La cura letale
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La cura letale

Chi sta facendo fallire l'Italia e come l'Europa sta peggiorando le cose. Un economista non allineato spega perché di austerità si muore e come invece è ancora possibile salvare il Paese.

  1. 167 pagine
  2. Italian
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Chi sta facendo fallire l'Italia e come l'Europa sta peggiorando le cose. Un economista non allineato spega perché di austerità si muore e come invece è ancora possibile salvare il Paese.

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L'economia italiana rischia il collasso e attingere a piene mani dalle tasche dei cittadini non è certo la soluzione per uscire dalla crisi. L'ennesima stagione del "rigore", inaugurata dal governo Monti sotto la pressione di un'Europa dietro la quale vi sono le ansie e le reticenze della Germania, non è altro che una formula rimasticata, che già in passato si è rivelata inefficace. Oggi può diventare una ricetta sicura per il disastro. Quello di cui l'Italia ha disperatamente bisogno sono imprese libere dalla rete della burocrazia e della corruzione; un sistema di tassazione che premi chi produce e non chi gestisce una rendita; una visione politica coraggiosa, che non si accontenti di traghettarci verso la successiva tornata elettorale, ma sappia mettere in campo riforme autentiche, in grado di affrancare il nostro sistema produttivo dai parassitismi che lo infestano. Mario Seminerio, analista e consulente finanziario, ci svela i retroscena e i meccanismi reali dell'economia. E avverte: il tempo per salvare il Paese sta per scadere.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858638491

Premessa

Nel maggio 2011, a proposito dell’incapacità dell’Italia di intervenire sul bilancio pubblico per stimolare la crescita e scongiurare le recessioni, la Corte dei Conti si esprimeva in questi termini: «Gli elevati valori di saldo primario andrebbero conservati nel lungo periodo, rendendo permanente l’aggiustamento sui livelli della spesa, oltre che impraticabile qualsiasi riduzione della pressione fiscale, con la conseguente obbligata rinuncia a esercitare per questa via un’azione di stimolo sull’economia».1
In parole chiare: è stata scelta la medicina sbagliata. La nostra economia non galoppa, anzi, è quasi ferma, ma l’ultima cosa di cui aveva bisogno era una cura da cavallo. In parole ancora più chiare: ci hanno chiesto grossi sacrifici, che potrebbero rivelarsi inutili.
Il saldo primario, cioè la differenza tra entrate e spesa pubblica, esclusa quella per il pagamento degli interessi, è la leva su cui i governi italiani da molti anni si affaccendano nel tentativo di mantenere in equilibrio la montagna di debito pubblico che pende sulle nostre teste. Ma non serve restare fermi in punta di piedi per fingersi più leggeri: bisogna rimettersi in moto. Il problema dei problemi, per il nostro Paese, è l’assenza di crescita, un fenomeno che si protrae all’incirca dalla metà degli anni Novanta, quando iniziò la nostra affannata rincorsa all’Europa.
Assenza di crescita ed enorme stock di debito, quindi: la risultante è una miscela esplosiva che può precipitare un Paese in una crisi di debito sovrano. Questo è accaduto all’Italia. Ma non da oggi.
Il precedente rischio di rottura dei nostri conti pubblici si registrò infatti all’inizio degli anni Novanta, non a caso quando eravamo impegnati a tenere la lira aggrappata allo Sme, il «serpentone economico europeo» precursore della moneta unica.2
Ma procediamo con ordine. Per ora basti dire che le osservazioni della Corte dei Conti, nel maggio del 2011, suonavano già come la campana a morto per ogni politica «keynesiana» di rilancio della nostra economia, per ogni fede aprioristica nell’intervento dello Stato all’interno dei meccanismi dell’economia.
Questa non era esattamente una notizia dopo decenni di sprechi e malversazioni. Lo sarebbe diventata durante la crisi di debito sovrano nella quale ci ritroviamo tuttora impantanati, inaugurando un nuovo capitolo della triste storia del Paese che ha divorato se stesso.

