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Bambino studioso e giovane rivoluzionario
Charles Pierre Péguy nasce il 7 gennaio 1873 a Orléans. L’antica città adagiata sulla riva della Loira era allora di medie dimensioni, ma si andava ingrandendo, soprattutto con l’arrivo dalla circostante campagna di contadini poveri, speranzosi di poter migliorare le proprie condizioni di vita. Di solito non si installavano in città, troppo cara, ma nei sobborghi immediatamente fuori dalle mura medievali. In uno di essi era arrivata, diciotto anni prima che Péguy nascesse, Étiennette Queré, la nonna. Era figlia di contadini dei dintorni di Moulins, un paesino dell’interno più remoto della Francia. I suoi genitori erano così poveri che, non potendo sfamare tutti i figli, l’avevano mandata dal nonno boscaiolo. La piccola era cresciuta in un ambiente di miseria ed era rimasta analfabeta; accudiva alla pulizia della baracca, alla custodia del gregge e filava. Un giorno, dopo un litigio col nonno, decise di abbandonare i boschi per cercare lavoro a Moulins, che doveva sembrarle una grande città. All’inizio aveva avuto fortuna, tanto da diventare proprietaria di una piccola fabbrica di fiammiferi, ma poi un affare sbagliato l’aveva ributtata nella miseria da cui era venuta, ora aggravata dal fatto di aver avuto, senza sposarsi, due bambine. Tutto ciò spinse Étiennette, ormai più che quarantenne, a lasciare la sua terra e a trasferirsi a Orléans. Si insediò nel sobborgo chiamato Borgogna; con sé aveva la figlia più piccola, Cécile, la madre di Péguy.
Per guadagnarsi da vivere Étiennette faceva la lavandaia a servizio di famiglie benestanti e Cécile lavorava in fabbrica. Lei però aveva imparato a leggere e scrivere e avendo uno spirito intraprendente pensò che sarebbe potuto essere redditizio mettersi a impagliare le sedie; le sembrava un lavoro adatto a una donna, fatto di precisione e di delicatezza. Ci si buttò con foga e, lavorando quindici e più ore al giorno aiutata dalla madre, riuscì a farsi una posizione.
L’8 gennaio 1872 Cécile, 26 anni, sposa Désiré Péguy, 27 anni, orleanese da generazioni e di professione falegname. Due anni prima, in qualità di riservista, era stato chiamato a difendere Parigi dall’assedio dei tedeschi; vita dura quella del soldato: paura, fame, ambienti malsani. Désiré ne aveva contratto una brutta malattia, che lo porterà alla morte prima ancora che passassero due anni di matrimonio, il 18 novembre 1873.
I ricordi di Pierre
Péguy è dunque cresciuto con la mamma e la nonna. Tutte le testimonianze concordano nel descriverlo come un bambino riservato, addirittura un po’ solitario. Ma forse è meglio lasciare la parola a un testo in cui lui stesso, a 26 anni, racconta la propria infanzia. Si intitola Pierre ed è rimasto incompiuto (un breve stralcio è tradotto in italiano, nell’antologia Educazione e demagogia).
LA NONNA E IL PAPÀ
«Era mia nonna che si occupava di me, che mi raccontava delle storie. Io preferivo le storie divertenti, perché erano vere. Le più divertenti erano quelle in cui ci si prendeva gioco del diavolo, malgrado le sue corna e il suo forcone e il fuoco che sputava; il diavolo voleva sempre rubare le anime e portarle all’inferno per farle bruciare, perché era cattivo; ma ci si arrangiava quasi sempre per strappargliele all’ultimo momento. A volte erano gli angeli che scendevano; altre volte era il buon Dio; e altre volte era il signor curato che, con l’aria da nulla, era più furbo del diavolo. Mia nonna mi raccontava altre storie dove il signor curato era regolarmente gabbato dai suoi parrocchiani; e io mi stupivo un poco che monsignor curato, sempre più furbo del diavolo, fosse sempre meno furbo dei suoi parrocchiani.» Forse il problema dell’inferno e di come impedire che le persone ci vadano ha cominciato a occupare la mente di Péguy ascoltando storie di questo genere.
