Vasco Rossi
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Vasco Rossi

Una vita spericolata

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Vasco Rossi

Una vita spericolata

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Oggi Vasco Rossi è una leggenda vivente, l'unica rockstar italiana ad aver conquistato una schiera di fedelissimi di tutte le età. Ma cosa c'è alle origini del mito? Ricchissimo di notizie di prima mano, questo libro è la biografia più esauriente sui primi anni di carriera del "Blasco": ne segue passo dopo passo i sogni, i primi successi, ma anche le delusioni e le esibizioni nei locali semivuoti. Le memorabili partecipazioni a Sanremo, i trionfi di Vita spericolata e dell'album "Bollicine", i periodi bui, come quello dell'arresto per detenzione di cocaina, la rinascita come uomo e come artista. Un sensazionale viaggio nella musica di Vasco: il racconto in presa diretta di chi c'era.

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Informazioni

IO E VASCO

Sembra ieri, invece sono passati quasi trent’anni. Il giorno in cui lo incontrai la prima volta lo ricordo bene: era il 9 agosto 1979, un giovedì. Eravamo a Bussoladomani di Viareggio. Io ero un giornalista alle prime armi, lui uno che veniva giù dalla montagna e non se lo filava ancora nessuno. Legammo subito. Forse la scintilla scattò perché ero l’unico, a parte quelli della sua casa discografica, che conosceva le sue canzoni: aveva appena pubblicato il secondo album, «Non siamo mica gli americani», e quel giorno cantò Albachiara in playback.
Evidentemente tra noi c’era del feeling, infatti negli anni a venire ci saremmo frequentati assiduamente: quella frequentazione mi ha permesso di diventare testimone oculare dell’origine di un mito. Vi assicuro che è stata un’esperienza fantastica anche per me: mica tutti possono raccontare di aver assistito alla nascita e alla progressiva affermazione di una rockstar. Oggi può sembrare incredibile, ma in quel periodo a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta eravamo in pochi a credere in Vasco. Chi ha sempre avuto fiducia in se stesso più di tutti era proprio lui, altri forse si sarebbero arresi prima. Infatti i primi tempi sono stati duri, a volte persino demoralizzanti: concerti per qualche decina di persone, dischi venduti pochi, spazi sui giornali niente. Ma la combriccola del Blasco cresceva giorno dopo giorno. Noi lo percepivamo, sapevamo che quel «montanaro» prima o poi ce l’avrebbe fatta, si sarebbe preso le sue rivincite. Nessuno, però, nemmeno lui, poteva immaginare cosa sarebbe realmente successo: gli stadi, le scene isteriche, l’impossibilità di vivere una vita normale per troppo amore dei fan.
Oggi la sua notorietà è persino imbarazzante, e se continua a essere il numero uno assoluto è perché insiste a essere onesto, a provocare, a darsi con tutta la generosità di cui è capace. Ma, come in tutte le storie di successo, la parte più bella da raccontare è sempre la prima, quella dei «tempi eroici» in cui il mito si stava formando. Personalmente quella storia la raccontai tanto tempo fa, in un libro intitolato Vasco Rossi, una vita spericolata, uscito nel marzo del 1985 e mai più pubblicato, nonostante le richieste di fan vecchi e nuovi. Recentemente mi è capitato di rileggerlo: più andavo avanti, più mi convincevo che era giusto rimetterlo in circolazione. Anche perché col passare degli anni questo libro per i fan del Blasco è diventato un oggetto di culto, tanto da essere scambiato su eBay a sessanta, settanta, anche ottanta euro a copia. A un certo punto ho saputo che un ragazzo di Prato, che nei forum si firma Nicola’71, aveva addirittura scansito l’intero libro e lo aveva inserito in un sito di fan, che così potevano «scaricarlo» integralmente.
Personalmente ci ho messo un po’ a rendermene conto. Ma quando vedi che decine di siti Internet e la maggior parte delle biografie su Vasco pescano abbondantemente tra quello che hai scritto, quasi sempre senza neanche uno straccio di citazione, cominci ad aprire gli occhi. E quando i fan ti chiedono sempre più insistentemente di ristampare un libro scritto la bellezza di venticinque anni prima, vuol dire che forse è giunto il momento di farlo. Anche a rischio di rinunciare al fatto che sia diventato un’icona: ammetto che mi ero affezionato all’idea che quel libro fosse introvabile e chi lo possedeva si considerasse quasi un affiliato a una specie di setta, una «combriccola del Blasco» ante litteram.
