I racconti
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I racconti

  1. 640 pagine
  2. Italian
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I racconti

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Sono soltanto letteratura, e non posso né voglio essere altro." È con questa incrollabile consapevolezza che Franz Kafka intraprende il suo "vagabondaggio nelle foreste dell'età virile", un viaggio che lo porterà alle vette della Metamorfosi e del Castello, ma che lo condurrà anche alla stesura di una serie di testi narrativi – brevi storie, favole, parabole, metafore – che, tra il 1904 e il 1923, affiancheranno e arricchiranno la sua produzione maggiore. Palcoscenici narrativi mutevoli e labili, nei quali si muovono tanti "nessuno", scialbi impiegati o commessi viaggiatori, impacciati e fragili, in balia dei propri dubbi di fronte a una realtà bloccata e inestricabile. La ricca antologia, curata e tradotta da Giulio Schiavoni, che dà conto anche delle diverse stesure di alcuni racconti, è arricchita da apparati aggiornati ai più recenti studi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858631942
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

AVVERTENZA

La presente edizione italiana de I racconti di Franz Kafka riproduce sostanzialmente le Sämtliche Erzählungen a cura di Paul Raabe (S. Fischer, Frankfurt a.M., 1970), di cui rispetta l’impianto, non cronologico, ma rispondente alla seguente tripartizione:
  • I) le raccolte di racconti pubblicate da Kafka medesimo;
  • II) i racconti pubblicati separatamente e non ripresi da Kafka in un unico volume;
  • III) i racconti pubblicati postumi, rinvenuti da Max Brod fra le carte di Kafka.
Occorre precisare che per «racconti» vengono qui intesi quei brani in prosa indicati come tali sia da Kafka stesso, sia nelle pubblicazioni postume, senza tuttavia dimenticare che il genere del racconto è applicabile alla produzione kafkiana «soltanto in maniera insoddisfacente, in quanto, a rigore, vi andrebbero aggiunte forme narrative come la favola, la parabola o la metafora» (P. Raabe, in F. Kafka, Sämtliche Erzählugen, cit., p. 389) e che, d’altro canto, non appare perfettamente adeguato neppure il concetto di «prosa», perché in questo caso andrebbero aggiunti alla presente antologia anche gli aforismi, i «Quaderni», i vari frammenti da quaderni e fogli sparsi, di cui il lettore italiano già dispone nelle Confessioni e diari kafkiani (Mondadori, Milano, 1976) e negli Aforismi e frammenti (BUR, Milano, 2004).
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All’edizione francofortese del 1970 si è tuttavia ritenuto doveroso apportare un’integrazione significativa: quella concernente la Descrizione di una lotta, l’unica opera postuma completa di Kafka, della quale (per la prima volta in Italia) vengono presentate in parallelo le due stesure pervenuteci. A tale proposito ci si è attenuti in linea di massima all’edizione a cura di Ludwig Dietz (Beschreibung eines Kampfes. Die zwei Fassungen. Parallelausgabe nach den Handschriften, S. Fischer, Frankfurt a.M., 1969). Sulla composizione delle due stesure della Descrizione di una lotta si vedano anche le recenti considerazioni di Malcom Pasley in F. Kafka, Nachgelassene Schriften und Fragmente I, Apparatband, S. Fischer, Frankfurt a.M., 1993, p. 52 sgg.

La datazione dei singoli racconti (indicata fra parentesi sotto il titolo) è quella inerente alla loro composizione, per la quale ci si è attenuti alle indicazioni di Hartmut Binder, Kafka-Kommentar zu sämtlichen Erzählungen, Miinchen, 1975.

