La riscoperta della Patria
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La riscoperta della Patria

Perché il 150° dell'Unità d'Italia è stato un successo

  1. 360 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La riscoperta della Patria

Perché il 150° dell'Unità d'Italia è stato un successo

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Un ritrovato orgoglio nazionale, una nuova fiducia nello Stato: questo hanno significato le celebrazioni per il 150° dell'Unità d'Italia. Un viaggio verso la riscoperta di un comune senso di appartenenza che ha coinciso con l'obbligo di fronteggiare la più grave crisi dal dopoguerra; una risposta corale alla retorica del declino e alle voci cariche di scetticismo, ottenuta stringendosi attorno a un forte racconto identitario. Da qui si deve ripartire secondo quanto Paolo Peluffo scriveva in un libro pubblicato per la prima volta in vista dei festeggiamenti del 2011 e ora aggiornato per rilanciare un progetto che continui ad andare oltre l'interesse dei singoli e che si dimostri all'altezza delle sfide che attendono l'Italia del 2061, quando i giovani di oggi, e i loro figli, celebreranno i duecento anni di Unità nazionale. Con questo entusiasmo è fondamentale iniziare fin da subito a porsi domande sulla natura e l'importanza delle nostre istituzioni, sullo sviluppo delle infrastrutture, sulla natalità da sostenere e la necessità dell'integrazione sociale. Perché è dalle risposte che sapremo darci, dalla loro qualità e tempestività, che dipende il futuro del nostro Paese. L'ebook contiene una nuova appendice dell'autore.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858629482
La riscoperta della Patria
Parte prima
Perché il 150° dell’Unità d’Italia
è stato un successo
Capitolo 1
Tredici milioni di Tricolori e
tre bandierine volanti
Quando nel marzo del 2061, i nostri figli e i loro figli festeggeranno il bicentenario dell’Unità d’Italia, il Tricolore, ne sono certo, sventolerà ancora, decorerà ancora milioni di finestre delle nostre case, i nostri balconi, proprio come è accaduto, sorprendentemente, nel 2011.
Oggi il 2061 può apparirci lontano. Ma è un errore. Non è lontano. È il tempo dei nostri figli, dei nostri nipoti. L’Istat ha già pubblicato le previsioni demografiche fino al 2065. Conosciamo già i problemi dell’Italia del bicentenario e dei 63,5 milioni che abiteranno la penisola; la demografia, l’indice di vecchiaia, la scarsità di giovani di origine italiana, la necessità di integrare quel 23 per cento di popolazione che sarà straniera o di origine straniera, la necessità di impiegare l’intelligenza e l’esperienza degli anziani che saranno la maggioranza.
Cominciamo a prepararlo oggi, quel 2061! Perché può essere il punto di arrivo di un’Italia migliore, che ritrova il senso del tempo lungo per risolvere i suoi problemi profondi. Perché del tempo lungo, della capacità di progettare al di là dell’interesse personale, della nostra stessa vita individuale, abbiamo bisogno. Abbiamo la necessità di superare il tempo dell’individualismo sfrenato, del consumismo come orizzonte di senso, di ritrovare il radicamento nella comunità, perché solo in questa prospettiva possiamo evitare il destino di erosione del benessere, della ricchezza accumulata da generazioni, destino che è oggi ben presente alla mente di ciascuno. Possiamo affrontare i problemi di oggi e dei prossimi decenni senza essere una comunità? Senza essere prima di tutto una Nazione? Senza sentire la forza dentro di noi di un legame di fratellanza, senza il riferimento alla nostra storia? Io non lo credo.
Al 2061 giungeremo uniti, ancora stretti attorno alla nostra bandiera.
Ho maturato questa convinzione nel corso delle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, l’anniversario più povero della nostra storia, iniziato in sordina, accompagnato da disinteresse e scetticismo, dei media e delle autorità pubbliche e, piano piano, gradualmente, cresciuto dal basso, in silenzio, accompagnato come la natura nel disgelo dalla simpatia dei cittadini, quasi un’azione che prende corpo e all’improvviso si manifesta come una volontà collettiva.
L’Istituto Piepoli in un sondaggio realizzato dal 14 al 20 marzo 2011 ha calcolato che in quel momento sono stati appesi dagli italiani fuori delle loro abitazioni circa 13 milioni di Tricolori.
Che cosa volevano dire quelle bandiere? Nessuno aveva davvero detto loro di farlo. Non il Governo, che aveva deciso appena in tempo, solo 20 giorni prima, di dichiarare festa nazionale il 17 marzo, con un decreto legge davvero all’ultimo minuto. Certo, a Torino migliaia di bandiere erano state distribuite dal Comune, a Roma il sindaco aveva invitato i romani a esporre la bandiera, ma c’erano bandiere ovunque, nelle valli lombarde, in Veneto, in Sicilia, in Basilicata, in Sardegna. Ovunque.
Riflettiamo sul fatto che eravamo già in piena crisi economica e finanziaria. Che giungevamo al 150° dopo la gravissima recessione del 2008-2009.