Credo valga la pena raccontare la storia di questa biografia, che narra molti episodi avvenuti tra il 1979 e il 1984 di cui sono stato testimone oculare. Allora, scrivendola, avevo cercato anche di ricostruire con un lavoro da certosino tutto quello che era successo a Vasco, e intorno a lui, fino al momento del nostro incontro. Per farlo, trascorsi diversi giorni a Zocca – la base era l’hotel Panoramic – e cercai di parlare col maggior numero possibile di amici d’infanzia e collaboratori di Punto Radio (spesso non c’era alcuna distinzione tra gli uni e gli altri: almeno all’inizio, Vasco ha sempre cercato di coinvolgere i suoi compaesani nelle sue avventure).
Mi misi sulle tracce di tutti coloro che avevano avuto un qualsiasi rapporto con lui nel primo periodo della sua carriera: un lavoro durato quasi un anno. Il tutto senza che nessuno mi avesse commissionato niente. Anzi, bisogna sapere che all’epoca le biografie di musicisti avevano tirature molto ridotte, tanto è vero che questa fu rifiutata da un paio di editori importanti. Alla fine mi accordai con SugarCo, editore di dimensioni medio-piccole, che nonostante le promesse e il successo della prima edizione, andata esaurita in poco tempo, non ha mai più ristampato questo libro.
Ma prima che Vasco Rossi, una vita spericolata potesse andare in stampa c’era un altro ostacolo da superare. Infatti nella sostanza il libro è una biografia «non autorizzata», nel senso che io la scrissi senza chiedere alcuna «autorizzazione» preventiva né a Vasco, né alle persone che gli gravitavano attorno. Però eravamo amici, e non volevo che il libro fosse pubblicato a sua insaputa. Così gli chiesi un incontro e ci vedemmo una sera in una trattoria vicino al mitico capannone di Casalecchio. Lui si presentò accompagnato da Guido Elmi. «Vedetevela voi» esordì. Poi, rivolto a me, aggiunse: «Se riesci a convincere lui, per me va bene». Guido era contrarissimo alla pubblicazione del libro. Sosteneva che certi fatti dovevano rimanere «riservati», che nessuno aveva il diritto di intromettersi nella vita privata di Vasco. E poi era ancora aperta la questione del processo per possesso di droga, quindi il rischio sarebbe stato concreto anche sotto l’aspetto penale. Ma io ero convintissimo che il capitolo intitolato L’incantesimo si rompe sarebbe tornato utile ai suoi legali per spiegare in sede processuale che l’accusa più pesante («spaccio di droga») era ridicola. «Fai leggere questo capitolo ai tuoi avvocati» gli dissi. «Se ritengono di dover fare qualche modifica, non c’è alcun problema.» Probabilmente fu questo a convincerlo a darmi l’Ok. Pochi giorni dopo mi restituirono il manoscritto contenente il capitolo sulla droga con gli appunti fatti dai suoi legali: non chiedevano nessuna modifica sostanziale. Anzi, un paio di passaggi erano evidenziati da diversi punti esclamativi con un’annotazione: «Questo tornerà utile in sede processuale!». Mi dispiace che in uno dei vari traslochi che ho fatto da allora quel manoscritto sia andato perso, perché oggi come documento avrebbe un valore eccezionale.
Tornando a quell’incontro, ricordo che era una brutta serata d’inverno e che Bologna era totalmente immersa nella nebbia. Ci salutammo, dandoci appuntamento per il giorno dopo a Zocca dove era in programma una cerimonia in cui il sindaco gli avrebbe conferito un riconoscimento ufficiale, qualcosa di simile alla consegna delle «chiavi della città». Per nessuna ragione al mondo mi sarei perso quella cerimonia, così chiamai un’amica di Faenza per dirle che quella notte sarei andato a dormire da lei. Ma arrivato allo svincolo della tangenziale che immette sulla A14, forse a causa della nebbia, oppure di una guida troppo disinvolta dovuta alla felicità di aver trovato un accordo con Vasco, la mia Renault 12 azzurro metallizzato sbandò e mi ritrovai con l’auto rovesciata su un fianco. Io non mi feci nulla, ma i danni erano ingenti. Comunque non chiamai neppure il soccorso stradale: riuscii a rimettere l’auto in senso di marcia e continuai il viaggio verso Faenza. Il giorno dopo, con la carrozzeria tutta ammaccata e la ruota sinistra anteriore scentrata andai a Zocca.
Quando uscì il libro, la prima reazione di Vasco fu demoralizzante: a chi gli domandava cosa ne pensasse, rispondeva che lo trovava cupo, che non ci si rispecchiava, che c’erano molti episodi che non avrebbe voluto rendere pubblici. Mi sembravano le stesse argomentazioni usate da Elmi la sera di Casalecchio. Invece i fan lo accolsero subito benissimo e molti giornali gli dedicarono grandi spazi: Vasco cominciava a essere un mito, uno capace di spaccare in due l’Italia. C’era chi lo amava alla follia e chi lo odiava con tutte le sue forze. L’unica cosa certa era che nessuno poteva rimanere indifferente davanti al suo carisma.