PARTE PRIMA

Cronaca di una tragedia annunciata

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1

L’ottimismo è il profumo del default

Italiani, popolo di ricchi

«I consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, si fatica a prenotare un posto sugli aerei.» Così diceva, non più tardi di un anno fa, in piena crisi e nel mezzo di un angosciante attacco speculativo al nostro debito pubblico, Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio che amava ribadire quanto ricchi fossero i cittadini italiani. Un commento surreale, consegnato alla stampa pochi giorni prima di farsi da parte per spalancare le porte di Palazzo Chigi all’avvento del governo Monti.
Una crisi psicologica. Uno dei temi più cari all’ex premier che ha speso l’intera prima parte della legislatura a ripetere, e ripetersi, che gli italiani la crisi «non la sentono in modo spasmodico come nelle rappresentazioni dei giornali» e che comunque non c’era motivo di preoccuparsi per la «moda passeggera di assaltare i titoli di Stato».1
Nel frattempo il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, il famigerato spread,2 cresceva senza sosta. E con esso l’allarme e i dubbi della comunità internazionale sulla tenuta dei nostri conti pubblici.
L’Italia arrivava all’ennesimo appuntamento con la storia armata della sciatteria e della drammatica insufficienza d’analisi che caratterizza il suo dibattito pubblico e buona parte della sua cosiddetta «classe dirigente».
In un Paese da sempre abituato a fissare lo specchietto retrovisore e a ripetere invariabilmente i propri errori, una parola era tornata a monopolizzare le prime pagine dei giornali e le discussioni politiche: «patrimoniale», il prelievo esercitato sul valore dei beni accumulati da una famiglia o da un’impresa – immobili, depositi bancari, titoli di Stato e altre attività finanziarie – grazie all’investimento dei risparmi sui consumi. Patrimoniale: l’imposta temuta, esorcizzata e invocata; la sciagura terminale del Paese «malato d’Europa» e la panacea di tutti i mali. Patrimoniale: un terribile déjà-vu.
Era l’estate del 1992 quando la lira venne sottoposta a un attacco speculativo da parte dei mercati, che consideravano intollerabile il suo livello di cambio contro il marco tedesco. Un cambio – fissato entro il cosiddetto «serpentone monetario europeo» 3 – divenuto insostenibile a causa di una profonda crisi economica e dello sbandamento provocato dalla stagione di Mani pulite.
Nel tentativo di recuperare la situazione, il governo presieduto da Giuliano Amato fece approvare una manovra di emergenza da 30.000 miliardi di lire.4 Un’azione giudicata insufficiente dai mercati, che continuarono ad accanirsi per tutta l’estate contro la lira, costringendo la Banca d’Italia, all’epoca guidata da Carlo Azeglio Ciampi, a una disperata quanto inutile difesa della nostra moneta. Un arroccamento che esaurì le riserve valutarie del nostro Paese e che alla fine costrinse l’Italia ad abbandonare il Sistema monetario europeo, al costo di una pesante svalutazione della lira.
Nei primi mesi del 2011, prima che Giuliano Amato tornasse a scrivere editoriali in cui sosteneva il remake del suo prelievo notturno sui conti correnti, vi fu una inopinata primogenitura intellettuale all’ipotesi di compensare il debito pubblico dell’Italia e la ricchezza privata degli italiani.
Già l’8 dicembre del 2010, dalle colonne del «Sole 24 Ore», l’economista Marco Fortis aveva gettato le basi per una simile operazione «culturale», tentando di rassicurare circa il fatto che il nostro Paese non avrebbe dovuto temere le nuove tensioni sui debiti sovrani, così drammaticamente sintetizzate nell’impennata verticale dello spread. E questo in virtù della nostra poderosa solidità patrimoniale.
