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L’ultimo abbraccio
A Molfetta è già sera. Un vento dolce di primavera accarezza i vicoli delle case dei pescatori e il profumo del mare riempie di aromi le salse e le fritture. Le strade sono deserte, la gente del Sud ama tornare a casa dopo il lavoro nei campi e nelle aziende. Anche l’episcopio, in pieno centro cittadino, viene raggiunto dal silenzio.
È il 18 marzo 1993. È il compleanno di don Tonino. Compie cinquantotto anni, monsignor Antonio Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, e alle «eccellenze» non è abituato. Dal primo ingresso in Molfetta ha voluto che lo chiamassero «don». Un appellativo in cui c’è tutta la sobrietà di uno stile di vita che ha segnato i suoi giorni. Dal Natale scorso non esce più di casa, un tumore allo stomaco se lo sta portando via. Chissà quanto gli deve essere costato, in termini di fatica fisica, il suo ultimo viaggio a Sarajevo compiuto a dicembre, con la Bibbia e la bandiera della pace in mano, sotto i bombardamenti e il tiro dei cecchini. Per un giorno, la piccola pattuglia di buona speranza partita con lui dal porto di Ancona verso il capoluogo bosniaco è riuscita a far tacere le armi con il sorriso. Non pensa ad altro in questi giorni di guerra e di tensioni internazionali: la sua diocesi, i giovani, le opere di solidarietà da lui avviate, la cultura della pace di cui si è fatto inflessibile testimone nell’alveo di una fede «della porta accanto» di cui fin dalla sua prima omelia da vescovo ha spiegato l’essenza. Credere in Dio, ha detto quel giorno don Tonino in una cattedrale immersa nel silenzio, «significa rifiutare gli idoli del potere, le suggestioni del denaro, il fascino delle ideologie. Significa andare contro corrente in un mondo che ogni tanto si popola di nuove divinità e obbliga a prostituirsi davanti a esse. Significa combattere i soprusi dei più forti, le violenze degli arroganti, le assolutizzazioni delle strutture. Significa contestare la logica della sopraffazione e dell’asservimento dell’uomo all’uomo».
A Molfetta non sono abituati a stare sui giornali. Eppure hanno dovuto cedere al rumore di una notorietà che ha attraversato per una decina d’anni quel piccolo spicchio d’Italia. Qui, a due passi da Bari, sono arrivati per la rituale Marcia della pace del 31 dicembre quattromila volti che gridavano «no alla guerra». Insieme a Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, a don Albino Bizzotto, altro audace attivista della cultura della nonviolenza, migliaia di credenti e agnostici, preti e atei, hanno camminato in rappresentanza di tutti coloro che non si arrendono all’ineluttabilità della guerra.
Se non ci fosse stata Molfetta nella vita di don Tonino non ci sarebbe stata neanche Sarajevo. In questa terra di sole e disoccupazione, sono nate lettere, proposte, appelli a favore della pace. Le parole del Vangelo hanno preso cittadinanza. Qui, nei pressi dell’episcopio e nelle strade della sua diocesi, don Tonino incontra un’umanità varia che ha il volto di fedi e colori diversi, di etnie ed emarginazioni diverse. Poveri, sfrattati, disoccupati e senzatetto trovano la porta di casa sempre aperta all’ascolto. Una Chiesa amica e solidale che è accanto ai poveri.
Don Tonino gira per le strade della città a piedi, negozio per negozio, vicolo per vicolo. Parla con i barboni alla stazione dei treni e la sua automobile, lasciata appositamente aperta nel parcheggio antistante l’episcopio, è rifugio sicuro per chiunque voglia ripararsi dal freddo e dalla pioggia.
È fatto così. L’auto con cui è arrivato a Molfetta nell’ottobre dell′82, una Fiat 500 blu, gliel’hanno rubata una sera, alla periferia della città. I ladri non sapevano che fosse del vescovo e quando lo hanno scoperto sono andati a chiedergli scusa, rammaricati perché non potevano rendergliela, ormai smontata pezzo per pezzo. «Non fa niente» ha risposto don Tonino ai ladri. «Semmai spiegatemi i motivi per cui l’avete rubata.»
È uno stile che si porterà dietro per tutta la vita. Sostituisce la 500 con una Ritmo blu che non ha mai usato, gliel’aveva comprata sua madre ed è sempre rimasta parcheggiata ad Alessano, il paese dove è nato.
Per la gente è un santo. Per Massimo il ladro, Giuseppe l’avanzo di galera, Mario la guardia campestre, Mohamed il diverso, Maria e Giuseppe in cerca di alloggio, Gennaro l’ubriaco e il «fratello» marocchino è un amico. Conosce bene la dura quotidianità degli immigrati stretti in stanzoni fatiscenti, rifiutati da tutti. Va a trovarli nei loro tuguri in campagna e si prodiga per la loro accoglienza. La povertà è per lui pratica di vita e sperimenta di persona che cosa significhi chiedere l’elemosina: di ritorno da un convegno in una città del Nord, si ritrova da solo in aeroporto con poche lire in tasca, non sufficienti per comprare il biglietto. Facendosi forza, chiede aiuto a un distinto signore in giacca e cravatta, che però si rifiuta di dargli una mano. Così è costretto a tornare a casa con un treno regionale notturno.