In ogni caso per un certo periodo i nostri rapporti si raffreddarono. Ma col passare degli anni so che ha cambiato idea, tanto è vero che quando, la scorsa primavera, uscì un ampio estratto del libro allegato al mensile «Max», prima mi mandò a dire attraverso Tania Sachs che a rileggerlo si stava divertendo come un matto. «Dice» mi riferì Tania «che sta godendo come quando lesse Su e giù con i Rolling Stones». Poi me lo confermò personalmente, durante l’after show del primo dei due concerti che ha fatto quest’anno a San Siro. Mi venne incontro abbracciandomi e dicendo testualmente: «A rileggere il tuo libro ho rivissuto l’alba… Adesso chi se ne frega se arriverà il tramonto».
A chi mi domanda perché non ho mai voluto andare avanti con la storia, «coprendo» il periodo che va dal 1985 a oggi, rispondo che non lo farò mai per il semplice fatto che da quel momento in avanti di Vasco si sa tutto, forse anche troppo. Dopo il periodo del «grande freddo» seguito alla pubblicazione originaria del libro, i nostri rapporti sono ridiventati ottimi. Certo, non ci siamo più frequentati con la stessa intensità dei primi anni, però ci siamo visti in decine di occasioni, «ufficiali» e non, in Italia e all’estero.
Dal 1985 a oggi Vasco non ha mai smesso di crescere, diventando grande, sempre più grande. Uno che adesso è conosciuto da tutti e amato da molti. Uno capace di riempire spazi immensi e per questo corteggiato da stilisti, politici, pubblicitari, cattedratici. Tutta gente che in quel periodo non c’era. Anzi, per dire le cose come stanno, allora eravamo davvero pochi a credere in lui, ad aver intuito che dietro quell’«ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumé dello zombie, dell’alcolizzato, del drogato “fatto”» (per usare le parole di «quel tale che scrive sul giornale», ovvero Nantas Salvalaggio) c’era un grande artista, magari ancora un po’ acerbo, ma assolutamente unico.
Credo che queste pagine siano la migliore testimonianza della coerenza artistica e umana di Vasco Rossi. Certo, sono passati parecchi anni e sono successe un mucchio di cose: ha tre figli grandi, vive con una donna da vent’anni, mangia regolarmente e a una certa ora va a dormire. Ma le idee, i propositi e la rabbia sono gli stessi. Dirò di più: in questo libro scritto un quarto di secolo fa ho ritrovato alcuni pensieri che Vasco continua a esprimere, magari in forma più compiuta, ma il concetto di base è identico. Sbobinando l’ultima intervista che gli ho fatto, pochi mesi fa a Los Angeles, continuavo a sorprendermi su quante similitudini ci fossero tra il Vasco di ieri e quello di oggi.
Adesso, semmai, ha capito meglio qual è la differenza tra la vita quotidiana e il palco, tra i sogni e la realtà. Anche se lui ai sogni non rinuncia. L’incipit di una delle sue nuove canzoni è una sintesi perfetta dell’odierno «Vasco-pensiero»: «E adesso che sono arrivato fin qui grazie ai miei sogni che cosa me ne faccio della realtà / Adesso che non ho più le mie illusioni che cosa me ne frega della verità».
C’è un sacco di gente che mi chiede qual è il «segreto» del suo successo. Non so spiegarlo. O meglio, potremmo parlarne per ore e ore, ma alla fine tutto si ridurrebbe a poche parole-chiave: sincerità, onestà, semplicità, complicità col pubblico, stomaco-cuore-cervello. Edmondo Berselli ha ragione quando, sulla «Repubblica», scrive che gli slogan che usa («vado al massimo», «voglio una vita come Steve McQueen», «coca-cola sì, coca casa e chiesa») sono degli «autobiografismi maudit e mimesi degli spot pubblicitari, come uno che sostiene di essersi laureato all’università della vita e invece ha preso il primo master con Carosello». E aggiunge che «il signor Rossi, 56 anni portati in modo disattento, incurante delle diete e del salutismo, scrive ancora come scrivono i ragazzi nei diari, con un diluvio di puntini di sospensione e di maiuscole, con i neretti e i corsivi, e magari con i punti esclamativi e gli struggenti cuoricini e fiorellini sulle “i”». Ma neanche questo basta a spiegare un successo così ampio e duraturo, che ormai coinvolge almeno tre generazioni.
Forse l’unica spiegazione convincente è che in fondo tutto era già scritto nel nome: Vasco Rossi. Vasco come De Gama, il grande navigatore, l’esploratore di nuovi mondi, ovvero l’avventura, l’imprevisto. E Rossi come un qualsiasi impiegato di banca o del catasto, ovvero la quotidianità, la normalità e la noia che ne deriva. Questa teoria circola dall’inizio degli anni Ottanta. Molti se ne sono attribuiti la paternità. Non saprei dire chi è stato il primo a elaborarla, ma aveva ragione da vendere.

