Bagheria
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Bagheria

  1. 147 pagine
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Bagheria

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Bagheria è un racconto lucido e sincero affidato alla memoria. L'autrice, bambina, arriva in Sicilia dopo aver trascorso due anni in un campo di concentramento giapponese. Con infantile intensità vive la scoperta delle proprie origini, della nobile famiglia materna, così radicata in quel paesaggio fatto di palazzi baronali e case che sembrano reggersi l'una contro l'altra. Nell'omertà delle pareti domestiche si consumano rapporti tortuosi, dove il prezzo da pagare ricade sempre sulle donne, sacrificate alla "legge" dell'onore in una società che tutto sa, ma finge di non vedere. Una narrazione condotta con geloso pudore dei sentimenti e un'attenzione ostinata per i ritmi musicali della parola.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858634561
Il nome Bagheria pare che venga da Bab el gherib che in arabo significa porta del vento. Altri dicono invece che Bagheria provenga dalla parola Bahariah che vuol dire marina.
Io preferisco pensarla come porta del vento, perché di marino ha molto poco, Bagheria, sebbene abbia il mare a un chilometro di distanza. Ma è nata, nel suo splendore architettonico, come villeggiatura di campagna dei signori palermitani del Settecento e ha conservato quell’aria da “giardino d’estate” circondata di limoni e ulivi, sospesa in alto sopra le colline, rinfrescata da venti salsi che vengono dalle parti del Capo Zafferano.
Cerco di immaginarla com’era prima del disordine edilizio degli anni Cinquanta, prima della distruzione sistematica delle sue bellezze. Ancora prima, quando non era diventato il centro di villeggiatura preferito dai nobili palermitani, prima delle carestie, delle pesti, in un lontano passato che assomiglia al grembo di una antica madre da cui nascevano le città e le cose.
Polibio parla di grandi distese boscose, due secoli avanti Cristo, quando i Cartaginesi attaccarono gli alleati dei romani “presso Panormo”.
Fra il monte Cannita dove pare che sorgesse la città di Kponia, luogo di culto della dea Atena, e il Cozzo Porcara dove si sono trovati i resti di una necropoli fenicio-punica, c’era questa “valletta amena” che poi è stata chiamata Bagheria. Ha la forma di un triangolo con la punta rocciosa del Capo Zafferano che sporge sul mare come la prua di una nave. Un lato comprende i paesi di Santa Flavia, Porticello e Sant’Elia; l’altro lato, il più selvaggio e battuto dal mare era occupato, fino al dopoguerra, solo dal paese dell’Aspra con le sue barche da pesca tirate in secca sulla rena bianca. Al centro, appoggiata fra le colline, in mezzo a una folla di ulivi e di limoni, ecco Bagheria lambita da un fiume oggi ridotto a uno sputo, l’Eleuterio che, ai tempi di Polibio, era navigabile fino al mare.
Lecci, frassini, sugheri, noci, fichi, carrubi, mandorli, aranci, fichi d’India, erano queste le piante più diffuse. E lo sguardo poteva scorrere da un lato all’altro del triangolo fra onde verdi più scure e meno scure immaginando di vedere sbucare da qualche parte un gigante nudo con un occhio solo in mezzo alla fronte.
Oggi il panorama è deturpato orrendamente da case e palazzi costruiti senza discernimento, avendo buttato giù alberi, parchi, giardini e costruzioni antiche.
Eppure qualcosa è rimasta della vecchia grandezza di Bagheria, ma a pezzi e bocconi, fra brandelli di ville abbandonate, nello sconcio delle nuove autostrade che si sono aperte il varco fino al centro del paese, distruggendo selvaggiamente giardini, fontane, e tutto quello che si trovavano fra i piedi.
Mia madre mi raccontava di una certosa, in cui lei era stata da bambina, che stava dentro villa Butera. «Era un piccolo convento in miniatura, con tutte le sale, le cappelle di un vero convento. Entravi e trovavi un fraticello con una brocca d’acqua in mano. Poi ti inoltravi e lungo il corridoio trovavi le celle in cui dei monaci, con la tonaca fino ai piedi, erano intenti a pregare, o a scrivere. Sembravano veri ed erano di cera, riempiti di stoppa. C’era pure un orso imbalsamato che muoveva la testa in mezzo alla sala delle preghiere.
