La ribelle
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La ribelle

  1. 456 pagine
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La ribelle

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Informazioni sul libro

Anno 1254. Caterina da Colleaperto è un giovane medico del più importante ospedale di Parigi. È una donna libera, forte e per questo pericolosa per una corporazione appannaggio di soli uomini. Così, quando un reato rischia di macchiare il buon nome dell'ospedale, tutte le accuse vengono fatte ricadere su di lei e nessuno la difende, nemmeno l'uomo che ama. Costretta a fuggire e ad affrontare un cammino pieno di ostacoli e sofferenza, Caterina arriva a Milano, una città dove convivono miseria e lusso: mentre fame e malattie sterminano i bisognosi, i potenti sfoggiano le vesti preziose realizzate dal sarto più in voga. Ancora una volta l'ingiustizia sembra prevalere, ma nell'amore per gli altri e nella volontà di riprendere in mano la propria vita Caterina trova il seme di una nuova speranza. Valeria Montaldi ci regala un personaggio femminile potente, indimenticabile, simbolo di lotte che appartengono a ogni tempo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858629499
La ribelle
Alle donne, e al loro coraggio
Prima parte

1

Parigi, febbraio 1254.
La punta di ferro della pala urtò una superficie dura. Nel silenzio, il colpo risuonò sordo. Thomas si immobilizzò con le mani irrigidite sul manico dell’attrezzo.
Due passi più indietro, Guillaume si voltò a scrutare il buio. Non era più così fitto: le nuvole si stavano sfaldando e un lucore incerto cominciava a disegnare il fogliame delle querce e a delineare i rami spogli dei roveti che ricoprivano il terreno. Più lontano, verso il fossato a ovest, baluginava la fiamma di una candela, segno che anche quella notte il cimitero ospitava convegni mercenari.
«Sei sicuro che sia proprio qui?» bisbigliò Guillaume. «Come fai a sapere che è questo il punto giusto?»
«Perché c’ero anch’io quando l’hanno seppellita» gli rispose il compagno, «e ho visto il posto dove hanno calato la bara. E se c’è la bara non può che essere quella dell’impiccata di ieri: questa è una fossa comune, lo sai anche tu, e qua di solito i cadaveri li sotterrano senza cassa… Non perdiamo tempo a parlare: più presto facciamo, prima ce ne andiamo di qui.»
Thomas riprese a spalare. Lo strato di terra continuava a diminuire e quando la vanga stridette per la seconda volta contro il legno, il giovane la posò di lato e proseguì a mani nude, per non fare rumore. Guillaume si chinò ad aiutarlo: il terriccio ricopriva la buca da poco più di una giornata e offriva scarsa resistenza.
«Eccola, è fuori» sussurrarono all’unisono quando le loro dita strisciarono sulla cassa. Ne spolverarono via la terra residua, poi si alzarono e rimasero immobili. All’improvviso, il bubbolio di un gufo ruppe il silenzio. Guillaume sobbalzò e si fece il segno della croce.
Thomas si calò nella fossa e, fatta scivolare una grossa fune sotto la bara, ne porse un capo al compagno. Poi risalì. Tenendo ben salde le due estremità della corda, i due giovani sollevarono la cassa e la deposero sul terreno.
Guillaume si accorse di tremare. Cercando di ignorare l’ondata di nausea che gli stava per rivoltare le viscere, affondò la mano nella tasca del farsetto ed estrasse due piccole leve di ferro. Ne porse una a Thomas e insieme cominciarono a forzare i bordi del coperchio.
La bara si aprì senza fatica. Per un momento la luce della luna fluttuò sulla fossa, poi si smorzò, nascosta dalle nuvole. A tentoni, i due giovani afferrarono il corpo e lo posarono a terra.
La coltre di nubi si aprì di nuovo e il chiarore lunare illuminò il cadavere. Era quello di una donna minuta. I capelli, sforbiciati rozzamente intorno alla testa, incorniciavano un viso grigiastro dai tratti ormai irriconoscibili. La mandibola inferiore era disarticolata e poggiava sul collo, da cui pendeva ancora il cappio. La lingua era protrusa dalla bocca spalancata e le palpebre, infossate nelle orbite, erano chiuse. L’abito, simile a un saio, era strappato sul davanti, segno che prima di essere impiccata la donna si era dibattuta con violenza.
Guillaume si voltò, appoggiò le mani sulle ginocchia e vomitò.
Senza riuscire a trattenere un sorriso beffardo, Thomas raccolse da terra il sacco che si era portato dietro, ne aprì l’imboccatura e, con pochi gesti decisi, ci infilò il cadavere. Poi lo richiuse e se lo caricò in spalla.
Guillaume si deterse la bocca con la manica della veste e si avviò.