Ai giovani insegna con l’esempio l’impegno portato fino in fondo, l’azione concreta per cambiare le cose: quando riceve delle offerte dal liceo classico di Molfetta, chiede alla preside il permesso di portare con sé due studenti per consegnare la somma ricevuta a una famiglia povera. E dopo essersi recato a Bari allo Stadio della Vittoria e aver visto lo scempio dei profughi albanesi ammassati come bestie, scrive: «c’è stato un momento in cui mi è sembrato di veder meglio: non quella turba indistinta, ma i volti, uno per uno, di quanti la compongono. Anzi, non proprio quei volti giovani, ma, al loro posto, quelli delle loro madri. Sì, per trasposizione, i volti di chi ha generato quelle persone; la figura delle loro madri gravide, anziché quella dei figli che materialmente erano sul molo ad arrostire. E ho pensato: chissà quante carezze su quei ventri, quante tenerezze a levigarne la rotondità, a rendere più bella la culla già accogliente di quell’umanità nuova; chissà quanti baci a benedire l’attesa; chissà quante parole gravide d’affetto sussurrate su quelle cupole, dette sottovoce ma non tanto da non farne arrivare l’eco nel ricettacolo più profondo; e chissà quante scommesse, e quante ambizioni, e quanti progetti sul frutto di quell’amore. E poi, che ne è stato? Lo scempio che abbiamo constatato! Già, spreco d’amore. Gemme sfogliate. Petali al vento. Ma non è giusto! Quella gente va amata: uno per uno; come se, di ciascuno, fossimo madre».
Un santo, don Tonino, che con le sue scelte ha fatto indispettire i potenti di turno. Non è simpatico a qualche ministro. Il cardinale Poletti, presidente della Conferenza episcopale italiana, gli ha raccomandato di attenersi, nelle sue esternazioni pubbliche, ai soli argomenti di carattere pastorale. Ai notabili della città, e ai politici di professione, poi, il vescovo che si fa chiamare «don» proprio non va giù.
I piedi sulla strada e lo sguardo rivolto all’altare. Il tavolo da lavoro dove scrive lettere e compone discorsi e omelie l’ha sistemato nella cappella dell’episcopio per restare in compagnia dell’Eucaristia. Pensa e scrive davanti a Gesù. Il lavoro, l’impegno e il ministero trovano fondamento, slancio, comprensione, conforto e fiducia solo nell’Eucaristia. Da lì tutto parte, lì tutto converge. Eucaristia, Bibbia e preghiera sono il cibo spirituale di cui si alimenta.
Anche oggi che i suoi piedi non si muovono più. Don Tonino è sul letto, nella sua stanza all’interno dell’episcopio. La finestra dà sul cortile interno, dove si affacciano anche gli uffici della Curia. È accudito da due infermiere, una suora e una laica, e dai due fratelli, Trifone e Marcello, che gli stanno vicino ormai notte e giorno. Il suo cinquantottesimo compleanno don Tonino lo passa così, tra la preghiera e la santa messa quotidiana, alla quale non rinuncia mai. Niente festeggiamenti, le forze sono al minimo. Vicino al letto, alle pareti, ha fatto appendere le icone di Maria venerate nelle città della diocesi. Le fissa in attesa dell’ultimo respiro. Con Maria don Tonino ha un legame profondo, di venerazione infinita. Su Maria, «donna dei nostri giorni», ha scritto le pagine più belle.
A un tratto però il silenzio si interrompe. Dal cortile arriva un mormorio inconsueto. Prima dieci, poi trenta, poi ancora cento, infine più di duecento ragazzi fanno ressa per stare sotto la finestra del «loro» vescovo.
Sono i giovani di Molfetta. Con un tam-tam spontaneo e improvvisato, si sono dati appuntamento qui per salutare don Tonino e sono arrivati così, alla spicciolata. Le chitarre spuntano all’improvviso pronte a intonare gli accordi di un Tanti auguri a te cantato lì, nel cortile, all’aria aperta.
Marcello, il fratello medico, avverte con dolcezza don Tonino, che ha quarantadue di febbre:
«Tonino, ci sono dei ragazzi che vogliono salutarti».
E lui: «Falli salire!».
«Ma è impossibile! Sono tantissimi.»
«E allora andiamo noi» conclude don Tonino.