«Le pareti erano affrescate con dipinti nello stile di Velasquez. C’era perfino un vecchio cameriere intento a scopare il pavimento del cortile, con tanto di grembiule e pianelle ai piedi. In una cella più grande, poi, si svolgeva una cena: l’ammiraglio Orazio Nelson e la regina Maria Carolina erano serviti da un cameriere negro. C’era perfino una cucina, con un cuoco che era intento a friggere due uova in una padella. In un’altra stanza c’era Ruggero il normanno che leggeva un libro. E infine, nella sala da pranzo c’era il principe Branciforti, che parlava tranquillamente, seduto a tavola assieme con il re Luigi XVI e Ferdinando I di Borbone… Venivano da tutte le parti a visitare la certosa di Bagheria. E ora?»
Ora la certosa è distrutta. Non so chi e quando abbia compiuto lo scempio. Ma Bagheria ha così poco amore di sé che non conserva neanche le sue memorie più preziose.
Si è sempre pensato che un certo carattere fosco, una certa mentalità arsa e aggrondata delle genti siciliane corrispondesse alla terra che le ha generate. La violenza di un certo modo di fare politica non poteva che abbinarsi a queste rocce grigie e aspre e inaccessibili, a questo mare ostile e troppo prepotente, a questo paesaggio ruvido e secco, arido e mortuario, alle grandi distese di campi di grano, senza un albero, un rifugio dal sole, ai muri irti di spine, sulle cui rovine nasce l’agave che alza il suo bellissimo collo verso il cielo, in un trionfo di fioritura profumata solo nel momento straziante della sua morte.
E invece poi, a leggere gli antichi che hanno scritto dell’isola, si scopre che non sempre è stata così. Si scopre che qui scorrevano acque rigogliose e boschi dai grandi alberi fronzuti sotto le cui ombre riposanti passeggiavano laboriosi individui. I quali parlavano una lingua che oggi risulterebbe incomprensibile, mangiavano pane cotto sulle pietre e bevevano vino diluito con l’acqua e il miele, ridevano di chissà che rivelando denti candidi e occhi profondi.
Sotto quelle fronde hanno camminato i fenici – forse, mi si dice, sono stati loro a dare il nome a Bagheria da una parola fenicia, Bayaria, che significa ritorno – così mi dicono, ma è difficile sapere qual è la verità. Le etimologie sono a volte misteriose.
Sotto quelle fronde hanno camminato anche i greci e i latini. E infine gli arabi dal piede leggero e le vesti lunghe, di cotone ricamato.
Gli arabi hanno portato in Sicilia il baco da seta, il cotone, il cedro, i limoni e la canna da zucchero. Gli spagnoli, anzi, i portoghesi assieme ai loro cavalli e ai loro guerrieri, la coltivazione dell’arancio dolce detto portuallo. Le arance originali erano amare e si usavano solo per fare i canditi.
Da bambina, andavo a caccia di gelsi, con un gruppo di bambini bagarioti, nei campi intorno alla villa. Ci macchiavamo i vestiti e per questo venivamo rimproverati dalle madri. Ma quei frutti gonfi, teneri, che tingevano la lingua di blu e di rosso, erano irresistibili.
Oggi non ci sono più gelsi nella zona di Bagheria, li hanno tutti tagliati. Ma sul molo di Mondello, la marina di Palermo, ancora oggi si possono trovare dei fruttivendoli che, per pochi soldi, ti mettono in mano un cartoccio di carta da zucchero con dentro una manciata di gelsi succosi e profumati.