La nonna soffriva di reumatismi e nevralgie, che la facevano gridare di dolore: «Io avevo paura quando lei gridava, perché m’ero sempre immaginato che fossero solo i bambini che gridano e piangono; così, le prime volte che ho visto piangere degli adulti, ho sentito che essi dovevano avere una sofferenza straordinaria e ne sono rimasto a bocca aperta». Per tutta la vita Péguy rimarrà a bocca aperta, incredulo e allo stesso tempo desideroso di far qualcosa, di fronte al mistero della sofferenza umana. La sofferenza di suo padre – uomo «dolce, piccolo, serio e paziente» –, non l’ha vista, ma gli è stata più volte raccontata. La madre conservava una lettera di Désiré dal fronte di Parigi e a volte la leggeva al figlio per fargli capire quanto il suo fidanzato avesse patito in guerra; poi gli raccontava della lunga malattia: all’inizio, nonostante i dolori, aveva continuato a lavorare, ma poi «dovette restare a casa, mettersi a letto, non alzarsi mai; era un buon malato, facile da curare. Un medico migliore degli altri dichiarò che aveva un tumore o cancro allo stomaco; avevo dieci mesi quando mio padre è morto; è per questo che non l’ho mai conosciuto».
IL LAVORO BEN FATTO
«È da quei tempi lontani che ho conosciuto di amare le faccende domestiche ben fatte. Non mi piaceva molto giocare perché non è utile e non è affatto divertente. Ero molto contento quando correvo con tutte le mie forze nella grande strada del borgo e bevevo l’aria a pieni polmoni; ma ero, credo, più felice ancora, e felice intimamente, quando lavoravo in casa, al mio posto, davanti alla finestra, sulla mia piccola sedia, tra la nonna e la mamma. Amavo lavorare; amavo lavorare bene; amavo lavorare svelto; amavo lavorare molto. Ero felice del mio incarico ben svolto, felice dei complimenti, interamente felice della confidenza ch’esso mi valeva.»
Effettivamente il sobborgo Borgogna è un posto dove il lavoro ferve; si tratta di non ricadere nella miseria, di strappare coi denti una vita minimamente dignitosa. La morale del lavoro duro, sacrificato, è dominante nel contesto del quartiere; una morale il cui obiettivo non può che essere il salto nella scala sociale: diventare cioè borghesi. Il Péguy socialista non l’accetta più e infatti intitola criticamente i suoi ricordi Pierre. Inizio di una vita borghese, dove quest’ultima parola indica la sintesi dell’ingiustizia del mondo moderno. Quando Péguy tornerà a parlare della sua infanzia da cristiano coglierà anche un altro valore nel modo di lavorare degli abitanti del sobborgo Borgogna: il lavoro fatto bene per sé, come quello degli scalpellini medievali che curavano nei minimi dettagli il fregio che sarebbe stato posto sul pinnacolo più alto della cattedrale e che nessuno avrebbe mai visto da vicino. Quegli operai e artigiani certamente vivevano il lavoro come necessario pedaggio per arrivare allo stato borghese, ma persisteva in loro l’eredità di una concezione secondo cui l’uomo risponde, lavorando, a una vocazione. E ciò produce la gratuità e l’esattezza che il lavoro mercificato non conosce.
CONSIGLI MORALI
«La mamma saggiamente e lentamente mi dava consigli per la vita e mi insegnava cos’è il mondo: ci sono due specie di mondo, i buoni e i cattivi. I buoni operai sono quelli che lavorano bene, che lavorano svelto, che lavorano molto, che sono attivi, intelligenti, che non sono bestie, che sono pazienti, che hanno coraggio, che non sono pigri, che non si ubriacano. Soprattutto i buoni operai non fanno mai politica, perché è ancora peggio che ubriacarsi. In generale si è sempre ricompensati se si è buoni e puniti se si è cattivi.» È una morale che Bernard Guyon ha definito «esigente, severa, pessimista, appena un poco intenerita da qualche virtù cristiana». Infatti Péguy ha ricevuto il battesimo nella chiesa di Sant’Aniano. Né la madre né la nonna brillavano però per fervore religioso; le preghiere del mattino e della sera, la messa la domenica, se non c’è lavoro urgente, e nient’altro. Anche il cristianesimo era più che altro una morale.
PRIMO GIORNO DI SCUOLA
«È stata mia madre a insegnarmi a leggere. Io ero fiero e felice, felice di imparare, felice di sapere. Sapevo calcolare meravigliosamente il prezzo di ogni merce»; tanto meravigliosamente che il piccolo Charles è diventato una leggenda del sobborgo Borgogna: tutti si rivolgono a lui per fare velocemente i conti. Ma nessuno, nemmeno la madre, riesce a insegnargli a scrivere; Péguy è maldestro, non sa impugnare correttamente la penna e finisce sempre per sporcare d’inchiostro tutto il foglio o addirittura a bucarlo. Cécile vorrebbe tenere a casa il figlio e provvedere direttamente alla sua istruzione, ma poi si rassegna all’evidenza che per insegnargli a scrivere occorrono capacità che lei non ha, quelle di un vero maestro; Charles deve andare a scuola.