Lo prendono di peso e lo trasportano alla finestra che dà sul cortile. Gli porgono un megafono. La voce è un filo teso che racconta malattia e stanchezza. Quell’incontro inatteso con i giovani è come linfa vitale per il corpo devastato dal dolore. Con un ultimo sforzo inaspettato, sorretto dai fratelli, dà coraggio alla sua parola: «Vorrei mettermi ancora – chissà se il Signore mi darà la forza e la salute – non davanti a voi come capofila, e neppure dietro di voi, ma in mezzo a voi, insieme al popolo e cantare: “Freedom, oh freedom! Libertà!”».
Oh freedom, la canzone interpretata da Joan Baez, è il manifesto sonoro dei Beati i costruttori di pace. A don Tonino piace molto. Oh freedom, oh freedom, / Oh freedom over me. / And before I’ll be a slave, / I’ll be buried in my grave, / and go home to my Lord / and be free. No more weeping, / no more shooting, / there’ll be singing. Libertà, libertà. Andrò nella casa del Signore e sarò libero.
Chissà quante volte l’hanno cantata a Molfetta tutti quei giovani che grazie alle parole e all’esempio di don Tonino solcano nel mondo i sentieri difficili della pace.
Le parole sgorgano così, tutte d’un fiato. Non si è preparato nulla, eppure sembra che aspettasse da tempo questo canto di speranza. Un canto che ora intona come commiato. «Grazie per questa manifestazione di affetto. Ho detto che vorrei scendere per abbracciarvi a uno a uno. Comunque lo faccio ora con la voce. Vi stringo così, con tantissimo affetto, e vi voglio bene.»
Il giorno del sit-in, i ragazzi fanno appena in tempo a finire la manifestazione che un temporale disperde i pochi di loro rimasti in piazza a protestare. L’appuntamento con il vescovo è per le 16, manca poco, ma in cattedrale ci saranno sì e no dieci persone. Il segretario consiglia a don Tonino di considerarsi dispensato dalla celebrazione. La risposta però è secca: «No, anche se sono due persone ho il dovere di dare la mia testimonianza». Fuori piove e Molfetta è deserta. Ma quando don Tonino entra nella Cattedrale una folla di giovani, che in pochissimi minuti si è assiepata tra i banchi della chiesa, incurante della pioggia battente, è lì che lo aspetta. Sono centinaia di studenti, provenienti anche da fuori Molfetta, che hanno voglia di ascoltare il «loro» don Tonino.
Il don Tonino che oggi, giovedì di Quaresima 18 marzo 1993, vogliono solo abbracciare.
Non cercano altro i ragazzi accampati nell’atrio dell’episcopio. Freedom, libertà. È il segnale che attendevano: è ora di far vibrare le corde delle chitarre. È il modo più bello per stare vicino al loro vescovo, per esprimergli simpatia, calore, rispetto, amicizia. La cantano a squarciagola Oh freedom di Joan Baez. Qualcuno piange.
E l’episcopio, per un attimo, si apre a un gioioso silenzio. Sembra l’anticamera del Paradiso.
2
Un prete figlio del Sud
«Grazie terra mia, piccola e povera, che mi hai fatto nascere povero come te, ma che proprio per questo mi hai dato la ricchezza incomparabile di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli.
«Grazie culla tenerissima della mia infanzia, dove ho conosciuto sì le prime amarezze della vita, ma dove ho anche sperimentato le cose semplici e pulite di cui vivono gli umili: tepori di focolari nelle sere d’inverno, preghiere mormorate attorno alla tavola, sapore di pane (solo pane), profumi di campo e di bucato, interminabili veglie, all’aperto, nelle notti d’estate, in cui il racconto dei più vecchi si caricava di inesprimibili nostalgie e fermava per un poco i sogni dei più giovani.
«Grazie mio paese natale, perché facendomi innamorare di te, delle tue strade e delle tue case, delle tue viottole di campagna e dei tuoi palazzi austeri, dei meriggi assolati sulle tue piazze deserte e dei tuoi tramonti suggestivi dietro “i cianci”, delle tue bufere e delle tue inquietudini solenni contemplate dalla vasca, mi hai introdotto a innamorarmi di Dio, autore del creato.
«Grazie chiesa di Alessano, che mi hai partorito alla fede con il battesimo e mi hai corroborato con la cresima e mi hai nutrito con l’Eucaristia, e mi hai rigenerato con il sacramento del perdono, e sei stato il cenacolo della mia pentecoste sacerdotale.»
L’inno di ringraziamento che don Tonino offre alla sua terra natia il 31 ottobre 1982 nella chiesa madre di Alessano non è solo un atto di riconoscenza verso il suo popolo. Il giovane sacerdote che è stato ordinato vescovo il giorno prima, il 30 ottobre a Tricase, sa che il Sud, il Sud dei poveri, degli emarginati e degli sconfitti diventerà, attraverso le parole annunciate nel Vangelo, il luogo del riscatto, della consolazione e della speranza.
Il Salento dove nasce Antonio Bello è una terra desolata povera di tutto ma abbracciata dallo sconfinato orizzonte di un mare senza fondo e senza fine...