Pessime scuse per un massacro
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Pessime scuse per un massacro

  1. 375 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Pessime scuse per un massacro

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Informazioni sul libro

Un senatore della Repubblica, eroe della Resistenza, viene macellato nella propria auto a colpi di mitragliatrice in una zona collinare attorno a Fontainebleau, nell'Île de France. I vetri che esplodono, la carrozzeria fatta a pezzi, il sangue che si spande sul terreno mischiandosi alla polvere. E una statuina di Babar, l'elefantino dei cartoni animati, abbandonata dal killer sul luogo del delitto. Un caso tanto efferato quanto spinoso, soprattutto perché il passato della vittima non è limpido come ci si sarebbe aspettati. È l'indagine perfetta per il commissario Jean-Pierre Mordenti, che non ha paura di ficcare il naso dove non si deve: insieme alla sua squadra di audaci poliziotti, soprannominati dai colleghi Les italiens, è pronto a inseguire la preda senza lasciarle un attimo di respiro.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858641446
Pessime scuse per un massacro
Per Mariolina e Sergey
che con amore e pazienza
hanno permesso che tutto questo
potesse accadere

I

Il colpo secco del fucile di un cacciatore ha frantumato il silenzio rimbalzando lontano con un’eco frammentata. Un piccolo stormo di colombacci si è alzato in volo battendo freneticamente le ali ed è scomparso sopra le cime degli alberi. Un cane ha abbaiato. La nota triste nel guaito pareva volesse urlare al mondo la sua noia di stare alla catena.
Con mossa studiata ha infilato i guanti di cotone bianco calzandoli per bene sulle dita. Erano fastidiosi ma non ne aveva altri. E non li poteva togliere.
Sedendo all’ombra fresca delle piante riusciva a scorgere la stradina sterrata che filava giù in basso, ai piedi della collinetta sulla quale stava in attesa. Il vecchio muro della tenuta correva lungo il viottolo separato dalla strada da un largo fosso ricoperto d’erba incolta. L’alto cancello di ferro battuto era chiuso. Tutt’intorno, grandi querce interrotte qua e là dal candore satinato della corteccia di qualche betulla.
Il sole era caldo quella mattina di fine giugno e la sua luce quasi accecante faceva riverberare le superfici più chiare. Sbuffando ha pensato alla temperatura, che già in luglio sarebbe stata intollerabile.
Al di là del muro di cinta si sono sentite alcune voci e una risata di donna. I tetti scuri di un’antica gentilhommière sporgevano appena al di sopra delle chiome degli alberi. Più in fondo, attraverso la vegetazione si intravedevano stalle e fienili.
Ha cambiato posizione. Sedeva sulla terra, le gambe incrociate e il dorso curvo. Stiracchiandosi ha massaggiato la schiena con entrambe le mani, cercando una posizione più comoda. Ha chinato il capo per guardare il cancello della tenuta attraverso il mirino ad alzo regolabile della mitragliatrice Browning calibro .50 che aveva davanti, montata sul treppiede. Quando il suo sguardo si è spostato sul nastro di proiettili inserito nella culatta dell’arma, il metallo ha emanato un bagliore freddo. Solo ottanta colpi, tutto ciò che rimaneva. Gli altri li aveva sparati giù alla cava per registrare le tacche di mira.
Sollevando una mano ne ha osservato il tremito mentre il cuore batteva nel petto appena più veloce del solito. Ha fatto un respiro profondo e chiuso gli occhi cercando di non pensare a nulla per qualche secondo. I suoni delicati della campagna sono sfumati nel silenzio. Il suo cuore ha rallentato e il respiro è tornato regolare. Gli uccelli hanno ripreso a cantare.
Il rumore distante di un’auto che percorreva la strada sterrata è andato aumentando d’intensità alle sue spalle.
Stava arrivando.
La sua schiena si è raddrizzata di scatto. Con la destra ha afferrato la leva dell’otturatore, l’ha tirata indietro di una quindicina di centimetri e l’ha lasciata andare. Un colpo secco e la culatta è tornata al suo posto infilando la prima pallottola in canna. Ha controllato che il breve nastro non fosse impigliato nella zampa del treppiede. Ogni tre proiettili uno aveva la punta rossa. Traccianti. Immagini dimenticate hanno attraversato la sua mente come una nube di tempesta.