Che cosa hanno voluto dirci quei semplici gesti? È una domanda che i cittadini hanno posto e continuano a porre alle loro istituzioni. In primo luogo, l’appendere la bandiera ai balconi, alle finestre, ci invita nei nostri comportamenti a cercare sempre di essere all’altezza del Tricolore.
È stato come se gli italiani sapessero che nel 1947 i Padri costituenti avevano iscritto il Tricolore italiano come «principio» nella prima parte della Costituzione, all’articolo 12. Non simbolo, ma principio costitutivo della Repubblica. È come dire che la Repubblica non esiste senza la Nazione e la storia che ne sono origine e fondamento.
Se vogliamo andare oltre il gesto in sé, gli italiani ci chiedono prima di tutto di parlare e di spiegare la crisi economica che stiamo vivendo in spirito di verità. In secondo luogo – di fronte alla crisi – ci chiedono di capire in quale direzione i sacrifici che vanno compiendo porteranno la nostra Nazione. Ci chiedono infine di spiegare meglio il nostro ruolo in Europa.
L’Italia era un Paese poverissimo al momento dell’unificazione. La situazione economica era drammaticamente peggiorata nei primi due decenni dell’Ottocento. L’aspettativa di vita era inferiore del 30 per cento alla media europea. L’agricoltura impiegava mezzi e metodi primitivi. Mancava l’energia. Il territorio, soprattutto al Sud, era privo di infrastrutture. Gli italiani vivevano e morivano nell’analfabetismo. Anche l’Italia appena unificata venne investita da una rivoluzione tecnologica e da una globalizzazione dei commerci. Non fu semplice reggere il mercato, per la navigazione italiana, per il tessile, la produzione di vino e di prodotti per i consumi di lusso mondiali, per le prime embrionali industrie. Lo sviluppo fu lento. Ma gli italiani avevano il desiderio di avanzare, di progredire, anno dopo anno.
Il progresso in questi 150 anni è stato enorme, ma non ha cancellato completamente il divario rispetto alle migliori performance europee. I livelli di infrastrutture, che qualche anno fa erano all’avanguardia, oggi sono obsolete e avrebbero necessità di un generale rilancio. Così come le nuove tecnologie: la banda larga oggi è una rete decisiva per la competitività del sistema. Nel 2009 i laureati nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni in Italia non superano il 15 per cento, contro una media europea del 30. E la situazione migliora troppo lentamente, se nelle fasce di età tra i 25 e i 34 anni, i laureati si collocano al 20 per cento contro una media Ocse del 37. Anche i diplomati sono ancora troppo pochi: il 54 per cento della popolazione adulta contro una media Ocse del 73!
Si possono affrontare i problemi di queste cinque decadi che abbiamo di fronte senza essere una Nazione, senza godere dei servizi e dell’azione di uno Stato ben funzionante? La risposta è no. Gli Stati nazionali europei, che si sono gradualmente costituiti o stabilizzati nel corso dell’Ottocento, rimangono – con i loro parlamenti, ma anche con i loro organismi di controllo della sovranità a livello comunitario – la base più forte di istituzioni democratiche salde, fondate sulla partecipazione attiva dei cittadini alla cosa pubblica. Le soluzioni alternative si sono rivelate fragili e insieme macchinose, e in fondo bisognose esse stesse – per esempio le istituzioni comunitarie – di una solida presenza degli Stati, dei popoli, della loro libera stampa, delle associazioni che qualificano il contesto etico, riducendo i rischi di derive oligarchiche. È ancora all’interno di comunità nazionali, sempre più aperte e integrate tra loro, che si riesce a sviluppare il dialogo, il dibattito, la riflessione, che si giunge talvolta, anche nei parlamenti, alla definizione di una volontà generale. Ce lo hanno detto i cittadini, in tempi recenti, con le loro sommesse proteste. Sono gli stessi che si sono indignati per l’assenza di solidarietà verso il popolo greco – che abbiamo visto attoniti precipitare nella disperazione –, assenza di solidarietà che si fonderà forse su qualche teoria economica antikeynesiana (di cui dovremo pur un giorno valutare i frutti), ma che ha messo a nudo un difetto di legittimazione, un vuoto, che rende più duro il passaggio di queste istituzioni europee verso una futura, nascente, nazionalità. La strada è ancora molto lunga. E quindi, potenziamo il nostro europeismo, interroghiamoci sugli elementi costitutivi dell’identità culturale e sociale europea, sugli elementi che ci uniscono, ma facciamolo tenendoci ben strette le nostre comunità nazionali, aperte, democratiche, solidali. Questo mi pare, in fondo, il senso di quei Tricolori alle finestre degli italiani.
È una forma culturale regressiva? Personalmente, ritengo di no. Anzi, penso che quel gesto manifesti la necessità di una nuova etica pubblica rivolta non al passato ma al futuro.