Il gelso è stato anche l’albero della mia consolazione durante i due anni di campo di concentramento a Nagoya. Ogni giorno ci mettevano in fila e ci contavano, i guardiani del campo. Ma qualche volta si dimenticavano di noi bambine e di queste dimenticanze io approfittavo per crearmi un varco fra i fili spinati e correre dai contadini a lavorare per qualche ora, contenta di ricevere, alla fine, una cipolla, un pezzo di daikon (rapa bianca), che giaceva poi nel piatto come un morticino, bianco e storto con quel sapore di acqua marcia che detestavo. Ma era meglio della fame.
Il daikon assomiglia anche al Gin Seng che a sua volta fa pensare a un ometto nano dalle braccia sottili e le gambe filiformi. Un ometto o anche un neonato dalle membra bianchicce e molli.
Ma non si dice che fosse così anche la mandragora? Quante notizie confuse si stratificano nella memoria. E spesso non andiamo a verificare. Oggi so che la mandragora è «un’erba velenosa dalle radici tuboflorali con fiori bianchi, foglie seghettate e grosse radici alle quali un tempo si attribuivano virtù magiche».
Nel Trecento si chiamava ancora “mandragora”, come io credevo che si chiamasse. Poi invece, non si sa come è diventata la “mandragola”. Eppure i latini pronunciavano mandragoram e i greci mandrágoras. Ma forse, si insinua, la parola viene dal persiano mardum-gia che vuol dire pianta dell’uomo.
In campo di concentramento ho capito il rapporto che si può stabilire – ironico e profondo – fra il cibo e l’immaginazione magica. È la carenza che fa galoppare i sensi e trottare la fantasia. La mancanza sta all’origine di tutti i pensieri desideranti. E anche di tutte le deformazioni più o meno segrete del pensiero.
I daikon avevano il potere di farmi piangere. Ma pure sapevo che era la sola fonte vegetale che arrivasse sul nostro tavolo una volta ogni tanto e bisognava approfittarne.
Ricordo ancora come sedevo inerte, sconsolata e in preda all’odio, di fronte a una scodellina di daikon bolliti, mentre le lagrime sgorgavano da sole e scivolavano giù per le guance scavate, rotolando veloci verso il grembo.
Il daikon lo vedevo maligno, bianco, dispettoso, anche se portatore di salute. Le sue radici scatenavano nel mio povero stomaco vuoto delle vere tempeste dolorose. Perciò rimandavo il momento di metterle in bocca. Il daikon se ne stava lì, chiotto, chiotto, nel piatto e si fingeva morto. Ma non lo era. Daikon non fa pensare a daimon? Un piccolo demone dalle carni apparentemente innocenti e candide, di una innocenza artefatta che si mimetizzava con la povera ceramica del campo.
Quando potevo correre fra i contadini ero contenta. Infilavo le mani di bambina dentro l’enorme cesto in cui gli uomini avevano gettato le foglie dei gelsi. Le tiravo su, leggere e un poco pelose, le distendevo sui letti dei vermi. Quegli esserini ciechi e permalosi che se ne stavano chiusi nei bozzoli fatti di una materia molto simile alla tela di ragno, che si incollava alle dita ed emanava un leggero odore di farina e di erba tagliata erano i bachi da seta.
Alle volte mi trovavo dentro il palmo un baco non ancora chiuso nel suo nido di bave opache. Ricordo la straordinaria morbidezza di quel corpicino, quasi una carne fatta di nuvola. Le mie mani conservano bene i ricordi di ciò che toccano. Sono mani piccole, laboriose, asciutte, dalle unghie sempre tagliate cortissime, le vene in rilievo come di chi le usa molto (e io con la mia tastiera elettronica vado avanti e indietro per ore e ore al giorno), il mignolo molto più corto e minuto delle altre dita. In effetti, ho faticato a imparare a distribuire il peso delle dita sui tasti. Per usare anche il mignolo dovevo sbilanciare la mano piegando il polso in fuori. Alla fine ho deciso di farne a meno e ora scrivo con otto dita tralasciando il mignolo.
Quella mollezza farinosa, tiepida, del baco da seta, quasi sul punto di sfaldarsi sotto le dita, l’ho ritrovata quando ho stretto in una mano il primo sesso maschile della mia vita.