Con gesti quasi rituali ha fatto basculare la mitragliatrice, prima a destra, poi a sinistra, in alto e in basso. Poi l’ha puntata sul piazzale.
Una canzone ha impregnato la sua mente arrivando da lontano.
Dance me to your beauty with a burning violin…
L’auto, una C6 grigio scuro metallizzato proveniente dall’Autoroute du Soleil, è sbucata dalla vegetazione dondolando sulle sospensioni. Nonostante la bassa velocità sollevava un polverone denso e giallastro che saliva verso il cielo stemperandosi impalpabile nell’aria calda della mattina. Ha percorso il viottolo e dopo aver costeggiato il muro di cinta, si è fermata nello spiazzo davanti al cancello.
La canzone è diventata più forte mentre le sue mani si stringevano attorno alle impugnature di legno della mitragliatrice, le nocche tese e i pollici poggiati sul grilletto a farfalla.
Dance me through the panic ’til I’m gathered safely in
Lift me like an olive branch and be my homeward dove…
La nuvola di polvere si è allontanata indolente. La serratura dal lato del guidatore ha emesso uno scatto e la portiera si è aperta.
La prima raffica è stata una serie rapidissima di detonazioni. Il terreno si è come sollevato attorno all’automobile mentre i vetri dei finestrini esplodevano e larghi buchi si formavano sul tetto e lungo la carrozzeria.
La seconda raffica ha fatto scoppiare i due pneumatici posteriori e demolito l’interno della vettura. I proiettili hanno sfondato i rivestimenti dei sedili, fatto a pezzi le modanature di plastica e maciullato corpi e lamiere. Il baule si è spalancato sotto i colpi.
Let me see your beauty when the witnesses are gone
Let me feel you moving like they do in Babylon
Show me slowly what I only know the limits of…
La mitragliatrice strappava verso sinistra. Ha ripreso la mira e sparato una terza raffica. I traccianti lasciavano una sottile scia di fumo candido che svaniva subito nell’aria.
Frammenti di vettura schizzavano da tutte le parti mentre le pallottole attraversavano il metallo come fosse burro. Un getto di vapore bianco è fuoriuscito dal cofano sventrato.
Quando i suoi pollici si sono sollevati dal grilletto è tornato il silenzio. Solo la musica che gli rimbombava nel cervello.
Dance me to the wedding now, dance me on and on
Dance me very tenderly and dance me very long
We’re both of us beneath our love, we’re both of us above…
Grida allarmate che provenivano dalla casa, porte sbattute, gente che correva spaventata. Per qualche decina di secondi attorno alla vettura non si è mosso nulla. Polvere e terriccio si sono dispersi con lentezza. Una larga pozza scura si stava spandendo sul terreno. Carburante o acqua. E tanto sangue.
La canna della Browning fumava, poteva sentirne sul volto l’onda di calore. Stava per alzarsi, per andarsene via da quel posto, quando la porta anteriore dal lato del passeggero si è dischiusa. Ha esitato, poi si è aperta completamente. Una giovane donna bionda è uscita vacillando. Indossava un tailleur leggero color zafferano. Il fianco destro era zuppo di sangue che scendeva in rivoli scuri lungo la gamba nuda. Dandogli le spalle ha fatto un paio di passi malfermi verso il cancello.
Nel nastro c’erano ancora cinque proiettili. Ha preso con calma la mira, poi le sue dita hanno premuto il grilletto.
Cinque detonazioni veloci. La bionda s’è fermata in una nuvola di vapore rosso che si è formata attorno a lei come un’aura scarlatta nella luce del sole.
Poi è caduta in avanti ed è rotolata nel fosso.
Dance me to the end of love…
Musica e parole sono scomparse così com’erano arrivate. Anche se doveva scappare, prima ha carezzato la vecchia mitragliatrice. Era un peccato doverla lasciare lì, ma il suo lavoro l’aveva fatto e adesso quel catenaccio poteva andarsene in pensione.
Ha tirato fuori dalla tasca una piccola figurina di plastica e l’ha posata sulla scatola dell’otturatore. Raffigurava un elefante in abiti umani, con una piccola corona gialla sulla testa.
Quando il cancello si è aperto e quel tipo si è affacciato guardingo, sulla collinetta non c’era più nessuno. Il nuovo venuto indossava dei calzoni di tela marrone e una camicia azzurra con le maniche arrotolate. Aveva una trentina d’anni e i capelli già completamente bianchi. È rimasto come imbambolato a fissare il macello che si trovava davanti agli occhi.
Dagli sportelli dell’auto uscivano le note leggere di una bossa nova.

