Conversazione con la morte - Interrogatorio a Maria - Factum est
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Conversazione con la morte - Interrogatorio a Maria - Factum est

La seconda trilogia

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Conversazione con la morte - Interrogatorio a Maria - Factum est

La seconda trilogia

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Una voce unica. Tre opere indimenticabili. Ecco il trittico di poesia teatrale con cui Giovanni Testori, il più forte e provocatorio drammaturgo italiano del Novecento, fa i conti con il mistero della sua fede e della sua esistenza. Nelle parole dette dialogando con la morte, o interrogando Maria, e nel balbettio potente delle vita che preme per nascere, Testori concentra e in qualche modo rivisita tutta la sua vasta esperienza di artista e di uomo. E pone, sotto spietata inchiesta la cultura oggi dominante, con la sua lucida visione, la sua sincerità. E con il senso drammatico della sua personale speranza.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858630532

PREFAZIONE

Giovanni Testori avvertì a un certo punto che doveva fare i conti con la tradizione da cui era uscito, ma da cui non si era mai allontanato del tutto. Tradizione cristiana, ovvero trasmissione della pietà e della urgenza di strappare al nulla i volti, le cose, i luoghi. Per Testori il cristianesimo, sia quello imparato dalla madre sia quello ritrovato, tra altri luoghi, nelle umanissime figure di Giovanni Paolo II e di don Giussani, e nell’impegno sorridente dei giovani di Comunione e Liberazione, non poteva che essere il luogo di un dramma, di una lotta. E di una pietà finalmente. Ci basti questo, e lasciamo stare qui le faccende biografiche che fecero sorgere l’urgenza di tale rendiconto. Altrove e pure qui, nella Conversazione, ce le ha raccontate lui o ce le hanno spiegate altri.
Quel che è certo è che questo scrittore e intellettuale, amato dalla Milano laica del «Corriere della Sera», del Piccolo teatro e del Pierlombardo, a un certo punto si è messo su un palco spogliato a conversare con la morte, ha poi convocato su quel palco dei giovani attori a interrogare Maria, e, infine, ha voluto che uno di quei ragazzi girasse chiese e teatri con il primo dire della creatura, proprio nel momento in cui l’Italia si divideva sulla legge intorno all’aborto. E tutto ciò fu elemento di scandalo e di forza.
Io ho conosciuto Testori in quel periodo. Avevo meno di vent’anni. Mi disse: «Traduci Rimbaud, lì non ti puoi attaccare a niente». E mi gettai dove non so. Lui avrebbe «tradotto» la Lettera ai Corinti di Paolo. Si stava attaccando a quello scandalo.
Dei tre testi che qui presentiamo ci interessa cogliere la forza che ancora, oltre vent’anni dopo la loro scrittura, da essi emana. Perché di poesia teatrale si tratta, secondo quella tradizione discontinua e irregolare che nel Novecento va da Eliot al teatro di dissidenza polacco fino a Luzi e a Testori.
Sulla natura teatrale della parola Testori aveva riflettuto fin dagli anni Sessanta, negli stessi anni di Artaud e, con esiti totalmente diversi, di Pasolini. Ora, dopo la stagione del suo teatro sontuoso e scandaloso, prima della ripresa di una rinnovata forza fino al capolavoro de I Promessi Sposi alla prova, ecco un momento, come una raccolta mandorla, dove la rappresentazione e la lingua si sono fatte essenziali.
La forza ancora quasi intatta di questi testi è dovuta alla loro sincerità. La novità di esperienza sorta nell’uomo sta chiedendo al poeta una parola «nuova». Ed è una parola che deve reiniziare. Questi testi che riflettono sul mistero della vita e della morte sono anche la messa in scena di una rinascita della parola. Sapeva bene Testori, da artista, che egli giocava il suo destino non solo nel dire alcune cose (per quanto «indicibili» o «scandalose» pur se tratte tutte e interamente dalla tradizione cristiana ritrovata e dunque rivissuta), ma nel trovare il modo di dirle. E trovare il «modo» significava riprendere tutto dall’inizio, far ridiventare teatro il teatro, far risuonare le parole che non suonavano più, far sentire la pasta di cui sono fatte, il sapore, il loro sapere anteriore e interiore. Sono gli anni dal ’78 all’81, uno dei periodi più violentemente ideologici della storia italiana. Dunque un periodo in cui le parole erano distorte dalla loro natura e piegate ad altri parziali fini. Parole usate per colpire, parole negate, parole senza più rapporto con la realtà, ma solo con l’idea o con il sogno violento di chi le brandiva. Era così sui giornali, in televisione, nei comizi e in molte chiese. Anche oggi viviamo un’epoca simile, e la pubblicazione di questi tre testi, oltre alla ricorrenza decennale della morte del loro autore, cade ancora «polemicamente».
Grazie a Testori e al suo pubblico (perché Testori è Testori anche grazie al suo speciale pubblico, come è augurabile che sia per ogni vero autore) il teatro, anche uscendo dai suoi luoghi deputati e allargandosi a piazze e chiese, divenne una formidabile opposizione all’ideologia. Occorre che queste stagioni si ripetano. Per la salute della società.
Nelle opere che qui trovate, gli elementi del dramma, muovendo dal centro stesso della personalità del poeta e della sua esistenza, si dispongono in un ordine asciutto e «violento» di essenzialità. C’è lo scandalo del gesto, del tema, del contesto. Sì, ci sono molti scandali, ma a essi in fondo era abituato Testori e lo erano i suoi ammiratori. No, lo scandalo era più nascosto, è nascosto in queste opere che invece sembrano metterne in mostra parecchi. Quello vero, dico, è celato all’interno di questa scrittura dove ritroviamo tutto di Testori, dalla violenza verbale fino alla dolcezza infinita della lingua che sembra farsi come un sapore sulla lingua. E dove il suo speciale patchwork immaginativo e linguistico dà luogo ad alcuni momenti di poesia perdutamente bella.

Lo scandalo è nell’interlocutore. È che qui Testori prende come suo interlocutore Dio. Non che il divino non fosse apparso già molte volte e chiamato in scena per ricevere preghiere, invettive, suppliche o bestemmie da parte di questo o quell’altro dei personaggi degli «scarrozzanti» testoriani. Ma qui, definitivamente, Testori attua una cosa scandalosa nell’arte contemporanea. Prende Dio come interlocutore. Prende Dio come se Dio ci fosse. Il Dio incarnato, Cristo presente fisicamente. Mentre per tutta o quasi tutta l’arte contemporanea, o quella che veniva accreditata come tale, Dio non era un interlocutore possibile, ecco che il gran drammaturgo, il migliore apparso in Italia dopo Pirandello, compiva questo azzardo. Avere Dio come interlocutore significa riportare di schianto l’arte e il suo gesto fuori dalla dimensione mondana dell’arte, compresa quella cosiddetta di avanguardia o di rottura, compiendo la vera «rottura» con ogni schema riduttivamente sociologico o estetizzante del gesto artistico.
Negli anni del piombo ideologico, ripartendo dal «sottoscala» del teatro o meglio dal ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Conversazione con la morte. Interrogatorio a Maria. Factum Est