BIBLIOTECA DELLO SPIRITO CRISTIANO
Una nota dominante del metodo educativo di don Luigi Giussani (1922-2005) e della sua passione perché tutti potessero fare un cammino umano è stata l’invito a leggere libri che erano stati decisivi per la sua formazione personale. Le sue indicazioni dettero origine nel 1993 alla collana I libri dello spirito cristiano, da lui diretta fino al 2005 e proseguita fino al 2009 sotto la direzione di don Julián Carrón, all’interno della quale questo testo è stato pubblicato per la prima volta nel 1997.
La Biblioteca dello spirito cristiano. intende far sì che questo patrimonio di letture sia mantenuto vivo come strumento di educazione per lettori sempre nuovi. Si tratta di romanzi, saggi, testi di poesia che hanno lasciato il segno in chi li ha accostati. Perché in essi si mostra, con varia genialità e secondo diverse prospettive storiche e psicologiche, uno spirito cristiano impegnato a scoprire e verificare la ragionevolezza delle fede dentro le circostanze della vita. Una umanità, cioè, che realizza la sua passione per l’esistenza e la sua adesione al dramma della vita con un realismo e una profondità altrimenti impossibili. Dal momento in cui Dio si è fatto uomo, l’imprevedibile è diventato un avvenimento reale. Dio si è fatto compagno agli uomini, così che la vita possa non essere vana. Nell’incontro con questo fatto storico la ragione, la volontà e l’affettività umane sono provocate a realizzarsi, a compiersi secondo tutta l’ampiezza del loro desiderio di giustizia, di bontà e di felicità. Lo spirito cristiano è l’umanità di persone stupite e commosse da questo avvenimento.
I testi della collana fondata da don Giussani, che vengono ora riproposti nella Biblioteca dello spirito cristiano, ne sono una documentazione particolare, specie dove le parole scavano nei fatti e nei cuori con tutta l’energia della grande arte.
COS’HA COMBINATO PÉGUY
«Non s’è mai parlato così cristiano»
(H.U. Von Balthasar)
Il gesto che si intende compiere proponendo questa antologia di Péguy è rischioso. Doppiamente rischioso, perché da un lato l’autore in questione è, appunto, oggi molto in questione, dall’altro perché una scelta antologica da un’opera vasta come quella di Péguy, lungi dal poterne dare un’immagine completa, presuppone un taglio interpretativo che accetti di offrirsi e di mettersi in discussione.
Oggi è in corso, in Francia ma anche in Italia, un riesame della figura e dell’opera di Péguy che giunge in certi casi, come negli scritti di Alain Finkielkraut, a porre il poeta e pensatore dei «Cahiers» a fianco, come importanza, di alcuni già consacrati colossi del pensiero contemporaneo come Nietzsche, Benjamin, Heidegger. Occorre, tuttavia, non dimenticare, onde evitare di considerare un «caso» l’attuale discussione intorno a Péguy, le intense pagine che gli dedicarono, tra gli altri, già poco dopo la morte Albert Béguin e Daniel-Rops, nonché il debito che verso di lui riconosceva Emmanuel Mounier. Nell’ambito di tale riesame di Péguy, il quale in vita godette di mutevole fama e di poco successo (vendette una copia una di quel che considerava il suo poema più importante!), va considerata anche la valorizzazione in sede teologica autorevolmente rilanciata da H.U. von Balthasar, su cui torneremo più avanti.
dp n="6" folio="6" ? Le grandi polemiche contro l’essenza del mondo moderno, la passione con cui egli legava ma distingueva mistica e politica, l’anticlericalismo di vario segno, la sua stessa storia personale segnata da prove e da contraddizioni, hanno fatto di Péguy un particolare oggetto di riflessione e di contesa nella cultura contemporanea. Egli, come tutti gli uomini e gli artisti che avvertono con particolare acume il senso della propria epoca, risulta crocevia irrinunciabile per coloro che, venuti dopo, intendono comprendere a loro volta la natura del proprio tempo. Non c’è da stupirsi, dunque, che la saggistica, a volte erudita e profonda, a volte banalotta, e la pubblicistica su Péguy abbondino, e da esperienze anche lontane ogni tanto si ritorni a guardare alla sua opera.
Per avere un’idea di cosa abbia significato Péguy nella cultura italiana di questo secolo rimandiamo al volume curato da Pia I. Vergine presso le edizioni Milella, oltre che agli attenti contributi di Giuliano Vigini (traduttore e studioso) e al volume degli atti del grande convegno internazionale del 1977 «Péguy vivant», tenuto all’Università di Lecce per iniziativa del generoso e acuto péguysta Angelo Prontera.
Il rapporto con Péguy può essere assunto come uno dei criteri guida per comprendere in buona parte la storia della cultura italiana del secolo, e non solo di quella cattolica (basti pensare al rapporto dialettico tra Gramsci e le influenze péguyane certamente presenti nella sua formazione).
Tra la visita, a dire il vero un po’ impacciata e freddina, di Croce e Prezzolini alla sede dei suoi «Cahiers» nel 1910 e la considerazione di Bo, secondo cui «c’è dentro la sua voce tanto di quell’esplosivo che da solo sarebbe sufficiente a buttare all’aria gli edifici della nostra tranquillità», c’è tutto il tragitto di una presa di coscienza: Péguy resta alieno a qualsiasi ipotesi di cultura intesa come sistemazione del mondo, come tranquillante del mondo, vesta essa i panni di un idealismo storicista o quelli di uno spiritualismo religioso. La sua vicenda di borderline della cristianità (per questioni non solo biografiche e dottrinali) pretende un atteggiamento di apertura attiva, di capacità di immedesimazione caratteristico di chi non si pone dinanzi ad un autore volendo difendersene. Di lui occorre fare quella «buona lettura» che egli stesso auspica come compimento dell’opera da parte del lettore.
