La messa non è finita
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La messa non è finita

  1. 238 pagine
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La messa non è finita

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"Perdonami se non ti ho mai chiesto se leggi fedelmente il Corano. Se hai bisogno di un luogo dove riassaporare i silenzi misteriosi della tua moschea", così si rivolge il vescovo Tonino Bello a un giovane musulmano sbarcato sulle coste pugliesi. La sua non è una semplice provocazione. Agli ultimi – immigrati, tossicodipendenti, ex detenuti, sfrattati – ha dedicato la sua intera esistenza: un vescovo che incontra sui marciapiedi un'umanità dolente e indifesa, che accoglie in episcopio i bisognosi e manifesta con chi ha perso il lavoro, ma anche un uomo innamorato della Parola di Dio. Al ladro ucciso in una rapina dice: "Siamo ladri anche noi perché, prima ancora che della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo". A molti non è gradito: dal pulpito e negli scritti indirizzati ai fedeli della diocesi come a illustri interlocutori usa parole sferzanti e punta il dito contro i potenti di turno richiamando la Chiesa al servizio dei poveri. Ma per don Tonino, formatosi alla scuola dei preti operai di Bologna e nel clima innovatore del Concilio Vaticano II, il vangelo è un messaggio rivoluzionario, che deve scardinarci dalle nostre comode certezze. Per anni si batte contro la guerra. E il 12 dicembre 1992 – pur provato da un cancro che di lì a poco lo porterà via – marcia per le strade di una Sarajevo assediata insieme a cinquecento persone, facendo tacere le armi. Con l'aiuto di Domenico Amato, che sta portando avanti la causa di beatificazione apertasi nel 2007, Gianni Di Santo ne ripercorre i passi e dà sostanza a una santità che tutti gli riconoscevano in vita e che si auspica, anche grazie al riconoscimento dei miracoli a lui attribuiti, ottenga presto il suggello della Chiesa. Perché mai come oggi abbiamo bisogno di santi ribelli che ci aprano gli occhi sulla nostra ipocrisia facendo nascere in noi la sete di una giustizia più vera.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
ISBN
9788858629048

1
L’ultimo abbraccio

A Molfetta è già sera. Un vento dolce di primavera accarezza i vicoli delle case dei pescatori e il profumo del mare riempie di aromi le salse e le fritture. Le strade sono deserte, la gente del Sud ama tornare a casa dopo il lavoro nei campi e nelle aziende. Anche l’episcopio, in pieno centro cittadino, viene raggiunto dal silenzio.
È il 18 marzo 1993. È il compleanno di don Tonino. Compie cinquantotto anni, monsignor Antonio Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, e alle «eccellenze» non è abituato. Dal primo ingresso in Molfetta ha voluto che lo chiamassero «don». Un appellativo in cui c’è tutta la sobrietà di uno stile di vita che ha segnato i suoi giorni. Dal Natale scorso non esce più di casa, un tumore allo stomaco se lo sta portando via. Chissà quanto gli deve essere costato, in termini di fatica fisica, il suo ultimo viaggio a Sarajevo compiuto a dicembre, con la Bibbia e la bandiera della pace in mano, sotto i bombardamenti e il tiro dei cecchini. Per un giorno, la piccola pattuglia di buona speranza partita con lui dal porto di Ancona verso il capoluogo bosniaco è riuscita a far tacere le armi con il sorriso. Non pensa ad altro in questi giorni di guerra e di tensioni internazionali: la sua diocesi, i giovani, le opere di solidarietà da lui avviate, la cultura della pace di cui si è fatto inflessibile testimone nell’alveo di una fede «della porta accanto» di cui fin dalla sua prima omelia da vescovo ha spiegato l’essenza. Credere in Dio, ha detto quel giorno don Tonino in una cattedrale immersa nel silenzio, «significa rifiutare gli idoli del potere, le suggestioni del denaro, il fascino delle ideologie. Significa andare contro corrente in un mondo che ogni tanto si popola di nuove divinità e obbliga a prostituirsi davanti a esse. Significa combattere i soprusi dei più forti, le violenze degli arroganti, le assolutizzazioni delle strutture. Significa contestare la logica della sopraffazione e dell’asservimento dell’uomo all’uomo».