In riferimento alla situazione greca, all’epoca in via di rapido deterioramento, Fortis scriveva: «Se anche volesse, la Grecia oggi non potrebbe nemmeno introdurre un’imposta patrimoniale per risanare i propri conti statali perché il patrimonio dei greci si è semplicemente dissolto e non c’è più nulla da tassare ma solo spesa pubblica da tagliare. L’Italia ha invece il più alto rapporto tra ricchezza finanziaria netta delle famiglie e Pil in Europa, di gran lunga davanti a Francia e Germania. Ma molti (anche in Italia) lo ignorano».
Voce dal sen fuggita? Fortis sembrava suggerire che, se mai fossimo giunti al momento della verità, avremmo comunque evitato la crisi con una bella patrimoniale straordinaria su ricchezza reale e finanziaria degli italiani. In particolare l’editorialista del «Sole» enumerava alcuni indicatori, definiti «oggettivi», per sottolineare le differenze tra l’Italia e la Grecia. Tra questi, l’esigua porzione di debito pubblico italiano detenuta dai non residenti: una tesi che per anni ha rappresentato il cavallo di battaglia dei negazionisti del rischio – il rischio di implosione dell’economia italiana –, secondo la quale vi sarebbero stati relativamente pochi sottoscrittori esteri dei nostri titoli di Stato. Il paragone era con le solite Germania e Francia: solo 837 miliardi di euro in Btp e Cct acquistati dagli stranieri, contro i 978 miliardi della Germania e i 1037 della Francia.
Una convinzione destinata a sgretolarsi nell’ottobre e nel novembre del 2011, nel momento della «grande fuga» degli investitori esteri, quando cioè il crollo delle quotazioni dei nostri titoli di Stato ne avrebbe denunciato la falsità, oltreché l’errore di metodo da cui prendeva le mosse.5
Ma tant’è. L’articolo di Fortis si chiudeva con questa lapidaria, e purtroppo profetica, frase: «L’unico cavaliere bianco che in ultima istanza può venire in soccorso ai governi è il sopracitato stock di ricchezza finanziaria netta delle famiglie».6
Di fatto, con questo modo di argomentare, sia Fortis che Berlusconi – oltre a Giulio Tremonti, che non mancò più volte d’intonare il refrain – assumevano una posizione nettamente patrimonialista. Una linea di pensiero e di azione che considera gli attivi patrimoniali delle famiglie (casa e risparmi) un’implicita garanzia delle passività pubbliche. Alla fine, se le cose vanno storte, si può mettere un’Imu sugli immobili e recuperare le risorse, no? Naturalmente, questo modo di ragionare ha una propria intrinseca fallacia: cosa succede se il contribuente non dispone del denaro liquido per pagare le imposte patrimoniali sulla casa in cui abita e quindi, per definizione, non produce flussi di cassa?
Diverso il caso dei risparmi finanziari: quelli possono sempre essere venduti per fare cassa, ma in questo caso si verifica una sorta di «compensazione» tra l’attivo patrimoniale del contribuente e il suo «passivo», cioè le nuove e più elevate imposte a contenuto patrimoniale che colpiscono il frutto dei suoi risparmi (le case, i titoli e i depositi bancari, appunto).
Un tentativo di rassicurare i creditori esteri, forse, la proposta di Fortis; di fatto un abbaglio clamoroso e un crinale assai pericoloso su cui incamminarsi. Ogni prestatore lungimirante sa infatti che è con la crescita che si ripagano i debiti. Eventuali garanzie patrimoniali possono avere solo un valore collaterale.
Non a caso Mario Draghi, all’epoca governatore della Banca d’Italia, in predicato di ascendere al soglio della Banca centrale europea, non perdeva occasione per ricordare che, oltre al rigore di bilancio, «è fondamentale la crescita: crescendo si ripagano i debiti».7 Sappiamo come è andata. Anche se purtroppo è tutt’altro che finita.