GIULIO SCHIAVONI

I

VOLUMI PUBBLICATI DALL’AUTORE

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1. CONTEMPLAZIONE

(Lipsia 1913)

RAGAZZI SULLA STRADA MAESTRA

(1903-1904)

Sentivo le carrozze transitare dinanzi al cancello del giardino, e ogni tanto le intravedevo anche, di tra gli squarci del fogliame debolmente agitato dal vento. Come cigolava il legno dei loro raggi e timoni, in quell’estate così afosa! C’erano braccianti che tornavano dai campi e che ridevano in maniera invereconda.
Io sedevo sulla nostra piccola altalena; mi stavo riposando, fra gli alberi, nel giardino dei miei.
C’era un gran viavai oltre il cancello. Alcuni bambini eran passati di corsa e scomparsi in un baleno; dei carri di frumento, con uomini e donne appollaiati sopra i covoni e sulle sponde, proiettavano un’ombra scura sulle aiuole; verso sera, scorsi un signore con il bastone passeggiare flemmatico, e due ragazze, che gli andavano incontro tenendosi a braccetto, salutarlo e quindi trarsi da parte, inoltrandosi sul ciglio erboso.
Poi, come uno sciame di faville, uno stormo d’uccelli si levò in volo; io li seguii con lo sguardo, li vidi impennarsi e salire di colpo, finché credetti che non fossero più loro a salire quanto piuttosto io a cadere; e tenendomi ben saldo alle corde cominciai a lasciarmi andare un pochino, per inerzia, secondando il ritmo dell’altalena. Di lì a poco mi dondolai con più vigore, mentre l’aria già spirava più fresca, e al posto degli uccelli in volo fecero capolino le tremule stelle.
Mi servivano cena al lume di candela. Spesso appoggiavo entrambi i gomiti sulla tavola e, già stanco, affondavo i denti nel mio pane imburrato. Le tende dai larghi ricami si arcuavano nel vento caldo, e a volte qualcuno che passava per la strada le tratteneva con la mano, se voleva vedermi meglio e chiacchierare con me. Di solito la candela si spegneva quasi subito, e le zanzare che le si eran addensate tutt’intorno continuavano ancora un po’ a ronzare, tutte assieme, nel suo fumo nerastro. Se dalla finestra qualcuno mi interpellava, io lo guardavo come se fissassi i monti o semplicemente il vuoto, e neppure lui sembrava avere interesse a una risposta.
Se poi qualcuno scavalcando il davanzale della finestra mi avvertiva che gli altri eran già davanti casa, allora naturalmente mi alzavo, con un sospiro.
«Non fare così! Perché sospiri a questo modo? Ma cosa è successo? Forse qualche grossa disgrazia alla quale non si potrà più rimediare? Non potremo mai venirne fuori? È proprio tutto perduto?»
Niente era perduto. Correvamo davanti alla casa. «Eccovi finalmente, grazie a Dio!» «Sei tu che arrivi sempre in ritardo!» «Come, io?» «Sì, proprio tu. Se non ti va di venire con noi, restatene a casa!» «Non voglio commiserazione!» «Come sarebbe: non voglio commiserazione? Ma come parli?»
Trafiggevamo la sera con la testa. Non v’era giorno e non v’era notte. Per un attimo, i bottoni dei nostri panciotti si urtavano fra loro come denti; un attimo dopo correvamo tenendoci sempre alla medesima distanza, con il fuoco in bocca, come animali tropicali. Simili ai corazzieri delle guerre antiche, battendo i piedi in terra e sollevando le teste in aria ci incalzavamo a vicenda giù per il breve vicolo, e con tale rincorsa nelle gambe risalivamo su fino alla strada maestra. Alcuni entravano soli soletti nei fossati che costeggiavano la strada, ma non facevano in tempo a sparire dietro la scarpata buia che già riapparivano, come tanti sconosciuti, su in alto lungo il sentiero di campagna e guardavan giù nella nostra direzione.
«Scendete giù!» «Salite voialtri!» «Nemmeno per idea, altrimenti ci buttate di sotto, ci vuol poco a capirlo!» «Dite piuttosto che siete dei fifoni. Su, provate a salire, provate!» «Davvero? E sareste proprio voi quelli che ci ributteranno giù? Con quelle facce!»
