Il fuoco della poesia
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Il fuoco della poesia

In viaggio nelle questioni di oggi

  1. 224 pagine
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Il fuoco della poesia

In viaggio nelle questioni di oggi

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Riusciremo a salvare la poesia del vivere? In un'epoca che sembra sempre più spesso metterci in difficoltà, le parole della politica, le interpretazioni sociologiche, le valutazioni numeriche, da sole, non bastano. In nostro aiuto, oggi più che mai, può venire la poesia, l'arte di cogliere nella realtà associazioni sottili, l'arte di dire 'quel che non si sa' e che nella vita ci chiama. In questo libro, uno dei più importanti poeti italiani contemporanei ci mostra lo stretto legame che unisce, contrariamente a quanto si pensa di solito, la poesia alla cronaca, come fecero, tra gli altri, Pasolini e Testori. In un dialogo continuo con i grandi poeti del passato, vero e proprio coro di voci che sostiene la sua, Davide Rondoni riflette su questioni stringenti dell'attualità - dalle catastrofi naturali ai recenti dibattiti sulla bioetica, da episodi emblematici di violenza alla situazione della scuola italiana - e su temi universali come il significato della morte, i problemi del vivere insieme, il rapporto tra generazioni, la visione del corpo e dell'amore. In risposta alle tentazioni del nichilismo e dell'esibizione, un elogio alla passione, alla responsabilità, al pudore.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858630242