Serpeggiando bassi fra la vegetazione, i due giovani si avvicinarono al muro di cinta. Guillaume procedeva circospetto, muoveva una ventina di passi, si fermava, avanzava di nuovo. Dietro di lui Thomas sbuffava.
«Il gendarme là fuori sta per cominciare il secondo giro di guardia e se non facciamo presto a uscire di qui ce lo ritroveremo dritto dritto sul naso!» sbottò alla fine, quasi a voce alta.
Guillaume lo zittì con un gesto della mano.
«Laggiù c’è una puttana con il suo cliente» bisbigliò irritato. «Chi ci assicura che non ci abbiano già visti? Non possiamo certo metterci a correre, ti pare?»
Senza rispondere, Thomas superò il suo compagno e si incamminò a passo spedito: il sacco era leggero e lui aveva buone braccia. Guillaume esitò per un momento, poi lo seguì.
Stavano per arrivare alla porta d’ingresso del cimitero, quando un peto fragoroso, seguito da una risata sguaiata e da un’imprecazione scurrile, li fece sobbalzare. Le voci, di uomo e di donna, erano molto vicine.
I due giovani si nascosero sotto il fogliame di una quercia spinosa e attesero. Al di là di una macchia di rovi, il guizzo fugace di una candela seguito da un fruscio di passi segnalò l’arrivo di qualcuno, ma sfumò in fretta. Thomas, che aveva lasciato cadere a terra il sacco, si rialzò, sporse la testa oltre i rami più bassi dell’albero e occhieggiò fra i rovi. Il lucignolo non si vedeva più.
Dato di gomito al compagno, il giovane si diresse verso l’uscita.
L’alba era sorta da poco e la luce livida presagiva già il giorno. Il vento che si era levato nelle ultime ore della notte aveva allontanato le nuvole. La luna stava scomparendo oltre la linea dell’orizzonte.
Prima di raggiungere l’altra riva, Caterina si fermò lungo l’argine.
La Senna aveva il colore del piombo fuso e, sotto le arcate del ponte, vorticava in gorghi fangosi da cui affioravano rami spezzati. La corrente li sollevava, li faceva ruotare, poi li inghiottiva verso il fondo. I rialzi lungo la sponda erano punteggiati dai resti delle carcasse sanguinolente gettate a fiume dai macellai della Tournelle. Una testa di pecora, curiosamente intatta, spuntava da un ammasso di paglia fradicia e sembrava fissare l’acqua.
Faceva freddo. Caterina si strinse nella guarnacca e si avviò lungo il dedalo di strade che dal Petit Pont conduceva verso la Bièvre. Un carretto trainato da un mulo sbucò dallo slargo di Saint-Julien-le-Pauvre e il cigolio delle ruote riempì il vicolo.
Caterina affrettò il passo. Era eccitata e ancora incredula per l’opportunità che le era stata concessa: di lì a poco avrebbe finalmente ottenuto quello che desiderava da tempo.
Per anni, tenacemente, aveva chiesto agli insegnanti di poter accedere a quel particolare tirocinio, ma tutti avevano rifiutato, anche Ibn-al-Latif, il più sapiente dei suoi maestri. Nonostante la ritenesse un’allieva promettente, le aveva sempre proibito di assistere a quel genere di lezioni. E così aveva dovuto limitarsi ad ascoltare i resoconti infervorati dei pochissimi compagni prescelti dal maestro. Benché fossero vietate dall’autorità religiosa e civile, le dissezioni venivano praticate ugualmente: a Montpellier, dove aveva portato a termine gli studi, erano soprattutto i medici orientali a considerare quella pratica una parte importante dell’insegnamento. La svolgevano nel segreto dei sotterranei o nel folto dei boschi e, a quanto le risultava, fino a quel momento nessuno di loro era stato denunciato: forse il silenzio interessato della corporazione medica aveva abilmente nascosto ogni cosa, o forse le autorità fingevano di non sapere, pur di salvaguardare il prestigio della scuola. Senza dubbio, quello di Montpellier era un centro di eccellenza per l’arte medica, e il fatto che agli studi potessero accedere anche le donne testimoniava un’inconsueta larghezza di vedute da parte del corpo insegnante. Proprio per questo, la indispettiva il non aver mai potuto assistere a una dissezione: perché mai, si chiedeva, se le donne dovevano studiare le stesse materie dei colleghi maschi non venivano ammesse anche a quella particolare sperimentazione? Aveva battagliato per affermare quello che riteneva un suo diritto, ma non aveva ottenuto alcun risultato: alla fine si era rassegnata. Ora, invece, grazie a un destino bizzarro, tutto stava per cambiare.
Sorrise tra sé e proseguì verso rue Galande. Passando davanti all’Aiglon d’Or, la locanda frequentata dagli studenti della Scuola delle Arti, vide un uomo rannicchiato contro la porta sprangata: russava ed emanava un forte puzzo di vino. Il mantello, scivolato dalle spalle, era rimboccato lungo i fianchi: Caterina ne afferrò le falde, le sovrappose e le riunì sul petto dell’ubriaco. Poi, girato l’angolo del vicolo, continuò per la sua strada.