Si partiva allora all’assalto. Venivamo colpiti al petto, e ci buttavamo sull’erba del fossato, cadendo di nostra spontanea volontà. Da tutto promanava un identico tepore; sull’erba non si avvertiva né caldo né freddo; solo la stanchezza s’impadroniva di noi.
Per poco che ci si girava sul fianco destro e si metteva la mano sotto l’orecchio, veniva voglia di addormentarsi. Ci si sarebbe voluti rialzare, naturalmente, con il mento in avanti, ma soltanto per cadere in un fosso ancor più profondo. Allora ci si sarebbe voluti lanciare nel vuoto tenendo il braccio obliquo e le gambe ripiegate, scattanti, per finire senz’altro in un fosso ancora più profondo. E si sarebbe andati avanti così, senza più smettere.
Non si pensava ancora per nulla a come ci si sarebbe stesi per dormire sul serio nell’ultimo fosso tenendo completamente allungate specialmente le ginocchia, e ci si distendeva sul dorso, come dei malati, e con le lacrime pronte a sgorgare da un momento all’altro. Si serravano gli occhi se qualche ragazzo, con i gomiti stretti ai fianchi e mostrando le suole scure, saltava dalla scarpata nella strada proprio sopra di noi.
Si scorgeva già la luna, piuttosto alta; al suo chiarore vedemmo passare di fronte a noi la vettura postale. Tutt’intorno, debole, si levò il vento; lo si sentiva fin nel fossato, e il bosco lì accanto cominciò a stormire. Allora a nessuno piaceva più tanto restar solo.
«Dove siete finiti?» «Venite qui!» «Tutti insieme!» «Cosa ti nascondi a fare? Lascia perdere queste sciocchezze!» «Non sapete che la posta è già passata? «Ma no! Già passata?» «Certo: è passata mentre tu dormivi.» «Io ho dormito? Ma non è possibile!» «Stai zitto! Te lo si legge scritto in faccia.» «Ma fammi il piacere!» «Venite!»
Allora correvamo tutti assieme più compatti; alcuni si tendevano la mano, senza riuscire però a tenere la testa abbastanza sollevata, perché si era in discesa. Uno di noi lanciò un grido di guerra indiano; ci sentimmo in corpo un’incredibile voglia di galoppare e, mentre saltavamo, il vento turbinava ai fianchi. Nulla avrebbe potuto fermarci; eravamo talmente lanciati che potevamo incrociare le braccia e guardarci tranquillamente tutt’intorno mentre ci sorpassavamo.
Ci fermammo sul ponte sopra il torrente; quelli che eran corsi più avanti fecero dietro front. Lì sotto, l’acqua percuoteva pietre e radici, come se non fosse già stata sera inoltrata. Nulla impediva che qualcuno di noi saltasse sul parapetto del ponte.
Da dietro i cespugli, in lontananza, sbucò fuori un treno; tutte le carrozze erano illuminate; i finestrini naturalmente dovevano esser stati abbassati. Uno di noi cominciò a cantare un motivo da osteria, e tutti cercammo di unirci al suo canto. Gorgheggiavamo molto più spediti della velocità del treno, dondolavamo le braccia perché la voce non era sufficiente, e le nostre voci producevano una confusione che ci procurava un lieto benessere. Quando si mescola la propria voce a quella di altri è come esser presi a un amo.
Così lanciammo il nostro canto, con il bosco alle nostre spalle, incontro ai viaggiatori lontani. In paese, gli adulti restavano ancora svegli, mentre le mamme preparavano i letti per la notte.
Era già tempo di andare. Diedi un bacio a chi mi stava accanto, mi limitai a dar la mano ai tre più vicini, rifeci di corsa la strada da cui ero venuto; non mi chiamò nessuno. Al primo crocevia, dove non potevano più vedermi, svoltai e, passando per i sentieri fra i campi, corsi di nuovo nel bosco. Mi ripromettevo di andare in quella città del sud di cui, in paese, si diceva:
«Laggiù sì che c’è gente! Pensate! Quelli lì non dormono!»
«E perché non dormono?»
«Perché non si stancano.»
«E come fanno a non stancarsi?»
«Perché sono folli.»
«E chi ha la follia non si stanca?»
«Come potrebbero stancarsi i folli?»

