere talvolta la sensazione di trovarsi in vite diverse.
Il mio intento non è di scrivere la mia autobiografia: mi piace mettermi in gioco per descrivere un uomo mutato in una civiltà in netta crisi come quella in cui credo ci troviamo a vivere oggi.
Il mio corpo
Un mese dopo la mia nascita l’Italia entrò in guerra, e dunque diventai presto un soldatino inconsapevole. Il mio corpo viveva in stretto contatto con mia madre, che certamente avvertiva il dramma, non solo perché suo marito sarebbe potuto andare al fronte, ma anche perché le guerre rendono la vita ancor più difficile di quanto non sia in tempo di pace.
Questa guerra, poi, avrebbe avuto come teatro operativo le città. Era trascorso ormai il tempo in cui si combatteva in campi militari lontano dai centri abitati, nel rispetto delle regole e dei patti. L’ultima guerra di questo tipo era stata quella franco-prussiana del 1870-71, voluta da Bismarck per fornire al suo popolo diviso un nemico comune e riunificare l’Impero tedesco prussiano.
La consapevolezza di star per entrare in un conflitto durissimo, che non avrebbe risparmiato niente e nessuno, deve avere in qualche modo gettato un’ombra sui miei primi mesi di vita, e sulla felicità dei miei genitori per la mia nascita.
Bambini fasciati e bombardati
Il corpo di un bambino si confonde con quello della propria madre e in guerra ogni corpo si trasforma. Non solo quello del soldato, che lo sente come obiettivo del nemico, ma anche quello di un neonato, benché gli manchi la coscienza esplicita per poterlo raccontare almeno fino all’età del linguaggio, che viene solitamente raggiunta intorno all’anno e mezzo.
Dobbiamo pensare anche che il mio corpo era totalmente fasciato, braccia comprese, secondo l’uso del tempo. Uso che durava da secoli, come ci insegnano alcune rappresentazioni famose tra cui per esempio la Presentazione al tempio di Gesù di Giovanni Bellini o del Mantegna. I bambini erano fasciati come mummie egizie, soltanto il viso rimaneva libero di guardarsi intorno.
Allora si riteneva che tale pratica prevenisse i disturbi alla colonna e alle anche, che erano molto frequenti. Ricordo che mia sorella, di due anni maggiore di me, portò più tardi un busto di gesso per correggere una scoliosi delle vertebre lombari di cui soffriva nonostante la fasciatura che le era stata rigidamente imposta da neonata. Dunque ero legato, e venivo sfasciato solo per essere pulito e lavato.
Non va dimenticato che fino alla conquista del linguaggio si riteneva che il bambino fosse una sorta di vegetale che andasse semplicemente controllato nel peso e nell’altezza per assicurarsi che seguisse la curva di crescita. Non si parlava di vita psichica, e tanto meno si pensava di estenderla al periodo fetale, come invece si usa fare oggi.
Non posso raccontare le mie sensazioni di allora, che sono però certamente nascoste dentro la memoria, in quei mondi paralleli che fioriscono accanto a quello consapevole. La prima infanzia è un esempio classico per dimostrare come quel vuoto di consapevolezza non sia affatto una non vita, ma una vita reale, vera, concreta, semplicemente non ricordata.
Nel pensarmi fasciato la mia mente va a un corpo malato, in cura. Attaccato a mia madre dovevo avvertire che la nostra simbiosi era tutt’altro che felice: bastava ascoltare i bollettini di guerra, che rimbombavano tra i deliri del capo del governo e le tragiche notizie dei morti, che toccavano famiglie vicine e che da un momento all’altro avrebbero potuto estendersi alla nostra. I caduti erano definiti eroi, ma al contempo erano ragazzi che non sarebbero più tornati.
Avevo tre anni quando cominciarono i bombardamenti a tappeto. Ricordo le corse in braccio a mia madre per raggiungere un rifugio a qualche centinaio di metri da casa, che lei talora percorreva tra edifici che crollavano e fuochi di distruzione.