1.

ZOCCA, 4500 ABITANTI...

Zocca è equidistante da Modena e Bologna. Per arrivarci bisogna percorrere cinquanta chilometri di una strada tutta curve e tornanti, la maggior parte dei quali in salita. Dopo un’ultima curva sulla destra si entra in questo paesino di circa quattromilacinquecento anime (compresi gli abitanti delle otto frazioni) a 759 metri sul livello del mare. Zocca si adagia tra il verde dei castagneti sulla sommità della riva destra del Panaro, a cavallo della linea di displuvio tra il bacino del Panaro e quella del Samoggia. Di fronte, a sudovest, oltre un’ampia vallata, s’innalza la catena dei più alti monti dell’Appennino Centrale: il Corno alle Scale (1945 metri), il Cusna (2120 metri) e il Monte Cimone (2163 metri). Si vuole che il nome Zocca derivi da una ceppaia (in dialetto «zoca») di castagno che contrassegnava la località dove si svolgeva un mercato o una fiera di una certa importanza nei giorni di San Giacomo e Sant’Anna (25 e 26 luglio), giorni di fiera tradizionali ancora oggi.
A Zocca, alle ore 20.30 del 7 febbraio 1952, è nato Vasco Rossi, un «Acquario» con ascendente nel segno della «Vergine»: particolare non secondario, considerata l’attenzione sempre maggiore che col passare del tempo Vasco avrebbe dato ai segni zodiacali. Un po’ per gioco, un po’ sul serio, per anni ha domandato a chiunque incontrasse: «Di che segno sei?».
Figlio del signor Giovanni Carlo Rossi, per gli amici Carlino, un camionista buono come il pane, apparentemente assai energico, in realtà già minato nel fisico da tre lunghi anni passati in un campo di concentramento tedesco, e della signora Novella Corsi, una casalinga incapace di stare con le mani in mano, quindi sempre alla ricerca di piccoli lavori da fare a casa per arrotondare lo stipendio del marito, Vasco i primi anni di vita li ha vissuti molto tranquillamente, magari senza ricevere grossi stimoli dall’ambiente che lo circondava (gli zocchesi, come tutta la gente di montagna, sono persone riservate e chiuse), ma anche senza subire traumi, specie sul piano affettivo.
«Quei tempi non li rimpiango» mi ha detto recentemente «ma li ricordo con grande affetto. Ero povero, avevo un vestito per la domenica, uno per gli altri giorni e un solo paio di scarpe. Stavamo bene, anche se avevamo poco. E questo forse non è un male… In un certo senso io sono la reincarnazione della favola di Cenerentola. Fino a vent’anni non sognavo i lussi, perché non sapevo nemmeno che esistessero. Poi ha iniziato a piovere sul bagnato. Il bello è che tutto quello che ho l’ho ottenuto facendo esattamente quello che mi piaceva. Infatti ogni giorno ringrazio il cielo e la chitarra.»
Se c’era un elemento che abbondava nei suoi primi anni di vita era proprio l’affetto. Quello dei genitori, ma anche quello dei numerosi parenti e amici di famiglia, con in prima fila nonna Ortensia (che Vasco ha sempre chiamato Nerina) e la signora Ivana Lenzi, che spesso si sostituivano alla madre nello svezzamento di quel bambino buono come un angelo che non faceva quasi mai i capricci. Su quest’ultima puntualizziamo che, pur essendo chiamata da sempre «zia» Ivana, in effetti non è parente dei Rossi: è solo un’amica di famiglia che per un certo periodo ha ospitato a casa sua Vasco e i suoi genitori. Comunque l’appellativo di «zia» (o, più affettuosamente, di «tata», come dice Vasco), ormai le spetta quasi di diritto; ecco perché continueremo a chiamarla così.
Zia Ivana, dicevamo, lo teneva spesso con sé, tanto che sotto alcuni aspetti, almeno nei primi anni di vita, per Vasco è stata più importante lei della madre. Era lo stesso Vasco a cercare più la compagnia della zia che non quella della madre per un motivo semplicissimo: perché lei er...

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  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Vasco Rossi: una vita spericolata