COME SBUGIARDARE UN IMBROGLIONE

(Autunno 1911 - Inverno 1911-12)

Riuscii finalmente ad arrivare, verso le dieci di sera, dinanzi al superbo palazzo in cui ero invitato a una festa, senza riuscire a sbarazzarmi di un tizio che finora conoscevo solo superficialmente ma che stavolta mi si era appiccicato di nuovo all’improvviso e mi aveva trascinato per i vicoli per ben due ore.
«Eccomi a destinazione!», dissi battendo le mani come per fargli capire che bisognava assolutamente che ci separassimo. In precedenza avevo già fatto vari altri tentativi meno risoluti. Adesso m’ero proprio seccato.
«Sale subito?», domandò lui. E nella sua bocca sentii come il rumore di denti che venissero battuti l’un contro l’altro.
«Sì.»
Ero stato invitato, gliel’avevo detto sin dal primo momento. Ma ero stato invitato a salire in un luogo dove avrei già tanto volentieri voluto essere, e non a restarmene giù dinanzi al portone e guardare oltre le orecchie del mio seccatore. E per giunta adesso mi toccava restar muto in sua compagnia, come se fossimo decisi a passar chissà quanto tempo in quel luogo. Persino le case tutt’intorno e l’oscurità che le sovrastava, su su fino alle stelle, partecipavano di quel silenzio. E i passi degli invisibili pedoni di cui non si desiderava per nulla indovinare la destinazione, il vento che continuava sempre a riversarsi contro il lato opposto della strada, un grammofono che cantava dietro finestre chiuse di non so quale stanza... si facevano sentire in quel silenzio come se esso fosse loro appartenuto da sempre e per sempre.
E il mio accompagnatore si sottomise a nome suo e — dopo aver sorriso — anche a nome mio, portò il braccio destro lungo il muro e, socchiudendo gli occhi, vi appoggiò la faccia.
Però non riuscii a reggere sino alla fine quel suo sorriso, poiché la vergogna mi fece girare di scatto. Solo da quel suo sorriso m’ero accorto che si trattava di un imbroglione e null’altro. E pensare che mi trovavo in città già da diversi mesi, mi pareva di riuscire a cogliere al volo gli imbroglioni come lui, quando essi ci vengono incontro, di notte, dalle viuzze, con le mani tese in avanti come degli osti, quando si aggirano attorno alle colonne della pubblicità accanto alle quali ci siamo fermati, quasi volessero giocare a nascondersi, e quando spiano — anche solo con un occhio — da dietro la colonna, oppure quando agli incroci che ci vedono esitanti essi all’improvviso ci compaiono dinanzi all’angolo del marciapiede! Io li capivo così bene! Eran stati proprio loro le prime conoscenze cittadine che avevo fatto nelle piccole osterie, e io dovevo proprio a loro la prima nozione di una testardaggine che adesso non potevo più ritenere estranea, in quanto cominciavo già a provarla io stesso. Come ce li si trovava dinanzi, anche quando si era già riusciti a sfuggir loro da un bel pezzo, quando cioè loro non avevan ormai più nulla da acciuffare! Non si sedevano mai; mai che cadessero; e invece ti scrutavano con sguardi che convincevano sempre, per quanto lontani essi fossero! E usavano sempre gli stessi trucchi: ci si piazzavano davanti, occupando più spazio possibile; cercavano di tenerci lontani da dove volevamo andare; in cambio, ci preparavano un rifugio nel proprio cuore, e se alla fine i sentimenti che s’erano accumulati in noi si ribellavano, essi scambiavano questa nostra ribellione per un abbraccio nel quale si buttavano a capofitto.
Stavolta però avevo riconosciuto quei vecchi giochetti solo dopo esser rimasto assieme a lui per un bel pezzo. Mi ferii le punte delle dita a furia di fregarle le une contro le altre, per cancellare la vergogna.
Il mio tipo però continuava a restarsene appoggiato contro il muro; si considerava ancora adesso un acchiappagonzi, e la gioia gli arrossava la guancia ben visibile.
«Ti ho scoperto!», dissi dandogli un lieve colpo sulla spalla. Poi in fretta salii su per lo scalone, e lassù nell’anticamera i visi tanto superfluamente fidati della servitù mi allietarono al pari di una lieta sorpresa. Li fissai uno alla volta tutti quanti, quei servitori, mentre mi sfilavano il soprabito e mi spolveravano gli stivali. Dopodiché entrai impettito nel salone traendo un lungo respiro.