2

Parigi.
La ruota del mulino cigolava e l’acqua del canale la faceva girare a vuoto: il perno collegato alla corona dentata era spezzato e il meccanismo non funzionava più. Sporadiche raffiche di vento turbinavano intorno alla costruzione, si insinuavano tra le fessure della porta e sollevavano minuscoli mulinelli di polvere dal pavimento di terra battuta.
Accucciato dietro il battente, Thomas spiava di fuori. Non si sentivano rumori, solo lo sciabordio della Bièvre e qualche belato proveniente dalla campagna.
Si rialzò, sbadigliò e si sgranchì le gambe: la lunga camminata di quella notte e il peso portato sulle spalle cominciavano a fargli dolere i muscoli. Mosse qualche passo nella penombra e le sue mani protese in avanti sfiorarono la macina: la pietra era fredda e viscida. Le ritirò di scatto, tornò alla sua postazione, si sedette per terra e incrociò le gambe.
Bella decisione, pensò. Il medico, quello a cui aveva appena consegnato il cadavere, doveva essere molto scaltro per aver scelto un posto come quello. Un mulino abbandonato, a cui nessuno osava più avvicinarsi, nemmeno i canonici di Sainte-Geneviève, che ne detenevano i diritti. Lì, tre anni prima, una pestilenza si era portata via il mugnaio, la sua famiglia e i lavoranti: in pochi giorni erano morti tutti e da allora nemmeno il viottolo che conduceva al mulino era più stato percorso. Adesso era coperto di erbacce e di rovi, e il tracciato si confondeva con il resto della vegetazione.
Lui non aveva paura. Ormai era passato molto tempo e qualunque cattiva esalazione doveva essersene andata dall’aria. Inoltre, se quello che insegnavano i suoi maestri era vero, sembrava che così come arrivavano, all’improvviso le pestilenze scomparissero. Nessuno conosceva le cause del morbo e non esistevano cure che non fossero la preghiera e la penitenza.
Nonostante la stanchezza, era soddisfatto: dal lavoro nel cimitero aveva ricavato un bel po’ di soldi che gli avrebbero permesso di pagare la pigione della locanda per un paio di mesi. Risiedere a Parigi costava parecchio e lui, figlio di un piccolo artigiano di Bruges, sapeva bene quanto grandi fossero i sacrifici sostenuti da suo padre per mantenerlo agli studi. Nella sua situazione, qualunque somma supplementare era preziosa, e quando il suo compagno di corso gli aveva chiesto di aiutarlo a procurare il cadavere al medico non aveva esitato nemmeno un attimo ad accettare. Per la verità, Guillaume gli aveva anche proposto di assistere alla dissezione, ma lui aveva rifiutato: un conto era dissotterrare un corpo, un altro era vederlo fare a pezzi. E, comunque, non gli sarebbe servito: non aveva alcuna intenzione di dedicarsi alla chirurgia, gli bastavano le nozioni basilari di medicina per curare i malati e, se fosse diventato abile nel cercare i clienti giusti, forse sarebbe anche riuscito ad arricchirsi.
Il pavimento sopra la sua testa scricchiolò, segno che il medico e Guillaume stavano per cominciare. Si augurò che facessero presto.
Rolando fissava il cadavere disteso sul tavolaccio. Con l’aiuto dello studente, lo aveva spogliato ed era anche riuscito a togliere il cappio, penetrato in profondità nella carne.
Il corpo non riceveva abbastanza luce. Quella che filtrava dalla piccola apertura sull’altana era ombreggiata dalla grande tramoggia posta al centro del locale. Il medico decise di usare le candele: ormai era giorno fatto ed era improbabile che dall’esterno si potessero cogliere bagliori sospetti. Ne accese quattro e le sistemò in fila su una sporgenza di pietra della parete. Poi, intinta una pezzuola nell’acqua del secchio, cominciò a ripulire il cadavere.