Il ricovero era un luogo drammatico anche per un bambino. Una calca di persone disperate, al buio, terrorizzate, in attesa della morte che, anche se non sarebbe arrivata quel giorno, stava semplicemente facendo le prove generali per la sera della prima.
La guerra indusse i miei a portarmi presto in campagna dal nonno materno, nella certezza che le case isolate non fossero obiettivi sensibili: i tedeschi avevano iniziato la ritirata e distruggevano tutto ciò che incontravano, inseguiti dagli alleati che, per essere sicuri di non lasciarne traccia, annientavano tutto quanto non era stato già frantumato.
E così anch’io vissi la follia della guerra.
In campagna, il mio corpo era più libero. Di quei tempi serbo il ricordo di due esperienze, rimaste ben fissate nella coscienza. La prima fu una caduta dal carretto mentre i miei zii lo stavano caricando del fieno appena raccolto. Era tirato da un paio di buoi, che poco dopo vennero sequestrati dall’esercito nemico. Cadendo, la mia testa era finita sulla traiettoria di una ruota. Fu la saggezza dei buoi a fermarsi su comando dello zio a qualche centimetro da me: ci mancò un soffio a che non diventassi anche io una strana vittima di guerra.
La seconda esperienza corporea, questa veramente indimenticabile, fu l’essere preso in braccio una domenica da un monaco camaldolese. Ma qui occorre una rapida spiegazione.
La terra dei nonni confinava con il terreno dell’eremo della Rocca di Garda. I nonni avevano un ottimo rapporto con la comunità: le fornivano carne nei casi in cui un eremita fosse ammalato, e sovente verdure e vino. Insomma, erano legati da un rapporto di buon vicinato.
Mio padre, per sfuggire ai fascisti, veniva accolto nell’eremo nei momenti di particolare pericolo. Ciò succedeva soprattutto in occasione dei rastrellamenti, che colpivano anche le campagne, dove fra l’altro era più facile trovare approvvigionamenti rispetto alle città ormai distrutte. La domenica, solo i maschi potevano andare alla messa nella cappella dell’eremo. E qui, nella penombra della chiesa e tra le voci del coro che intonava canti di preghiera, ricordo un eremita con la tonaca bianca e il cappuccio avvicinarsi e prendermi in braccio. Era mio padre, che mi stringeva a sé con le lacrime agli occhi temendo chissà quale futuro per me e i miei fratelli.
Quegli incontri si sono impressi nella mia mente, e hanno certo giocato un ruolo nella mia storia futura. Forse servono a spiegare il trasporto che ho sempre provato verso il monachesimo e la storia degli eremiti in particolare, oltre alla mia aspirazione di adolescente a farmi camaldolese, forse per il bisogno di proiettarmi in quel padre, in quell’uomo bianco che usciva dal nulla, dal buio, e che mi stringeva forte come se io fossi per lui un punto di riferimento.
Finita la guerra tornai in città, ma senza gioia. Macerie dappertutto, compresa la casa in cui abitavamo. Mio padre non aveva più nulla, se non la speranza affidata alla voglia di ricominciare a vivere sognando tempi e un futuro diversi.
Il freddo e la fame
Uno dei piaceri che per primo ho scoperto sul mio corpo si lega al freddo. Allora gli appartamenti non erano riscaldati con i sistemi attuali, e molti erano completamente freddi, nel senso che non godevano nemmeno di stufe che potessero attenuarne il rigore in certe circostanze o in alcune ore del giorno.
Dai nonni il luogo più caldo era la stalla, almeno finché ci sono rimasti gli animali, le mucche, i buoi e Mario, il cavallo che trainava il biroccio. Maggiore era il numero degli animali, più efficace il caldo della stalla. A questo luogo lego un ricordo particolare. Era il ’44 – avevo dunque quattro anni –, quando la mamma si accorge che sulla mia testa abita una moltitudine di...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. L'uomo di superficie
  4. Appendice