A Molfetta non sono abituati a stare sui giornali. Eppure hanno dovuto cedere al rumore di una notorietà che ha attraversato per una decina d’anni quel piccolo spicchio d’Italia. Qui, a due passi da Bari, sono arrivati per la rituale Marcia della pace del 31 dicembre quattromila volti che gridavano «no alla guerra». Insieme a Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, a don Albino Bizzotto, altro audace attivista della cultura della nonviolenza, migliaia di credenti e agnostici, preti e atei, hanno camminato in rappresentanza di tutti coloro che non si arrendono all’ineluttabilità della guerra.
Se non ci fosse stata Molfetta nella vita di don Tonino non ci sarebbe stata neanche Sarajevo. In questa terra di sole e disoccupazione, sono nate lettere, proposte, appelli a favore della pace. Le parole del Vangelo hanno preso cittadinanza. Qui, nei pressi dell’episcopio e nelle strade della sua diocesi, don Tonino incontra un’umanità varia che ha il volto di fedi e colori diversi, di etnie ed emarginazioni diverse. Poveri, sfrattati, disoccupati e senzatetto trovano la porta di casa sempre aperta all’ascolto. Una Chiesa amica e solidale che è accanto ai poveri.
Don Tonino gira per le strade della città a piedi, negozio per negozio, vicolo per vicolo. Parla con i barboni alla stazione dei treni e la sua automobile, lasciata appositamente aperta nel parcheggio antistante l’episcopio, è rifugio sicuro per chiunque voglia ripararsi dal freddo e dalla pioggia.
È fatto così. L’auto con cui è arrivato a Molfetta nell’ottobre dell′82, una Fiat 500 blu, gliel’hanno rubata una sera, alla periferia della città. I ladri non sapevano che fosse del vescovo e quando lo hanno scoperto sono andati a chiedergli scusa, rammaricati perché non potevano rendergliela, ormai smontata pezzo per pezzo. «Non fa niente» ha risposto don Tonino ai ladri. «Semmai spiegatemi i motivi per cui l’avete rubata.»
È uno stile che si porterà dietro per tutta la vita. Sostituisce la 500 con una Ritmo blu che non ha mai usato, gliel’aveva comprata sua madre ed è sempre rimasta parcheggiata ad Alessano, il paese dove è nato.
Per don Tonino i poveri sono gli amici prescelti. Non solo a parole. Un anno, la notte di San Silvestro, decide di portare alcuni senzatetto al ristorante per festeggiare con loro. Sa che non è facile vincere le diffidenze della «brava gente». Dopo averli caricati in macchina e convinti a stare con lui, si presenta sulla soglia dei ristoranti con il suo carico di «dannati della Terra». Inutile sperare: la compagnia itinerante non trova posto a tavola, neppure con la promessa di pagare in anticipo. I clienti «bene» potrebbero scappare nel vedersi davanti quella ciurmaglia capitanata dal vescovo. Finché, alla fine, il miracolo accade e uno dei migliori ristoranti di Molfetta apre le porte non solo a don Tonino, ma anche a quella «strana» compagnia al seguito. Un’altra pagina di Vangelo dimenticata: i poveri al banchetto dei ricchi.