Introduzione

Se ne fotte se non la chiamano più regina.
Lei lo è, anche se il trono è finito chissà dove, e la corte è dispersa.
La voce è forse un poco arrochita. Ma quando si propaga nelle stanze, per i corridoi pericolanti e per le scale che da tempo quasi nessuno percorre, ridiventa la sua voce di ragazza, ritrova il suo tono, la nota. E la sua eco è sempre quella. Non c’è chi, anche tra coloro che stanno combattendo per un pezzo di stoffa o un cartone di riso, non la riconosca. E nel gesto, in certi lampi degli occhi, si vede ancora benissimo da dove viene la Signora.
Io sto vicino ai gradini. Mi ubriaca la mente, la accende. Mi fa essere più ragionevole e più matto di libertà. Mi sbatte contro il muro. Mi lancia verso la grande aria del mare. E poi sosta. Lascia appesi col cuore alla luna. Sempre notte, sempre giorno. Non so cosa farci. È lei, la poesia.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera [...].
Dice così, a un certo punto, in un crescendo visionario e lucido, il canto notturno del pastore errante nell’Asia. Lo scrisse Giacomo Leopardi. Fu incuriosito da un giornale di viaggio in cui si parlava di certe popolazioni dell’Afghanistan. Ispirato dalla cronaca. Alla luna si rivolge; dice di non sapere nulla del mistero della vita. Nulla su dove va, né sulla fame, sulla noia che lo punge. La poesia lo porta a quel punto. A rivolgersi alla luna. Con una supplica urgente, quasi imperiosa, segnata in quella ripetizione («Tu sai, tu certo»). Lei sa, deve sapere a che cosa ride la primavera. A che amore si rivolge? O è un riso demente? Un sorriso a nessuno?
Sono questi i capolavori della Signora. Robetta, si dirà. Aggeggi di nessuna importanza. Qualche banda di trafficanti le ha fregato la corona, ma lei resta al suo posto, i capelli sciolti. Ama il suo Paese, anche quando gli vomita contro urla e offese tremende. Anche se molti dicono che parla a vanvera. Che non serve a niente. Invece serve a tutto. Ad accendere i nervi, le menti, l’anima se qualcuno ce l’ha ancora, così che si accorgano che la vita accade, che sta accadendo. La primavera, la luna, la notizia minuscola di cronaca, il brivido dell’aria, del respiro... La poesia mette a fuoco la vita.
Qui ci sono poesie ad aprire capitoli in cui cerco di mettere a fuoco il nostro tempo. Quelle poesie sono la messa a fuoco. La poesia appartiene a quell’esperienza della lingua in cui si prova a dire “quel che non si sa”. Accade a tutti, non solo ai poeti. Se qualcosa ci colpisce davvero (un amore storto o dolce, un dolore, un accidente qualsiasi imprevisto, una notizia, o una città che si apre ai nostri occhi quando giriamo l’angolo), allora le parole, ameno per un istante, non riescono più a essere “solite”. La lingua, per così dire, si riaccende. E si cercano le parole per mettere a fuoco quel che ci ha colpito. Come quando diamo soprannomi alle persone amate, ai piccoli o alle donne. Vengono, quei soprannomi. Sembriamo scemi. Diciamo: cucciolo mio, cavallino; diciamo: stellina mia, o dromedario mio, o cosa diavolo ci viene da dire. Sono un modo per decorare quelle presenze, come posare un fiore sui capelli. Ma sono anche di più: si tratta del modo primario, più naturale che abbiamo per cercare di mettere a fuoco quel che ci colpisce in certe presenze.
La poesia non nasce in strani laboratori della lingua, tra amanti di libri polverosi. Nasce per la strada, e ovunque, quando un tizio che può avere una vita normale o speciale, o una vita così così, poco importa, si lascia colpire dal continuo avvenimento dell’esistenza.
Indicherà la luna, ne proverà a mettere a fuoco la presenza amica o forse indifferente... O una ragazza in bicicletta, o una notizia dura sul giornale. La chiamavano ispirazione. È una parola antica e giusta. Una parola senza più corona. A volte anche lei ondeggia un po’ ubriaca o smarrita. Ma il suo sguardo e i suoi gesti non falliscono. Il mondo chiede di essere messo a fuoco al di là delle prime apparenze. Ci invita. I poeti fanno questo lavoro con le parole. Altri lo fanno con alambicchi e microscopi. O con l’aratro sul campo o lo scalpello sul marmo. Per cercarne il segreto. Che non smette di parlare, di sollecitare.
Dante fu colpito dall’avvenimento di Beatrice, «venuta da cielo in terra a miracol mostrare» e volle mettere a fuoco il senso di quell’incontro. Perciò scrisse la sua fantastica Commedia. Aveva la vita come motivo, come motore del suo poema del movimento. E tanti leggano e ascoltino, mettendo a fuoco la propria vita.
Occorre scrivere bene, darsi da fare parecchio per far sentire la voce del mondo. È come uno che deve essere intonato e aver esercitato molto la voce, per afferrare il canto che gli è chiesto di restituire. Insomma, per quel che legge sullo spartito, fatto di segni come la realtà di ogni giorno, e che insegue nei movimenti della mano del direttore del coro. Occorre lavorare parecchio, perché il canto venga e sia naturale, elementare. Come in ogni lavoro. Il lavoro dei poeti è avere una voce che dia voce al reale e perciò parli alla vita di tutti.
Quando si ascolta una poesia di Leopardi o di un vero poeta, non ci si commuove per la vita di lui, ma per la propria. La si sente risuonare nelle parole di un altro, a sua volta mosso da qualcosa che si muove nel reale. Per fare esperienza della poesia, come dimostra tutta la sua storia, non occorre essere esperti di letteratura. Occorre essere vivi, disposti al continuo evento del mondo e del suo segreto. In un altro libretto, che si chiama appunto La parola accesa, ho provato a dire qualcosa di sensato su cosa è leggere.
In questo tempo duro chi non è solo un sopravvissuto fa esperienza della poesia. Non c’è niente di peggio, diceva il grande Péguy, che avere un’anima bell’e fatta. Un’anima confezionata. La poesia rompe le confezioni.
È marzo. Fuori la primavera ride. Vedo bande di nichilisti e di clericali che si danno addosso sui giornali. Vedo che c’è un sacco di gente che trema nel cuore. Vorrebbe sapere a qual suo dolce amore rida la primavera, o se qui è tutta una demenza. In tanti, quando posano le maschere con cui lavorano tutto il giorno, fuori dalle fabbriche o dagli uffici, se ne stanno con la vita tra le mani, come sbigottiti e confusi d’averla.
Apro le porte a vetri di questo ascensore. Scendo nel cuore di un’antica città italiana. Ieri notte era frenetica, vivace e inquieta. Gente di diverse razze si mescolavano per le strade, alcuni con una luce più forte, determinata, negli occhi. Altri più inquieti, anche se lievemente svagati. Alcuni sembravano imbambolati o spenti, occhi cupidi. È presto, gli archi dei portici quasi bruciano nella prima luce del sole, ci sono ancora le bottiglie per terra.
Ti voglio scrivere una lettera, amore. Poi farò il mio viaggio con la regina tra il cielo e il fuoco di questa epoca.