Nel sobborgo c’è l’École normale d’instituteurs du Loiret, in pratica una scuola per la preparazione di futuri maestri. I suoi dirigenti avevano installato in un’ala del palazzo una scuola elementare cosiddetta «annessa»; coloro che studiavano per diventare maestri avevano così a disposizione degli scolari con cui fare il tirocinio. Un giorno di fine estate del 1879 la madre di Péguy lo conduce dal signor Fautras, il direttore della scuola elementare, per iscriverlo. Pierre racconta distesamente il primo giorno di scuola; e in effetti per il figlio dell’impagliatrice di sedie comincia un tipo di vita completamente nuova, dagli orizzonti ben più vasti della piccola casa dove sentiva i racconti della nonna, aiutava la mamma e giocava. I ricordi sono nitidi, tutto incanta il piccolo scolaro.
IMPARARE A SCRIVERE
Com’era prevedibile, la maggior difficoltà di Charles a scuola è quella di imparare a scrivere. Gli alunni non hanno a disposizione della carta, ma piccole lavagnette di ardesia su cui si esercitano col gesso a fare aste e lettere; e tutte le volte che il maestro passa a controllare ha da ridire sul modo di scrivere di Péguy. «Mi rifaceva le mie aste, o meglio me le faceva fare guidandomi la mano. Io ero dolorosamente ferito che mi tenessero la mano quando scrivevo: ero dolorosamente infelice quando, sulla mia lavagna nera, le correzioni del maestro sottolineavano, aggravavano, complicavano l’imbratto bianco e polveroso dei miei scarabocchi. Allora presi una decisione suprema: decisi un giorno di fare così bene la mia pagina di scrittura che il maestro non vi trovasse niente a ridire e non facesse alcuna correzione sulla mia pagina pulita; mi applicai con tutte le mie forze, con tutto il mio sapere, con tutto il mio respiro, con la lingua secca, gli occhi fissi; quando ebbi finito vidi che c’ero riuscito; attesi ansioso che mi rendesse giustizia. Come tutti i giorni il maestro passò, come tutti i giorni il maestro senza nulla rilevare, senza pensare male, mi corresse le mie aste; quando vidi la mia pagina snaturata, bruscamente il dolore mi soffocò; piansi, in piena classe, tutte le mie lacrime.» Roba da bambini, verrebbe da dire; eppure suona quasi come una profezia: tutta la vita di Péguy sarà caratterizzata dalla determinazione nel lavoro e dalla frustrazione per il fallimento, da cui deriva una sofferenza acuta, resa più dolorosa dall’incomprensione altrui.
LA GIORNATA DELLO SCOLARO
Péguy è uno scolaro disciplinato, che accetta volentieri le regole imposte dal «lavoro» di studente: «Mi alzavo alle 6 in punto. Mi mettevo all’opera e lavoravo assiduamente, seriamente, preziosamente, così bene nel mio genere di lavoro come mamma nel suo. Studiavo finché la lezione non fosse saputa a memoria senza alcun errore, senza una esitazione, senza una riflessione, come la mia preghiera; mia mamma mi incoraggiava, mi aiutava e mi conduceva; amerò per tutta la vita la memoria del caro lavoro che facevo nella buona casa caldamente operosa, del buon lavoro che ricominciavo tutte le mattine. Arrivavo a scuola alle otto in punto, per l’inizio delle lezioni. Alle 11, come gli operai della fonderia, andavamo a mangiare la minestra. Le lezioni del pomeriggio duravano tre ore, dall’una alle quattro. Dopo cena volevo lavorare ancora, ma subito il sonno pesante mi vinceva; ma prima di addormentarmi, per una certa compensazione alla mia coscienza inquieta, ricordavo con un ultimo sforzo i lavori della giornata e quelli dell’indomani». Ai tempi della scrittura di Pierre Péguy ritiene che questa rigida volontà sia una gran bella cosa; solo più tardi scoprirà che, invece, la piccola Speranza non si addormenta facendo calcoli e propositi, si abbandona semplicemente all’energia rigeneratrice del sonno.