Non a caso lo stesso Bo, parlando del rapporto della cultura italiana con Péguy, dovrà ammettere che «lo abbiamo letto e, alla fine, perduto» e, rivolgendosi ai giovani che lo hanno riscoperto, conclude: «A chi viene dopo di noi, a questa enorme famiglia senza volto di giovani, diciamo che non siamo stati in grado di capirlo veramente ma che dalla sua parte sta il vero e il santo della vita».
Tutto quel che di lui è stato chiamato «controsocialismo» (La Puma), «primo catechismo» (Béguin), «primitività ebraica» (Cardarelli), «durezza» (Pampaloni), «prodigiosa freschezza» (Bernanos), «opera assurda» (Borgese), «respiro» (Picon), «divina inquietudine» (Mazzolari), o tutto quello per cui un lettore acuto come il nostro Tomasi di Lampedusa lo definì «quasi un angelo», si radica potentemente in quel che possiamo chiamare scoperta della umanità della fede.
Del resto lo stesso Paul Claudel, che pur affermava di non amare né il suo stile né «i suoi gusti», riconosceva a Péguy di essere stato una «specie di eroe» e di aver combattuto una buona «battaglia». «Si può non avere gli stessi gusti — diceva Claudel — e tuttavia comprendere molto bene i gusti di un altro.» «Non abbiamo abbordato la montagna dallo stesso versante» dice con franchezza ancora Claudel. «Le nostre vie sono state talmente diverse, le nostre formazioni anche, che non possiamo incontrarci se non al vertice.» È significativo che mentre Maritain rimprovera a Péguy di parlare della Santa Vergine come se fosse «un’impagliatrice di sedie» (il mestiere della propria madre), Charles Moeller, nello studio dedicato a Péguy tra le pagine di Letteratura moderna e cristianesimo (opera di cui una scelta antologica è edita in questa stessa collana), riconosce che egli «non poteva convertirsi se non a un Dio incarnato». Convertirsi cioè per la scoperta di un avvenimento in cui si attua quel che egli stesso chiamava la «meccanica» dell’eterno che entra nel temporale, quella «meccanica» che rivela che Dio «non è un teorema astratto e impersonale smarrito nei ghiacciai dell’assoluto», bensì fecondità, paternità, familiarità. Un Dio a cui si dà del «voi» e che si avverte dentro ogni evento, familiare con tutti, toccabile in tutto.
Tale «meccanica» dell’avvenimento cristiano porta con sé l’esaltante e drammatica scoperta della esperienza e del valore della libertà umana: l’eterno, entrando nel temporale, ne ha accettato il condizionamento, Dio ha iniziato a sperare negli uomini.
Péguy, intellettuale e uomo, è nel nostro secolo colui che ha dato voce più alta e bella (usiamolo questo aggettivo, stavolta!) alla scoperta di quel che sembrava perduto, o, che è lo stesso, già saputo. A far di lui, della sua opera e, misteriosamente, anche della sua vita su cui la morte tragica in guerra rilancia una luce di presagio, un canto della grande scoperta sono concorsi molti fattori storici e individuali che qui possiamo solo sommariamente ricordare.
Innanzitutto l’educazione alla libertà e al valore del lavoro ricevuta dalla famiglia, in cui la madre impagliatrice di sedie avrà sempre un ruolo determinante; un periodo di passaggio sociale e politico denso e gravido di conseguenze sulla vita e sul costume del suo popolo; un senso di appartenenza a tale popolo immediatamente tradotta in impegno culturale e civile, fino alla dedizione; una storia affettiva complicata ma seriamente vissuta. Rispetto a tutto ciò, la fede cattolica, che nel settembre del 1908 confessa al fido Lotte di aver ritrovato, non è un approdo, ma, come egli stesso più volte afferma, un approfondimento.
Eppure tutto questo non basterebbe a fare di Charles Péguy il nostro Péguy. Come ricorda Leopardi in un passo dello Zibaldone, il vero non basta intenderlo, occorre sentirne la qualità di verità. È che Péguy ha avuto un dono, come una grazia che ha moltiplicato la grazia, che l’ha resa, attraverso di lui, più eloquente ai nostri orecchi moderni. Egli ha avuto un dono supremo d’artista oltre che una ammirevole tempra d’intellettuale. Lo diciamo senza mezzi termini, perché la sua poesia è una grande poesia. Non si tratta di una valutazione quantitativa: non tutta la sua opera è di grande poesia, ma nella sua opera c’è grande poesia. E ora che questa opera, con le sue zone di ombra e i suoi pinnacoli, con gli sprofondamenti e le fughe di luce, ci appare quasi tutta intera, la riconosciamo per quella che è: una grande cattedrale piantata nel mondo moderno. Piantata, allo stesso modo delle cattedrali antiche, non per vanagloria o per clericale beozia: ma per la vita del popolo, dimora per la vita, per la memoria e la speranza di tutto il popolo, di tutto questo nostro popolo moderno. Ecco cos’ha combinato Péguy Ha dato una dimora, una casa di parole cristiane in un’epoca in cui ogni discorso e ogni canto prescinde o si allontana da Cristo.
E poiché il nostro secolo più che di grandi filosofi è stato soprattutto un secolo di grandi poeti, oltre che ai Nietzsche, agli Heidegger e ai Benjamin come fa Finkielkraut, noi lo avviciniamo a Eliot, a Rilke, a Montale, a Whitman, a Lorca, a Ibsen, a Ungaretti, a Lagerkvist... Ai loro grandi edifici di poesia e di pensiero, ai loro gr...