Era un amico di famiglia che, come aveva fatto a suo tempo il marine americano, ha approfittato di un momento in cui eravamo rimasti soli, per aprirsi i pantaloni e mettermi in mano il suo sesso. Io l’ho guardato con curiosità, per niente spaventata. Eravamo a Bagheria, e io avevo una decina d’anni. Poiché non pretendeva di toccare il mio corpo, cosa che aborrivo, ma con fiducia e delicatezza mi mostrava il suo, non me la sono presa a male. Era il primo pene che vedevo. Curioso che la parola pene sia così simile alla parola pena. Chissà che scegliendo di dire pene non si volesse insinuare che il portatore di pene è anche un portatore di pena. Ma questo è un azzardo linguistico.
Il primo pene portatore di una piccola pena, nel senso che certamente io ero bambina e lui mi imponeva il suo corpo di adulto, anche se senza violenza, è stato quest’uomo che poi era un buon amico di famiglia e frequentatore usuale della casa.
Fino ad allora avevo solo intravisto una volta il pene di mio padre, ma era in posizione di riposo e soprattutto non mi veniva offerto. Anzi lui si era vergognato del mio guardare e si era ricoperto subito con imbarazzo. Non era spudorato il mio amato padre. E per tutta la mia infanzia, l’ho amato senza esserne ricambiata. È stato un amore solitario il mio. Vegliavo su di lui, sulle sue impronte mai ripercorse, sui suoi odori segreti.
Essendo lui sempre in viaggio, sempre lontano, trasformavo le mie attese in architetture complicate e aeree, tra il miraggio cittadino e la voglia di un sogno a occhi aperti. Quando tornava da uno dei suoi viaggi, io annotavo con pignoleria gli odori che si era portato dietro: di vecchie mele (l’interno dei sacchi da montagna chissà perché ha sempre quel fondo di mela, forte, acido, incancellabile), di biancheria usata, di capelli scaldati dal sole, di libri scartabellati, di pane secco, di scarpe vecchie, di fiori macerati, di tabacco di pipa, di balsamo della tigre contro i reumatismi.
L’insieme non era cattivo, anzi era dolce e inconfondibile, era il suo odore che ancora oggi mi fa sobbalzare quando lo sento in qualche angolo di casa, in qualche vestito vecchio, in qualche sacco da montagna messo da parte. Era l’odore di un uomo solitario, insofferente di ogni legame, di ogni impegno, che viaggia in continuazione da un continente all’altro. Un pellegrino dai gusti semplici e spartani, abituato a dormire per terra, a cibarsi di niente, astemio, sobrio, ma capace anche di grandi mangiate e grandi bevute se fatte in buona compagnia, in cima a una montagna o dentro una capanna abbandonata fra le rocce vicino al mare. Qualche volta fumava la pipa ma l’odore del tabacco non lo ritrovavo nei suoi abiti. Solo qualche volta nel “ruc sac” come veniva chiamato in famiglia. In campo di concentramento lui e gli altri uomini fumavano le foglie di ciliegio arrotolate. Il sapore pare fosse amaro e bruciante. Ma l’odore mi piaceva: era leggero e profumato di fiori.
L’ho amato molto questo mio padre, più di quanto sia lecito amare un padre, con uno struggimento doloroso, come anticipando in cuor mio la distanza che poi ci avrebbe separati, prevedendo la sua vecchiaia che mi era già intollerabile da allora, immaginando la sua morte di cui non mi sarei mai consolata, ma di cui scorgevo l’ombra fra le sue ciglia delicate, fra i suoi pensieri selvaggi, negli angoli delle sue labbra sottili e delicate.
«Cos’è questa cosa bianca che esce dal tuo corpo?» ho chiesto all’amico di famiglia che si piegava in un sussulto di piacere mentre il baco cresceva fra le mie mani e poi, dopo un fremito, tornava a rimpicciolirsi lasciando sul mio palmo di bambina un liquore bianchiccio e appiccicoso.