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo fare un percorso analitico all’interno dei meccanismi sociali di questi anni tracciati con dati precisi dal Censis. Ma per farlo mi pare opportuno viaggiare per un attimo con la macchina del tempo al momento in cui parte il processo rivoluzionario che noi ci ostiniamo a definire Risorgimento.
Quando il conte Santorre di Santa Rosa moriva ucciso da mercenari turchi nell’isola di Sfacteria l’8 maggio 1825, combattendo con le armi in pugno per la libertà greca, quando Giuseppe Mazzini a Marsiglia nel 1831 scriveva il testo del giuramento della Giovine Italia, ebbene il nostro Paese era precipitato nel punto più basso di una catastrofica crisi economica, succeduta alla scelta sciagurata di cancellare le formazioni statuali napoleoniche. Siamo abituati a leggere A Zacinto di Ugo Foscolo senza mai collegare il fatto che il capitano Foscolo dell’Esercito Italico aveva tentato di difendere l’integrità di quello Stato di filiazione francese, con capitale Milano, perché quello Stato aveva avviato progetti di opere pubbliche, infrastrutture, scuole, forme di impiego nell’amministrazione per la borghesia. Foscolo con alcuni giovani ufficiali tentò di organizzare un colpo di Stato, scongiurò inutilmente il viceré Eugenio di tenere alla mano il Tricolore e non abbandonare l’esercito, tentò anche di salvare, armi alla mano, il ministro delle Finanze Giuseppe Prina dal linciaggio – fu massacrato con le punte degli ombrelli il 20 aprile 1814 – al quale venne vergognosamente sottoposto dai borghesi milanesi, carbonari e federati, che aprirono le porte agli austriaci, immaginando di pagare meno tasse, e che tre anni dopo se ne sarebbero amaramente pentiti.
Ebbene, in quel tempo, il salario degli abitanti della penisola italiana era crollato a un livello pari alla metà di quello che avevano 50 anni prima, durante la stagione delle riforme settecentesche. Il Pil pro capite rispetto al 1750 era sceso del 15 per cento. I consumi rappresentavano il 90 per cento del prodotto! In ogni paesino si celebrava un funerale ogni quindici giorni. La mortalità totale annua era del 30 per mille. Tutta l’industria italiana prima dell’Unità non superava i mille piccoli opifici – filande per lo più – situati allo sbocco delle valli alpine. L’80 per cento del settore industriale fino all’unificazione apparteneva a rami merceologici per soddisfare bisogni primari – vestiario, mobilio, alimentazione. Ancora nel 1911 la meccanica non superava l’11 per cento del prodotto industriale complessivo. Per tutto il Diciannovesimo secolo l’agricoltura non riusciva – per carenza di tecnologie e di pratiche di coltivazione – a estendersi in collina oltre i 500 metri di altezza. Non vi era carbone. All’indomani del crollo napoleonico, in Italia servivano a ogni nucleo familiare 1,5 chili di legna al giorno per riscaldarsi. Le donne passavano gran parte del loro tempo a raccogliere legna che rimarrà il combustibile principale fino all’inizio del Novecento! Le carestie del 1764 e del 1771 avevano colpito le regioni settentrionali in modo talmente violento da produrre epidemie, morie di massa per inedia, emigrazione.
Il secolo del riscatto e della rivoluzione nazionale si sviluppò proprio dalla crescente consapevolezza della necessità di un organismo statale come strumento di modernizzazione del Paese. In questo senso l’azione dei due grandi avversari del nostro movimento nazionale – Mazzini e Cavour – fu in realtà convergente. In fondo, Cavour pensava che si dovesse fare l’Italia per fare le ferrovie, Mazzini che la si dovesse fare per costruire le scuole ed educare i giovani. Aver acceso la miccia della consapevolezza alla generazione postnapoleonica – creando la disponibilità alla lotta e al sacrificio personale – fu merito di Mazzini. Aver costruito il modello di Stato amministrativo, creando ministeri, organismi di controllo, diritto pubblico e amministrativo, fu merito di Cavour che finanziò con il debito tutto questo e una spesa militare pazzesca per un piccolo Stato regionale di 3,5 milioni di abitanti.
Come in un racconto labirintico in cui i sentieri si riannodano all’improvviso per divergere nuovamente, Giuseppe Mazzini, figlio del medico girondino (non giacobino) Giacomo è l’uomo che determina la svolta simbolica a favore del vecchio Tricolore, verde bianco rosso, che nel 1830 era un oggetto da reduci, soppiantato dal Tricolore carbonaro, rosso nero celeste, e da altre bandiere. È Mazzini che lo ripropone come simbolo della nazione volontaria, scopo della Giovine Italia. Cosa vuol dire volontaria? Che esisteva prima di esistere perché esisteva n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Prefazione di Giuliano Amato
  5. La riscoperta della patria
  6. Postfazione - Prefazione all’edizione Rizzoli 2008
  7. Appendice - Gli anniversari del 1911 e 1961
  8. Note
  9. Sommario