Per la gente è un santo. Per Massimo il ladro, Giuseppe l’avanzo di galera, Mario la guardia campestre, Mohamed il diverso, Maria e Giuseppe in cerca di alloggio, Gennaro l’ubriaco e il «fratello» marocchino è un amico. Conosce bene la dura quotidianità degli immigrati stretti in stanzoni fatiscenti, rifiutati da tutti. Va a trovarli nei loro tuguri in campagna e si prodiga per la loro accoglienza. La povertà è per lui pratica di vita e sperimenta di persona che cosa significhi chiedere l’elemosina: di ritorno da un convegno in una città del Nord, si ritrova da solo in aeroporto con poche lire in tasca, non sufficienti per comprare il biglietto. Facendosi forza, chiede aiuto a un distinto signore in giacca e cravatta, che però si rifiuta di dargli una mano. Così è costretto a tornare a casa con un treno regionale notturno.
Ai giovani insegna con l’esempio l’impegno portato fino in fondo, l’azione concreta per cambiare le cose: quando riceve delle offerte dal liceo classico di Molfetta, chiede alla preside il permesso di portare con sé due studenti per consegnare la somma ricevuta a una famiglia povera. E dopo essersi recato a Bari allo Stadio della Vittoria e aver visto lo scempio dei profughi albanesi ammassati come bestie, scrive: «c’è stato un momento in cui mi è sembrato di veder meglio: non quella turba indistinta, ma i volti, uno per uno, di quanti la compongono. Anzi, non proprio quei volti giovani, ma, al loro posto, quelli delle loro madri. Sì, per trasposizione, i volti di chi ha generato quelle persone; la figura delle loro madri gravide, anziché quella dei figli che materialmente erano sul molo ad arrostire. E ho pensato: chissà quante carezze su quei ventri, quante tenerezze a levigarne la rotondità, a rendere più bella la culla già accogliente di quell’umanità nuova; chissà quanti baci a benedire l’attesa; chissà quante parole gravide d’affetto sussurrate su quelle cupole, dette sottovoce ma non tanto da non farne arrivare l’eco nel ricettacolo più profondo; e chissà quante scommesse, e quante ambizioni, e quanti progetti sul frutto di quell’amore. E poi, che ne è stato? Lo scempio che abbiamo constatato! Già, spreco d’amore. Gemme sfogliate. Petali al vento. Ma non è giusto! Quella gente va amata: uno per uno; come se, di ciascuno, fossimo madre».
Da queste parti, don Tonino è già un santo. Lo sanno i bambini, ai quali il vescovo dedica sempre del tempo prezioso e la musica della sua fisarmonica. Lo pensano gli adulti, quelli che hanno perso il posto di lavoro, i barboni rimasti a volte a ripararsi sotto la tenda amica del «loro» don Tonino, i tossicodipendenti aiutati a uscire dall’incubo della droga, i giovani invogliati a coltivare speranze e a guardare lontano. E lo sa la gente semplice, come il barbiere Giuseppe, che ha ancora oggi la sua bottega nei pressi del porto: «Vedevo il nostro vescovo fare la fila come tutti gli altri per tagliarsi i capelli. E, andandosene via, mi regalava a volte centomila delle vecchie lire… “Per il resto non ti preoccupare: sarà per un’altra volta” e mi sorrideva».
Un santo, don Tonino, che con le sue scelte ha fatto indispettire i potenti di turno. Non è simpatico a qualche ministro. Il cardinale Poletti, presidente della Conferenza episcopale italiana, gli ha raccomandato di attenersi, nelle sue esternazioni pubbliche, ai soli argomenti di carattere pastorale. Ai notabili della città, e ai politici di professione, poi, il vescovo che si fa chiamare «don» proprio non va giù.
I piedi sulla strada e lo sguardo rivolto all’altare. Il tavolo da lavoro dove scrive lettere e compone discorsi e omelie l’ha sistemato nella cappella dell’episcopio per restare in compagnia dell’Eucaristia. Pensa e scrive davanti a Gesù. Il lavoro, l’impegno e il ministero trovano fondamento, slancio, comprensione, conforto e fiducia solo nell’Eucaristia. Da lì tutto parte, lì tutto converge. Eucaristia, Bibbia e preghiera sono il cibo spirituale di cui si alimenta.