L’Italia prosciugata

La tesi secondo cui il nostro Paese sarebbe dotato di un’imponente ricchezza reale e finanziaria capace di garantire il debito pubblico è uno di quei miti nazional-popolari snocciolati senza sosta e senza cautela da una politica dalla coda di paglia e da organi mediatici molto distratti.
Pensare che un Paese delle dimensioni dell’Italia, incapace di crescere da almeno tre lustri, con uno stock di debito pubblico di quasi duemila miliardi di euro, milleseicento dei quali in titoli negoziabili sui mercati (e la metà dei quali in mano a non residenti), potesse sfuggire alla resa dei conti era pura fantasia. Un miraggio dietro cui si annidava una scarsa comprensione dei mercati finanziari.
Esiste un pericolo che chiunque investa su titoli di debito deve avere ben presente: si chiama rollover risk ed è il rischio di mancato rinnovo delle passività alla loro scadenza, cioè la possibilità che un debito non rimborsato entro i termini inizialmente pattuiti resti in essere e che la sua scadenza venga ulteriormente posticipata, ma a condizioni decisamente più punitive per il contraente.
Un Paese come il nostro, che ogni anno rinnova sui mercati circa un settimo dello stock totale del proprio debito, è una tragedia già scritta che attende soltanto di essere rappresentata. E da noi il triste spettacolo è andato in scena tra l’agosto e il novembre del 2011, quando lo spread tra i titoli di Stato italiani e i titoli tedeschi ha toccato, in un terribile climax, lo stratosferico livello di 552 punti base, innescando la sostituzione del governo di Silvio Berlusconi con una squadra di «tecnici» – altra nemesi ricorrente della storia italiana dell’ultimo ventennio – capitanata dal presidente dell’università Bocconi, il professor Mario Monti. Il quale ha adottato una manovra di emergenza sui conti pubblici fondata non solo e non tanto sull’aumento di entrate rispetto al taglio di spese,8 ma soprattutto di entrate di tipo patrimoniale, come la tassa sugli immobili (Imu) e il prelievo sui dossier titoli, i depositi bancari e i depositi postali. Ne parleremo; per il momento torniamo alla cronaca di una tragedia annunciata.
Il primo colpo apoplettico del nostro Paese in termini di spread si ebbe ad agosto e costrinse il governo Berlusconi a una prima manovra correttiva sotto la forte pressione dell’Unione Europea e della Bce, la quale inviò a Palazzo Chigi una lettera che di misterioso aveva assai poco, ma di cui, curiosamente o sintomaticamente, nel nostro Paese ancora si discute. La manovra, fondata in prevalenza su tagli lineari dei trasferimenti di risorse agli enti locali, fallì perché eravamo entrati nella fase, già vissuta da Grecia, Irlanda e Portogallo, in cui i mercati hanno ormai votato la sfiducia al Paese e gli interventi «ordinari» non servono più.
Ma come si vota, sul mercato, la sfiducia a un Paese? Col portafoglio. Gli investitori esteri vendono i titoli dello Stato che non fornisce più sufficienti garanzie di solidità e solvibilità, e la liquidità, cioè il fisiologico equilibrio tra compratori e venditori, evapora: i primi scompaiono, i secondi proliferano. Per questo motivo la Bce, nella fase di transizione tra Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, decise di supplire al mercato mettendosi a comprare titoli di Stato italiani. Ma lo fece timidamente e senza la forza bruta che sarebbe servita a sostituire i venditori e a convincere i mercati a non scommettere contro l’Italia. Il motivo del «braccino corto» lo conosciamo: la forte resistenza della Germania, preoccupata che la Bce potesse finire col monetizzare, vale a dire stampare moneta dal nulla per comprare il debito pubblico di un Paese dell’Eurozona e violare così i trattati comunitari che impediscono alla Bce il finanziamento del deficit dei Paesi membri dell’Eurozona.9
Con questi vincoli la Bce finiva col compricchiare senza convinzione né costrutto, restando bloccata a metà del guado, non riuscendo a impedire il dilagare dello spread e assestando al nostro Paese un’ulteriore spintarella verso il baratro. Nel frattempo in giro per il mondo s’insinuava il timore che i giorni dell’euro fossero contati e le grandi banche americane iniziavano a vendere non solo i nostri titoli, ma anche quelli della Francia, altro pachiderma zoppo dell’Eurozona.
In realtà l’operazione di voto col portafoglio era in corso da mesi, come testimonia la relazione di bilancio del primo semestre di Deutsche Bank, resa nota a fine luglio: il colosso bancario tedesco aveva infatti già tagliato l’esposizione all’Italia e ai suoi titoli per ben l’88 per cento,10 sia attraverso vendite dirette sui mercati sia ricorrendo alla copertura dei credit default swaps, i tristemente noti derivati di credito che permettono di assicurarsi – e di guadagnare – dal rischio d’insolvenza di un debitore.11
Per una singolare coincidenza, il 3 novembre 2011, fu ancora Deutsche Bank a lanciare un nuovo allarme sul nostro Paese attraverso una ricerca firmata dal suo strategist, Jim Reid. Nella nota si ipotizzava che, a quella data, la Banca centrale europea fosse rimasta l’unico compratore di titoli di Stato italiani realmente attivo sul mercato. Circostanza che non avrebbe dovuto stupire, dato che l’evaporazione di liquidità e compratori è una delle stazioni della via crucis che un Paese in crisi di debito sovrano è costretto a percorrere.
Per rincarare la dose, anche le altre banche d’investimento globali, in quei giorni, lanciavano ripetuti warnings circa il risch...

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  2. Frontespizio
  3. La cura letale