CATECHISMO
Il giovedì è festa, è il giorno in cui «gli scolari riposano in mezzo al lavoro universale». E il giovedì c’è il catechismo. Si svolge nelle aule adiacenti alla cattedrale di sant’Aniano e Péguy lo frequenta con la stessa determinazione a imparare con cui va a scuola, conciliando senza problemi l’insegnamento dei preti con quello laico e più o meno velatamente anticlericale dei maestri. È un catechismo del tutto tradizionale, fatto di poche definizioni da mandare a memoria, di precetti e di preghiere da recitare con scrupolo. Il bambino assorbe gli insegnamenti cattolici con la serietà di chi dà a loro il credito innocente dell’infanzia. Un credito che coverà sotto la cenere di un convinto ateismo e che una grazia straordinaria rinvigorirà quando sarà adulto. La parrocchia di sant’Aniano non brilla per profondità religiosa; ciò che fiorirà in Péguy viene dal di sotto di questa tiepidezza, viene da una lunga tradizione. Per questo Péguy sarà sincero quando dirà d’aver ricevuto in parrocchia tutto quello che serve per essere cristiano: il catechismo, la liturgia, le immagini sacre, le storie del vangelo e della bibbia e, soprattutto, le preghiere della tradizione, il Magnificat, lo Stabat Mater, la Salve Regina, il Pater e l’Ave Maria; scandalizzando gli intellettuali, Péguy affermerà che queste semplici preghiere del popolo valgono di più di tutta la teologia di sant’Agostino o di san Tommaso d’Aquino messe assieme.
Charles ha voglia di crescere: «La mia passione era di misurare quanto diventavo grande, perché volevo diventare un uomo molto grande. Mi misuravo contro lo stipite della porta oppure paragonandomi ai mobili. Questa misurazione aveva l’impagabile vantaggio di tenermi incessantemente al corrente dei miei progressi e così di rassicurare ogni tanto la mia coscienza inquieta. Quando sono diventato più alto del camino ho smesso di misurarmi coi mobili». Crescendo, il bambino arriva al luglio 1884, alla fine delle elementari. Gli accaniti sforzi nello studio non sono stati vani: Péguy è il primo in graduatoria su 175 scolari. E qui finiscono i ricordi di Pierre.
«Péguy deve studiare il latino»
Attorno al piccolo mondo del diligente scolaro avvengono cambiamenti importanti. Anzi, in scritti della maturità Péguy collocherà proprio agli inizi degli anni Ottanta l’accadere di una svolta epocale per il popolo francese: il ministro Jules Ferry riforma a fondo l’educazione pubblica, rendendo gratuita la scuola elementare. Cambia la vita di milioni di persone, l’istruzione diventa un fenomeno di massa, le tradizionali strutture educative religiose si trovano in grave difficoltà. Finisce un certo tipo di mondo, finisce un certo tipo di popolo. È un fenomeno analogo a quello che Pasolini ha indicato con la fortunata formula della «scomparsa delle lucciole»; anche per lui la scolarizzazione di massa ha prodotto nel popolo italiano una «mutazione antropologica» di vaste proporzioni, un cambiamento improvviso di punti di riferimento, la fine di valori che sembravano eterni, l’apparire di problematiche prima inedite.
Visti gli ottimi risultati scolastici fin lì ottenuti, la madre di Péguy vuole farlo continuare negli studi e lo stesso direttore della École normale d’instituteurs, Théophile Naudy, si impegna a procurare una borsa di studio per iscriverlo alla scuola professionale. Il progetto è lineare: frequentare questo istituto per tre anni e poi fare il concorso per essere ammesso alla Normale e diventare maestro. Per Cécile è il massimo di ogni aspirazione, è il definitivo riscatto sociale. Un figlio maestro: ogni sua ambizione sarebbe appagata. Ma Naudy, in realtà, ha in mente altro; stima molto le potenzialità del ragazzo e si è messo in testa che «Péguy deve studiare il latino». Così trova una borsa da semi pensionato per farlo entrare al liceo. È la svolta radicale. Anzitutto perché segna un primo vero distacco da casa: essere semi pensionato significa partire presto la mattina (la borsa prevede il diritto alla colazione oltre che al pranzo e ciò significa un bel risparmio per la cassa familiare) e tornare alla sera per cena. «Fare il latino» significa poi varcare la soglia della cultura «vera», quella «superiore» che mai il figlio di una impagliatrice di sedie avrebbe potuto immaginare. Il liceo implica infine aprirsi alla carriera universitaria e diventare un professore. Non è quello che Cécile aveva previsto; accetta, ma a malincuore e contrariata.