II

L’elicottero è scivolato lungo il corso della Senna lasciandosi la città di Melun a qualche chilometro sulla destra. È sceso di un centinaio di metri senza il minimo scossone e ha modificato appena la rotta puntando verso sud-ovest.
Mi sentivo a disagio come tutte le volte che dovevo salire su uno di quei cosi che volano senza avere un paio d’ali. Era evidente che quel frullino stava in aria solo per grazia di dio; se il ventilatore che girava sul tetto si fosse fermato, di me non avrebbero trovato altro che l’oro dei denti.
Il mio stomaco ha borbottato, poi mi ha dato una fitta. Il panino di crauti e salsiccia che avevo messo in pancia alle undici mi ha telefonato per l’ennesima volta.
Ho cambiato posizione cercando di mettermi comodo. Il tenente Delphine Roussel mi stava guardando sprofondata nel sedile di fronte al mio. I corti capelli neri sembravano un quadro di Hartung. Gli occhi erano chiari, due laghi d’alta montagna. Deve aver intuito che non mi sentivo proprio a mio agio perché ha sogghignato.
La squadra che mi portavo a Barbizon era stata messa insieme in fretta e furia da chef Le Normand, il capo della Sotto Direzione delle Brigate Centrali. Ne facevamo parte Alain Servandoni, io e il tenente Roussel della Sotto Divisione Antiterrorismo, che in quel momento mi trovava tanto divertente.
A parte Alain e me, questa volta les italiens erano rimasti a Parigi. C’erano casi da seguire, scartoffie da compilare, così Leila, Michel e Didier e gli altri membri della mia squadra alla Brigata Criminale erano rimasti a fare la guardia al fortino. Ci chiamavano così alla Crim, les italiens, anche se ormai cambiamenti e disavventure avevano portato in gruppo le persone più diverse. Era dai tempi del commissario capo Bruno Pennacino che la storia andava avanti, l’idea di circondarsi di ritals era stata sua. Pareva sicuro che gli italiani fossero più fantasiosi, più capaci. Forse non era vero ma poco importava. Adesso li comandavo io les italiens, gli “italiani del cazzo” come ci chiamavano i detrattori, anche se Leila era còrsa e gli altri d’italiano non avevano che il cognome.
Uno dei piloti ha messo un cd nel lettore montato di straforo sul cruscotto dell’elicottero. Ha premuto un pulsante e Capital G dei Nine Inch Nails si è diffusa a tutto volume attraverso le cuffie. Delphine ha riso mettendosi a battere il tempo. Il pilota si è voltato per strizzarle l’occhio.
L’elicottero è sceso di un altro centinaio di metri mentre sopra di noi il disegno confuso dell’elica cambiava la sua ritmica.
Don’t give a shit about the temperature in Guatemala, urlava la voce strascicata e nasale di Trent Raznor, don’t really see what all the fuss is about. Ain’t gonna worry ’bout no future generation and uh! I’m sure somebody gonna figure it out.
Un bordello della malora. Mi ha fatto venire in mente un manipolo di marines impasticcati che andavano a fare il culo ai Viet Cong sul loro elicottero Huey. Il tum-tum ritmico dei bassi si mescolava a quello più secco e veloce del rotore. Mi sono concentrato sulle carte che avevo in mano. Un’ora e mezza prima, il senatore della Repubblica Pierre-François Vigoureaux era stato fatto a pezzi davanti all’ingresso della sua casa di campagna fuori Macherin. Assieme a lui erano finiti male la sua guardia del corpo e una delle figlie. Per non parlare dell’auto.
Nonostante fosse in pensione da un pezzo, l’ottantasettenne senatore Vigoureaux era ancora una delle personalità politiche più influenti di Francia. Ex ministro dell’Interno sotto Giscard d’Estaing, grazie alle sue relazioni variegate era in grado di spostare ad alto livello decisioni strategiche di enorme importanza. Per questo la dura Roussel era stata mandata assieme a noi, per fare polpette di qualsiasi terrorista avesse osato attentare alle grazie della Quinta Repubblica.
Abbiamo sorvolato un tratto della foresta di Fontainebleau, poi l’Alouette ha piegato ulteriormente verso ovest. In lontananza, tra campi coltivati e boschi cedui, filava dritto come un fuso il nastro grigio della Nazionale 37. Lo abbiamo attraversato perdendo quota. Ho sentito un colpetto sulla spalla. Mi sono voltato verso Alain e c’erano le sue labbra che mi dicevano qualcosa.
Con la musica a tutto volume non riuscivo a sentire. La cadette Roussel ha fatto segno al pilota e lui ha abbassato il volume del suo inno di battaglia.
«Che tipo è questo Lemaître?» ha chiesto Alain.
Jean-luc Lemaître era il comandante della gendarmeria di Saint-Fargeau-Ponthierry a cui facevano capo il comune di Barbizon e zone limitrofe.
«Non lo vedo da più di vent’anni» ho detto. «Eravamo insieme alla Buoncostume, si è arruolato nella gendarmeria un anno prima che noi due ci incontrassimo nella squadra di Godefroy. Per quel che ricordo era un tipo sveglio.»
«Pensi che vorrà collaborare?»
«Lo deve fare. Se fosse dio in persona a mandarci, non avremmo credenziali migliori.»
Servandoni si è aggiustato gli occhiali sul naso con aria scettica. «A questi gendarmi di campagna dà sempre fastidio che gli sbirri di città mettano il naso nei loro affari.»
Si è ravviato i capelli neri e spettinati che cominciavano a ingrigire qui e là. Il vecchio Alain, con quel suo viso segnato e simpatico. I suoi occhi mantenevano una piega appena malinconica che veniva spazzata via ogni volta che sorridendo mostrava quella fessura tra gli incisivi che avrebbe fatto fondere la più algida ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Rizzoli la scala
  3. Frontespizio
  4. Pessime scuse per un massacro. Un romanzo de “Les italiens”