Una lettera

Cara Q,

È un tempo dove tutto cambia così rapidamente, amore mio. Sembra di stare tutti nel vento.
Cosa è questa fame, che sembra distratta e quasi vergognosa, che però morde, e così forte morde? Cosa è, non lascia la presa delle radici del cuore e, certe volte mentre siamo per strada, stringe anche il respiro? Cos’è che non vogliamo perdere, e come cani, a volte proprio latrando come bestie e battendo i pugni sulle porte o i pugni degli sguardi, altre volte sorridendo inconsapevoli, fermi contro lo stipite ricordando una gioia, una voce, che cosa difendiamo di noi?
Arrivano folate di canyon lontani, fiati morti, o echi di canzoni... O è come se fossimo tutti al cinema. Si mangia, si ama, ci si arrabbia, questo cinema è grande, ci puoi viaggiare in automobile, passano pure i funerali e nascono bambini, e tutti almeno con la coda dell’occhio guardiamo il grande schermo, onnipresente, dove vanno e vengono immagini strane. Di alcune riconosciamo qualcosa. Di altre no, non capiamo bene di cosa si parla in questo cinema che è però anche il film dove siamo finiti. Le lasciamo passare, molte speriamo che passino in fretta. È la nostra vita. Tutta lì? E noi, che cosa siamo? È un tempo dove tutto cambia, sotto i nostri occhi. Guardo i tuoi: sbigottiscono. E rapide gioie corrono alternandosi con lampi di terrore. E a volte una luce di dolore così acuta, così da morire... Mi piaci perché tu, più di tanti altri, ogni tanto ti fissi, e guardi il cinema del cielo, bellissima nella tua inquietudine, e poi mi sorridi. Una corda mi attraversa in quell’istante. Lega il profondo del cielo al fondo degli inferi quotidiani. Qualcosa che c’entra col senso del destino. Lo chiamo amore.
Salveremo la poesia del vivere? Crescerà ancora nelle nostre braccia e nel sangue dei figli la dura gioia di essere uomini? Si deve guardare bene, non fermarsi alle apparenze che ci assediano. E scansando le maglie sempre più strette in cui ci stringono giornali idioti, programmi vanitosi e inutili, e comunicazioni-imposizioni banalissime, forse si può ancora trovare la vita nei suoi elementi segreti, inquietanti e gentili. La terra terra, l’acqua acqua, i cambi di luce su un viso, il vento sui crinali o all’improvviso per certe strade, sotto i portici o sotto il getto alto di tangenziali...
Molti pensano che si possano ancora interpretare i tempi con le parole della politica. Alcuni ripetono ormai meccanicamente come dei mantra le ultime nozioni di economia. E altri con il libro di diritto aperto cercano di inseguire gli eventi. E i giornalisti! A molti di costoro il vento sbatte sul petto e sul viso i grandi fogli, le pagine, e loro sbraitano, con le parole negli occhi, che poi volano via. O parlano parlano parlano da video in cui è azzerato il volume, come quelli esposti in vendita nei grandi magazzini. Non sembrano anche a te come clown lasciati in città da un circo che se ne è andato altrove? Continuano a recitare, a inventare gag, ma il loro spettacolo è finito. Non verranno da loro, e dalle loro tribune, le parole per leggere e per dire le urgenze di questo tempo. Le parole adeguate per non stancarci di essere qui. E nemmeno quelle adatte per farci lavorare. Cioè per farci sperare; la speranza è la virtù lavorativa, costruttiva. Virtù bizzarra, operaia. Non verranno da costoro le parole per non farci fermare sulla soglia di casa con l’orrore che riempie la bocca. Non saranno loro. Che riusciranno a tener vivo con le loro parole quel che in noi non vuole morire.
Amore, non avere paura, la notte è piena di fuochi. Non so cosa sono, se lampi di vedette, o falò di esuli. O forse roghi di battaglia. Ormai ne brillano non solo le città ma anche le colline. Laggiù si vedono anche nell’aria del mare. Non avere paura, teniamoci per gli occhi. Ho un pugno di poesie, per guardare in questo strano tempo, dov’è sempre notte, sempre giorno...
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Non sarà un libro ordinato. Ma leggilo come una lettera che ti mando. Dove si passa di palo in frasca. Mi è sempre piaciuto questo modo di dire. Di palo in frasca. Come se almeno nel dire, nelle parole ci fosse la libertà di mettere insieme, avvicinate, due cose che in teoria non dovrebbero esserlo mai. Che so, un elefante bellissimo e la bidella della scuola. Mi pare invece che il mondo sia stato creato passando proprio “di palo in frasca”. Con una libertà assoluta di avvicinare cose che apparentemente non c’entrano. Per esempio anch’io e te, non c’entravamo. Eppure... In questo niente di spazio che è la Terra, tra milioni di galassie e di corpi celesti con infinite composizioni, c’è il deserto arido e ci sono le piste piene di sciatori come puntini che scendono giùùùùù. O forse non è tutto solo un casino. Cioè, è un po’ un casino e un po’ no. A guardar bene ci si può leggere dentro qualcosa di interessante in questo “mondo di palo in frasca”. Come quando vai a New York, e gli edifici sembrano costruiti lì a caso uno vicino all’altro: un grattacielo di mille piani di cristalli svetta vicino a una vecchia casa stile anni Cinquanta, un grande ponte sopraelevato appare in fondo a un vicolo minuscolo. Come anche a Palermo, o in tante altre città cresciute nella storia, tra ferite e crisi. Ma a guardarle sembra di vedere qualcosa di armonico. Non l’armonia che si può prevedere, ma che puoi riconoscere. Non l’ideologia, ma la storia quando, pure tra crisi e dissipazioni, è mossa da una cosa chiamata speranza.
Se ti annoia questo libro lascialo perdere. E comunque puoi saltarne dei pezzi. O leggere solo le poesie. Mi andrà bene lo stesso.
Mi sono steso febbrile sul corpo dei giorni e sul corpo del mio signore amore. Rapito dalle poesie dei fratelli e dei grandiosi che ho messo tra queste pagine, vicino a fatti che chiedevano di non tacere. Ho avvicinato due cose che in genere vengono tenute distanti. La poesia e la cronaca. Le tengono lontane perché altrimenti si crea qualcosa di esplosivo. Una mina nel pensiero, qualcosa che fa saltare in aria come fantocci tutte le loro chiacchiere. Del grande poeta russo Osip Mandel’štam si diceva che quando iniziava a comporre iniziava a muovere le labbra. Come se iniziasse a bisbigliare. Il poeta infatti rumina i suoi versi, che poi gli escono, se uscire devono, come farfalle dalla bocca.
Anche qui, più che una riflessione, troverai un rompersi di crisalidi. Sollecitato dalle stagioni e dalle sorprese dolorose e meravigliose del mondo.
Questo libro cammina in un campo minato e ha una pensosità piena di farfalle.