LA PASSEGGIATA IMPROVVISA

(5 gennaio 1912)

Quando, alla sera, si direbbe che ci si sia decisi definitivamente a restare a casa, ci si è messi in veste da camera e, dopo cena, ci si siede al tavolo illuminato e ci si è dedicati a un lavoro o a qualche gioco, terminato il quale solitamente si va a letto, quando fuori c’è un tempo dispettoso che rende naturale il restare a casa, quando ormai si è rimasti immobili al tavolo talmente a lungo che l’uscire dovrebbe suscitare in tutti una certa sorpresa, quando ormai anche le scale son buie e il portone è sprangato, se ora nonostante tutto questo ci si alza in piedi presi da un improvviso malessere, ci si cambia la giacca, ci si mostra presto agghindati per il passeggio dicendo di dover uscire, ed effettivamente si esce dopo un breve saluto credendo di lasciar alle proprie spalle un’irritazione maggiore o minore a seconda della rapidità con cui si è sbattuta la porta, quando ci si ritrova per via con le membra che rispondono con una scioltezza tutta nuova a questa libertà ormai inattesa loro procurata, quando quest’unica decisione sente di avere in sé raccolta la capacità di giungere a qualsiasi altra decisione, quando ci si avvede con più chiarezza del solito di possedere, più che il bisogno, la forza di sopportare facilmente il mutamento più repentino, e quando si percorrono così le lunghe vie: allora, per questa sera, si è usciti totalmente dalla propria famiglia, la quale finisce per risultarci priva di esistenza reale, mentre noi ci eleviamo solidissimi e ci stagliamo in netti contorni, battendo con le mani le cosce, fino a trovare la nostra forma vera.
Tutto ciò diviene ancora più intenso se, a quest’ora tarda, si va a trovare un amico, per vedere com’egli stia.

RISOLUZIONI

(5 febbraio 1912)

Risollevarsi da una situazione sgradevole non dev’esser difficile, anche se occorre uno sforzo di volontà. Mi alzo di scatto dalla poltrona, faccio di corsa un giro intorno al tavolo, metto in tensione la mia testa e il mio collo, faccio fiammeggiare i miei occhi, tendo i muscoli tutt’intorno ad essi. Cerco di frenare qualsiasi sentimento, saluto calorosamente A. che arriva in quest’istante, tollero gentilmente B. in camera mia, mando giù a grandi sorsate tutto quel che vien detto in casa di C., per quanto sia doloroso e faticoso.
Ma benché le cose vadano a questo modo, qualsiasi inevitabile errore comprometterà sia le cose facili che quelle complicate, e io mi troverò a dovermi rigirare sempre nelle vecchie faccende.
Per questo il miglior consiglio è sempre quello di accettare qualunque cosa, di comportarsi come una massa pesante, e, quand’anche ci si dovesse sentir trascinar via dal vento, di non lasciarsi andare a passi non richiesti, di guardare gli altri con sguardo ferino, di non provare pentimento alcuno; in breve: di cancellare di proprio pugno quel che ancora rimane della vita nei suoi aspetti spettrali, vale a dire di aumentare ancor più la quiete estrema del sepolcro e di non lasciar più esistere altro che quella.
Passarsi il mignolo sulle sopracciglia è proprio il gesto emblematico di una condizione di tal genere.

LA GITA IN MONTAGNA

(1903-1904)

«Non so», esclamai quasi senza voce, «non so proprio. Se non viene nessuno, beh, allora proprio non viene nessuno. Non ho fatto del male a nessuno e nessuno ne ha fatto a me, però nessuno vuole aiutarmi. Proprio nessuno. Eppure non è esattamente così. Solo che nessuno mi aiuta, altrimenti qualche Nessuno sarebbe carino, Farei proprio di gusto, perché no?, una gita in compagnia di tanti "nessuno". Ovviamente in montagna; dove altrimenti? Come si accalcano tutti questi nessuno, tutte queste braccia protese obliquamente o intrecciate, tutti questi piedi, separati da passi brevissimi! Ovviamente tutti in frac! Camminiamo così, spensierati; il vento penetra attraverso gli spiragli lasciati liberi da noi e dalle nostre masse. Le gole riacquistano la libertà, su in montagna! È un miracolo che non ci mettiamo a cantare.»