Lui ha sorriso. Non ha saputo rispondermi. O forse ha detto qualcosa come “lo capirai dopo, da grande”. Per un momento avevo pensato a una malattia, una eruzione purulenta, qualcosa di inaspettato e segreto che minacciava la sua salute. Poi, ero stata talmente stupita dalla rapida metamorfosi del piccolo baco che avevo pensato: “deve avere mandato giù un pezzo di fungo, come Alice. Ora ne mangerà un altro pezzetto e tornerà a farsi grande, robusto”. Doveva esserci qualcosa di capriccioso e imprevedibile in quel crescere e decrescere, in quel gonfiarsi e sgonfiarsi della carne di un adulto. E non sapevo ancora che si chiamava pene.
Per giorni e giorni, poi, l’amico di famiglia non si è fatto più vivo. E io ripensavo con un misto di disgusto e di curiosità a quel suo corpo piegato in avanti, a quel fiotto di latte che mi aveva imbrattato le mani, a quella faccia vergognosa che si chinava, si chinava stranamente su di me, senza però toccarmi, come se con quella vicinanza distaccata ribadisse la sua profonda estraneità a quello che stava facendo.
Che avesse messo il suo baco così morbido e indifeso fra le mie mani bambine lo considerai allora un gesto di fiducia estrema di cui non potevo che inorgoglirmi.
Quando lo vidi, qualche tempo dopo, si mostrò severo e scostante con me. Mi rimproverò di essere una «bambina troppo sveglia», troppo curiosa, «portata alla scostumatezza». E riuscì a convincere mia madre, tanto da indurla a togliermi e a buttare via un vestito senza maniche e corto sulle gambe a cui ero molto affezionata, per farmene un altro lungo, a pieghe che mi stava da cani.
Anni dopo, fra il ’70 e l’80 mi sono trovata, con delle amiche, a fare degli incontri di “autocoscienza” così li chiamavamo allora e costituivano l’ossatura del movimento delle donne. Ci si riuniva, a pranzo o a cena, quando eravamo libere dai rispettivi impegni di lavoro e parlavamo, ma con qualche metodo, dandoci dei tempi e analizzando a vicenda le nostre esperienze più lontane che riguardavano la scoperta del sesso, dell’amore, l’incontro con la violenza, col desiderio di maternità, eccetera.
In quell’occasione scoprii che la cosiddetta “molestia sessuale” da parte degli adulti sui bambini era una cosa comunissima, ben conosciuta a tutte o quasi tutte le bambine. Le quali spesso tacciono per il resto della vita, impaurite dalle minacce, dalle esortazioni degli uomini che le hanno portate negli angoli bui. Sentendosene in colpa, sempre, quasi fossero state loro ad allungare le mani, a concepire pensieri proibiti, a forzare la volontà ancora incerta degli uomini anziché il contrario. Alle prese, una volta svelato il fatto, con madri incredule e portate ad addossare tutte le colpe alle figlie anziché ai mariti, agli amanti, ai cugini, ai fratelli, agli amici di famiglia.
Tale è la rimozione che alcune proprio se lo dimenticano, ma sul serio e ci vogliono anni di analisi per tirarlo fuori. Una mia amica londinese ha scoperto, dopo dieci anni di analisi, che da bambina era stata violentata dal nonno. Ma l’aveva “dimenticato” opportunamente, per la buona pace della famiglia, e per non dispiacere a s...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Bagheria L’ho Vista per la
  5. Il Mare non lo Conoscevo
  6. Alla Villa ci Aspettava la
  7. Il Nome Bagheria Pare Che
  8. La Senia o Noria Oggi
  9. Queste Fotografie delle Ville di
  10. Nel 1400 a Bagheria si
  11. Con la Mia Amica D’infanzia
  12. I Trisavoli, Secondo Quanto Racconta
  13. Zia Saretta mi Chiede Perché
  14. La zia Saretta Batte il
  15. Fra i Molti Nobili che
  16. Getto uno Sguardo Sulla Scarpa
  17. Il Piede di Zia Saretta
  18. In Questa Stanza Ci Ha
  19. Siamo al Piano di Sopra
  20. La Villa Valguarnera Era la