I

Appartenenza, libertà

1. Il corner lo batte Michelangelo

Potrebbero essere migliaia. Versi che cantano o gridano dell’Italia. Questa ragazza amata dai poeti. E riempita d’invettive, per secoli, da Dante fino ai nostri giorni, da quegli stessi poeti. Perché la amano fino agli spasmi dell’ira quando si lascia avvilire, o si vergogna di se stessa... I primi sono di colui che è tra i pochi nomi universali, l’Artista. Un ragazzo italiano, che, nato in un borgo d’una valle dura e meravigliosa, divenne Michelangelo. Parla di quello sperdimento d’amore che in Italia trova sempre il suo migliore teatro.
Come può esser ch’io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio,
chi m’ha tolto a me stesso,
c’a me fosse più presso
e più di me potessi che poss’io?
O Dio, o Dio, o Dio,
come mi passa el core
chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo, Amore,
c’al core entra per gli occhi,
per poco spazio dentro par che cresca
e s’avvien che trabocchi?
(Michelangelo, Madrigale, in Rime)
Poi versi di Pasolini, uomo di ideologia e passione, pochi, dove si parla di «umili» con parole che riecheggiano Leopardi... La poesia, come ogni arte, esiste come tradizione e nuovo, come un darsi la voce, passarsi parole, modi di dire...
Come si assiepa il secolare
loro gridìo di servi indenni
da bassezza [...]
Loro è la sera, loro è l’accento
della campana; s’è il dolce sabato,
loro è l’allegrezza che il vento
da orti, aie, osterie, lento
e quasi religioso, dirada.
(Pier Paolo Pasolini, da L’umile Italia, in Le ceneri di Gramsci)
E infine da un poemetto dinam...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il fuoco della poesia
  4. BIBLIOGRAFIA