Anche oggi che i suoi piedi non si muovono più. Don Tonino è sul letto, nella sua stanza all’interno dell’episcopio. La finestra dà sul cortile interno, dove si affacciano anche gli uffici della Curia. È accudito da due infermiere, una suora e una laica, e dai due fratelli, Trifone e Marcello, che gli stanno vicino ormai notte e giorno. Il suo cinquantottesimo compleanno don Tonino lo passa così, tra la preghiera e la santa messa quotidiana, alla quale non rinuncia mai. Niente festeggiamenti, le forze sono al minimo. Vicino al letto, alle pareti, ha fatto appendere le icone di Maria venerate nelle città della diocesi. Le fissa in attesa dell’ultimo respiro. Con Maria don Tonino ha un legame profondo, di venerazione infinita. Su Maria, «donna dei nostri giorni», ha scritto le pagine più belle.
A un tratto però il silenzio si interrompe. Dal cortile arriva un mormorio inconsueto. Prima dieci, poi trenta, poi ancora cento, infine più di duecento ragazzi fanno ressa per stare sotto la finestra del «loro» vescovo.
Sono i giovani di Molfetta. Con un tam-tam spontaneo e improvvisato, si sono dati appuntamento qui per salutare don Tonino e sono arrivati così, alla spicciolata. Le chitarre spuntano all’improvviso pronte a intonare gli accordi di un Tanti auguri a te cantato lì, nel cortile, all’aria aperta.
Marcello, il fratello medico, avverte con dolcezza don Tonino, che ha quarantadue di febbre:
«Tonino, ci sono dei ragazzi che vogliono salutarti».
E lui: «Falli salire!».
«Ma è impossibile! Sono tantissimi.»
«E allora andiamo noi» conclude don Tonino.
Lo prendono di peso e lo trasportano alla finestra che dà sul cortile. Gli porgono un megafono. La voce è un filo teso che racconta malattia e stanchezza. Quell’incontro inatteso con i giovani è come linfa vitale per il corpo devastato dal dolore. Con un ultimo sforzo inaspettato, sorretto dai fratelli, dà coraggio alla sua parola: «Vorrei mettermi ancora – chissà se il Signore mi darà la forza e la salute – non davanti a voi come capofila, e neppure dietro di voi, ma in mezzo a voi, insieme al popolo e cantare: “Freedom, oh freedom! Libertà!”».
Oh freedom, la canzone interpretata da Joan Baez, è il manifesto sonoro dei Beati i costruttori di pace. A don Tonino piace molto. Oh freedom, oh freedom, / Oh freedom over me. / And before I’ll be a slave, / I’ll be buried in my grave, / and go home to my Lord / and be free. No more weeping, / no more shooting, / there’ll be singing. Libertà, libertà. Andrò nella casa del Signore e sarò libero.
Chissà quante volte l’hanno cantata a Molfetta tutti quei giovani che grazie alle parole e all’esempio di don Tonino solcano nel mondo i sentieri difficili della pace.
Don Tonino, con il megafono in mano, continua il suo saluto, sapendo che è l’ultimo: «La libertà è un dono che dobbiamo implorare dal Signore perché tutti quanti i popoli della Terra siano felici. E noi dobbiamo essere protagonisti di questo rinnovamento culturale, di questo cambio di mentalità. Non dobbiamo stancarci, non dobbiamo demordere anche se le difficoltà sono tantissime… Vedete – non l’ho mai fatto pubblicamente – vorrei chiedere perdono a voi: il perdono per avervi sottratto qualche volta del tempo, con le mie uscite, quando sono andato fuori all’estero oppure in altre città d’Italia. Vorrei chiedervi perdono per questo tempo che ho sottratto all’impegno pastorale immediato, concreto. Però vi dico che tutto questo sacrificio ritorna, non solo come immagine, ma anche come ricchezza per la nostra diocesi e per la nostra città. Se io sono andato fuori a parlare di pace è perché qui mi sono sentito sollevare dal vostro entusiasmo. Se sono andato fuori a parlare di freedom-libertà è perché qui ho visto il bisogno dei poveri, la sofferenza di coloro che si trovano in difficoltà. Vi ringrazio tantissimo. Ho detto che vi chiedo perdono per questa sottrazione di tempo, però credo che la spesa sia stata fatta bene: non abbiamo investito inutilmente… Non abbiate paura di essere carichi di utopie, carichi di queste idealità purissime, soprattutto quelle che si rifanno ai grandi temi della pace, della giustizia, della solidarietà: sono temi che si stringono intorno a una parola: freedom».