LA SVENTURA DELLO SCAPOLO

(14 novembre 1911)

Pare cosa tanto grave restar scapoli, dover pregare di farsi ospitare quando si è vecchi, mantenendo a fatica la propria dignità, se si vuol passare una serata in compagnia, esser malati e contemplare per settimane e settimane da un angolo del proprio letto la stanza vuota, congedarsi sempre davanti al portone, non poter mai salir su per le scale al fianco della propria consorte, avere nella propria camera soltanto porte laterali che conducono in appartamenti estranei, doversi comperare e portare a casa la cena, dover ammirare i bambini altrui e non poter ripetere in continuazione: «Io non ne ho nessuno», conformarsi nell’aspetto e nel contegno a uno o due scapoli conosciuti in gioventù. Così sarà; soltanto che in realtà, oggi e in seguito, si resterà lì in carne e ossa, con un corpo e una testa reali, e quindi anche con una fronte fatta apposta per esser percossa dalla propria mano.

IL BOTTEGAIO

(1907)

Può darsi che alcuni mi ritengano un essere da compatire, io però non me ne accorgo neppure. Il mio negozietto mi riempie di tali e tante preoccupazioni da causarmi l’emicrania e da darmi delle fitte alle tempie senza profilarmi alcuna soddisfazione, poiché il mio negozio è modesto.
Con ore di anticipo devo esporre le merci, rinfrescar la memoria del commesso, dirgli di non cadere negli errori che temo lui possa commettere e, in una determinata stagione, devo prevedere la moda di quella successiva: quella che si affermerà non nelle persone del mio giro, ma tra la gente a me sconosciuta della campagna.
Le mie sostanze sono in mano di estranei; non mi è dato di conoscerne con chiarezza lo stato; né posso immaginare la sfortuna che potrebbe colpirle; come fare per impedirla? Magari costoro si son messi a scialacquare, e nel giardino di una trattoria danno una festa alla quale intervengono, solo per poco, alcuni altri pronti a scappare in America.
E quando, al termine di un giorno lavorativo, si chiude il negozio e all’improvviso ho davanti a me alcune ore in cui non riuscirò a combinare nulla per via degli impegni continui del mio commercio, allora l’agitazione che già tanto s’era fatta sentire sin dal mattino si riversa su di me come il rifluire di una marea, senza però fermarsi su di me, ma trascinandomi via con sé, senza mèta.
Eppure non so proprio cosa fare di questo stato d’animo, e tutto quel che riesco a combinare è solo di andarmene a casa perché ho la faccia e le mani luride e sudate, i vestiti imbrattati e polverosi, in testa il berretto che metto in negozio, e le scarpe tutte graffiate dai chiodi delle casse. Allora, come trascinato dalle onde, faccio schioccare le dita di ambo le mani, e sfioro i capelli dei bambini che mi si fanno incontro.
Però ho poca strada da fare. In un attimo sono a casa, apro la porta dell’ascensore, e mi ci infilo dentro.
Mi accorgo a questo punto e improvvisamente di essere solo. Altri, costretti a salire le scale a piedi, si stancano un pochino, devono attendere ansimando che qualcuno venga ad aprir loro la porta di casa, e questo dà loro occasione di irritarsi e di spazientirsi; poi entrano nell’ingresso, dove appendono il cappello, e soltanto quando son giunti in camera loro dopo esser passati per il corridoio, davanti ad alcune porte a vetri, sono soli.
Io invece son sùbito solo già in ascensore, e chinandomi sulle ginocchia mi guardo al misero specchio. Quando l’ascensore comincia a salire, io dico:
«State quieti! Fatevi indietro! Volete sistemarvi all’ombra degli alberi, dietro i drappeggi delle finestre, nel pergolato?».
Parlo a denti stretti, e le ringhiere delle scale scivolano via, lungo i vetri opachi, come uno scroscio d’acqua.
«Volatevene via; le vostre ali, che non ho mai veduto, possano condurvi in una valle sperduta o magari anche a Parigi, se è là che bramate andare!
Però vi godete la veduta delle vostre finestre quando delle processioni di gente arrivano da tutte e tre le stra...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sul far della sera. Come raccontare, comprendere, vivere
  4. CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
  5. BIBLIOGRAFIA
  6. TESTIMONIANZE E GIUDIZI CRITICI
  7. I RACCONTI
  8. APPENDICE
  9. NOTE SULLA COMPOSIZIONE E LA PUBBLICAZIONE DEI SINGOLI TESTI