La pelle era verdastra e cedevole sotto le sue mani, segno che il rigor mortis si era già concluso. Dal pube, coperto di una peluria rada, una macchia scura si allargava verso l’alto e anneriva una parte del ventre.
Gli occhi di Guillaume seguivano ogni gesto. Quel corpo inanimato non gli faceva più paura. Era come se, una volta liberato dagli abiti, avesse perso ogni parvenza umana: niente più che un fantoccio, come quelli che si bruciavano in piazza alle feste dei folli. Affascinato dai movimenti sicuri del maestro, il giovane osservava l’addome incavato dell’impiccata, i suoi seni piccoli, il solco slabbrato del collo. Solo quando il medico forzò sulle ossa della mandibola per rimetterla in sede ebbe un attimo di vertigine, ma lo controllò. Doveva resistere, non poteva deludere il maestro dopo che gli aveva concesso il privilegio di assistere alla dissezione. Quell’esperienza sarebbe stata forse l’unica in tutta la sua carriera.
Sentì un fruscio dietro di sé e si voltò. L’altro uomo, quello che al suo arrivo aveva già trovato lì con Rolando e di cui non conosceva il nome, si era avvicinato: fino a quel momento era rimasto nell’ombra, vicino alla tramoggia, e Guillaume lo aveva solo intravisto. Solo ora, alla luce tremula delle candele, riuscì a scorgerne il viso: aveva tratti delicati che avrebbero potuto essere quelli di una donna. Il giovane lo guardò meglio. Sembrava proprio una donna. No, non era possibile, il copricapo, l’abito, le scarpe erano maschili, e quindi doveva trattarsi di un uomo, magari un po’ effeminato, ma pur sempre un uomo. Fu percorso da un brivido di inquietudine: e se il maestro fosse stato dedito alla sodomia? Se quel giovane collega fosse stato il suo amante? Non aveva mai udito alcuna voce in proposito e decise di non preoccuparsene: era già fin troppo agitato all’idea di quello che avrebbe visto di lì a poco, non era il caso di farsi distrarre da altri pensieri.
Il bisturi affondò nel torace e la carne si aprì. Rolando ne afferrò i due lembi contrapposti e li lasciò ricadere sui fianchi del cadavere. Impugnato il seghetto, cominciò a resecare le coste.
Guillaume deglutì: un rigurgito acido di bile gli bruciò la bocca. Il suo sguardo inorridito era ancora fisso sugli intestini grigiastri che fuoriuscivano dall’addome aperto. Prima di tagliarli nel mezzo, il medico li aveva legati per non farne uscire le feci. Il mesentere, percorso da vene ormai vuote di sangue, era adagiato sull’utero e lo copriva quasi per intero.
Lo stridio della sega e le parole del medico arrivavano ovattati alle orecchie del giovane, come provenienti da molto lontano. Quando le costole furono segate del tutto, sui suoi occhi discese il buio. Gemette e scivolò a terra.
Caterina, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, avanzò di un passo e si chinò.
«Ha perso conoscenza» sussurrò.
«Non dartene pensiero, è meglio così» le rispose il medico, senza guardare lo studente. «Più a lungo rimane lì, meno occasioni ha di vederti e di sentirti parlare. Anche se indossi abiti maschili, il tuo viso e la tua voce insospettirebbero chiunque. Vieni qui, piuttosto, e osserva. Non credo che avrai un’altra occasione come questa.»
Con l’aiuto di un bisturi dalla punta ricurva, Rolando estrasse il cuore e, tenendolo nelle mani a coppa, lo sollevò verso la luce delle candele.
«Ecco, guarda» disse, «queste concavità sono i ventricoli e le due cartilagini che vedi in alto sono flessibili come le orecchie di un gatto. Sai a cosa servono?»
Caterina scoss...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Rizzoli best
  3. Frontespizio
  4. La Ribelle
  5. Ringraziamenti