Péguy arriva al liceo solo dopo le vacanze di Pasqua del 1885. I nuovi compagni studiano il famoso latino da sei mesi, ma non gli è difficile raggiungerli e superarli, tanto che alla fine dell’anno riceve una menzione d’onore proprio in questa materia (oltre che in scienze fisiche, tedesco, recitazione e disegno). Non è il caso di citare per ogni anno tutti i premi che Péguy ha ricevuto nella sua carriera di liceale; è quasi una leggenda. Oggi può sorprenderci un sistema scolastico che punta molto sulle graduatorie e quindi sulla competizione; è chiaro che un adolescente sente molto e finisce per interiorizzare questo tipo di impostazione competitiva. Nelle lettere di quel periodo l’elenco dei successi scolastici ha per Péguy un posto davvero rilevante. Non va dimenticato che la gran parte dei suoi compagni di liceo sono di estrazione borghese e il fatto che venissero superati in graduatoria da un popolano ha una indubbia connotazione sociale, per non dire di classe.
Tre autori decisivi
Al liceo Péguy compie letture che rimarranno fondamentali per il suo pensiero, che saranno un costante termine di paragone e sulle quali scriverà centinaia di pagine di commento. «Questo scavo d’un personaggio, d’un testo, d’un fatto, immediatamente percepiti come pieni e ininterrottamente interrogati nel corso degli anni, è il movimento stesso della ricerca di Péguy, della sua vita interiore, il segreto del suo stile» (Françoise Gerbod).
La prima lettura fondamentale del liceo di Péguy è la tragedia greca, in particolare Sofocle e, ancora più in particolare, Antigone e Edipo re. Poi il Poliuto del grande tragediografo seicentesco Pierre Corneille. Infine la poesia di Victor Hugo. La tragedia greca è abbastanza nota e non c’è bisogno di spiegarla, mentre occorre forse dire qualcosa delle altre opere.
Pierre Corneille (1606-1684) è famoso soprattutto per quattro tragedie; secondo una immagine di Péguy Cid, Orazio e Cinna formano il basamento dell’eroismo, sul quale si eleva la guglia della santità, rappresentata da Poliuto, il testo più amato e infinite volte commentato. Poliuto vive a Metilene, in Armenia, al tempo della persecuzione contro i cristiani scatenata dall’imperatore Decio; si è convertito al cristianesimo e si prepara a ricevere il battesimo. La moglie Paolina, che non è cristiana, lo implora di aspettare: ha sognato che il cavaliere romano Severo, cui era stata promessa sposa e che si credeva morto, pugnalava il marito. Poliuto non arretra e proprio allora arriva trionfante Severo, il quale nobilmente accetta che la donna un tempo amata sia ora di un altro. Paolina tenta di convincere il marito a rinnegare la fede, ma questi le risponde invitando anche lei a convertirsi e l’affida a Severo. Poliuto viene martirizzato e allora la moglie si converte; lo stesso Severo, colpito dalla testimonianza del martire, decide di promuovere una politica di tolleranza verso il cristianesimo.
Victor Hugo (1802-1885) è uno dei colossi della letteratura francese, romanziere, poeta, uomo di teatro dalla produzione precocissima e sterminata. Ha attraversato da indiscusso protagonista la storia del suo Paese: dalla restaurazione postnapoleonica alla rivoluzione del 1830, da quella del Quarantotto, alla salita al potere di Napoleone III. L’opposizione al «piccolo Napoleone», come lo chiama Hugo, gli costò l’esilio; sono gli anni in cui compone l’opera più cara a Péguy: Castighi. La caduta di Napoleone III sconfitto dai prussiani riaprì a Hugo le porte della sua patria, che lo accolse trionfalmente, come il vate della nuova Francia repubblicana.
A dire il vero i Castighi – grido dell’oppresso contro la violenza del potere – il giovane Péguy non li legge a scuola, glieli presta Louis Boitier, il fabbro che ha l’officina di fronte a casa sua. È un autodidatta dallo spirito veementemente repubblicano, con spiccate venature di anticlericalismo; ha addirittura messo in piedi un’associazione culturale – ovviamente «laica» – per chi non aveva potuto frequentare la scuola, con annessa piccola biblioteca. Le riunioni dei membri della «Societé républicaine d’istruction laïque» si tengono la domenica pomeriggio e Péguy le frequenta con interesse. Anche questo è un mondo nuovo che si apre, il mondo della passione politica, dell’impegno per il rinnovamento sociale, il mondo della venerazione per la Repubblica. I discorsi di Boitier e compagni producono una falla nella sottomissione allo status quo, colonna della morale imparata da Péguy a casa, e gli instillano una robusta vena di anticlericalismo. Il futuro amico Joseph Lotte ha scritto di sé una frase che potrebbe benissimo descrivere i sentimenti con cui Péguy partecipa alle riunioni «repubblicane» con Boitier...