Le parole sgorgano così, tutte d’un fiato. Non si è preparato nulla, eppure sembra che aspettasse da tempo questo canto di speranza. Un canto che ora intona come commiato. «Grazie per questa manifestazione di affetto. Ho detto che vorrei scendere per abbracciarvi a uno a uno. Comunque lo faccio ora con la voce. Vi stringo così, con tantissimo affetto, e vi voglio bene.»
c’è un vincolo forte che lega don Tonino ai giovani. Nei giorni del conflitto del Golfo, sul finire del 1990, sono stati soprattutto loro a raccogliere la fiaccola della pace e a portarla per le strade di Molfetta e tra le loro famiglie. Sono stati loro a veicolare con i volantini i messaggi censurati dalla grande stampa, come la lettera aperta indirizzata da don Tonino e dal senatore Raniero La Valle al presidente Cossiga per denunciare l’uso delle bombe al fosforo e per contestare l’intervento dell’esercito italiano nella guerra: gli studenti hanno ciclostilato il documento di propria iniziativa, distribuendolo nelle scuole e nelle piazze. A dicembre, poi, i ragazzi del liceo classico di Molfetta hanno organizzato manifestazioni di protesta accogliendo l’invito di Giovanni Paolo II a ripudiare la guerra, tragica «avventura senza ritorno». Decidono per un sit-in in piazza. Al vescovo chiedono una messa, ma in orario non scolastico. Don Tonino accetta volentieri. Qualche giorno prima una marcia ha attraversato il cuore della città, c’erano tutti gli studenti delle scuole superiori e molta gente comune. Alla testa del lungo serpentone camminavano il sindaco e il vescovo.
Il giorno del sit-in, i ragazzi fanno appena in tempo a finire la manifestazione che un temporale disperde i pochi di loro rimasti in piazza a protestare. L’appuntamento con il vescovo è per le 16, manca poco, ma in cattedrale ci saranno sì e no dieci persone. Il segretario consiglia a don Tonino di considerarsi dispensato dalla celebrazione. La risposta però è secca: «No, anche se sono due persone ho il dovere di dare la mia testimonianza». Fuori piove e Molfetta è deserta. Ma quando don Tonino entra nella Cattedrale una folla di giovani, che in pochissimi minuti si è assiepata tra i banchi della chiesa, incurante della pioggia battente, è lì che lo aspetta. Sono centinaia di studenti, provenienti anche da fuori Molfetta, che hanno voglia di ascoltare il «loro» don Tonino.
Il don Tonino che oggi, giovedì di Quaresima 18 marzo 1993, vogliono solo abbracciare.
Non cercano altro i ragazzi accampati nell’atrio dell’episcopio. Freedom, libertà. È il segnale che attendevano: è ora di far vibrare le corde delle chitarre. È il modo più bello per stare vicino al loro vescovo, per esprimergli simpatia, calore, rispetto, amicizia. La cantano a squarciagola Oh freedom di Joan Baez. Qualcuno piange.
E l’episcopio, per un attimo, si apre a un gioioso silenzio. Sembra l’anticamera del Paradiso.
Don Tonino ha trovato tanti seguaci nel suo cammino. Nonostante sia consapevole di quanto sia difficile realizzare la pace, non si è mai sentito uno sconfitto. Rivolgendosi a Mosè, in uno dei suoi scritti dedicati ai personaggi biblici, afferma: «Tu sei l’icona di tutti coloro che non entreranno mai nelle terre promesse che hanno additato agli altri come a portata di mano. Sei il simbolo, cioè, di tutti i profeti dalla carriera stroncata. Oggi, di questi profeti, ce ne sono tanti. Solo che spesso, a differenza di te, corrono il rischio di interpretare la stroncatura come fallimento». E così conclude: «Grazie, carissimo Mosè, per il dono dei tuoi occhi non ancora stanchi di scrutare e per la simbologia del tuo braccio non ancora pago di additare traguardi. Grazie, sì, per la lezione che ci hai impartito dalla cattedra del Sinai. Ma infinitamente più grazie per la lezione che ci hai offerto dalla cattedra del Nebo. Perché da quella cattedra sei sceso dopo quaranta giorni. Su questa, invece, ci sei rimasto per sempre. Come una statua di marmo, eretta alla speranza».

2
Un prete figlio del Sud

«Grazie terra mia, piccola e povera, che mi hai fatto nascere povero come te, ma che proprio per questo mi hai dato la ricchezza incomparabile di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli.
«Grazie culla tenerissima della mia infanzia, dove ho conosciuto sì le prime amarezze della vita, ma dove ho anche sperimentato le cose semplici e pulite di cui vivono gli umili: tepori di focolari nelle sere d’inverno, preghiere mormorate attorno alla tavola, sapore di pane (solo pane), profumi di campo e di bucato, interminabili veglie, all’aperto, nelle notti d’estate, in cui il racconto dei più vecchi si caricava di inesprimibili nostalgie e fermava per un poco i sogni dei più giovani.
«Grazie mio paese natale, perché facendomi innamorare di te, delle tue strade e delle tue case, delle tue viottole di campagna e dei tuoi palazzi austeri, dei meriggi assolati sulle tue piazze deserte e dei tuoi tramonti suggestivi dietro “i cianci”, delle tue bufere e delle tue inquietudini solenni contemplate dalla vasca, mi hai introdotto a innamorarmi di Dio, autore del creato.
«Grazie chiesa di Alessano, che mi hai partorito alla fede con il battesimo e mi hai corroborato con la cresima e mi hai nutrito con l’Eucaristia, e mi hai rigenerato con il sacramento del perdono, e sei stato il cenacolo della mia pentecoste sacerdotale.»
L’inno di ringraziamento che don Tonino offre alla sua terra natia il 31 ottobre 1982 nella chiesa madre di Alessano non è solo un atto di riconoscenza verso il suo popolo. Il giovane sacerdote che è stato ordinato vescovo il giorno prima, il 30 ottobre a Tricase, sa che il Sud, il Sud dei poveri, degli emarginati e degli sconfitti diventerà, attraverso le parole annunciate nel Vangelo, il luogo del riscatto, della consolazione e della speranza.
Il Salento dove nasce Antonio Bello è una terra desolata povera di tutto ma abbracciata dallo sconfinato orizzonte di un mare senza fondo e senza fine...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Prefazione, di Andrea Riccardi
  5. 1. L’ultimo abbraccio
  6. 2. Un prete figlio del Sud
  7. 3. Il Concilio Vaticano II da Roma a Tricase
  8. 4. Le Beatitudini e la strada
  9. 5. Maria, donna della porta accanto
  10. 6. A scuola da Sorella Povertà
  11. 7. La Chiesa del grembiule
  12. 8. Osare la pace
  13. 9. Contro i farisei della guerra
  14. 10. Sarajevo - l’utopia dei giusti si fa realtà
  15. 11. L’altare scomodo
  16. 12. Un santo dei nostri giorni
  17. Ringraziamenti
  18. Bibliografia
  19. Indice