Il duce mio padre
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Il duce mio padre

  1. 176 pagine
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Il duce mio padre

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Una testimonianza diretta della storia del fascismo a firma dell'ultimo figlio vivente del Duce. Una raccolta di memorie, confidenze, appunti e documenti gelosamente custoditi per anni ripercorre i momenti felici e drammatici della vita del padre. Ne nasce un ritratto intimo di Benito Mussolini: nelle lettere e nelle conversazioni con i familiari, il capo del fascismo non racconta solo episodi cruciali e tragici della storia d'Italia, ma rivela anche se stesso, la propria solitudine e il proprio pessimismo di fronte ai voltafaccia e agli intrighi. Il versante privato della parabola umana del dittatore.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858630488

PROLOGO

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L’ULTIMA VOLTA CHE VIDI IL DUCE MIO PADRE fu la mattina del 17 aprile 1945 sul lago di Garda a Gargnano, sede della Repubblica di Salò. Al momento in cui sarebbe stato ucciso con Claretta Petacci ed esposto con lei allo scempio di piazzale Loreto, mancavano solamente undici giorni.
A Villa Feltrinelli, dove mi trovavo con mia madre Rachele, mia sorella Anna Maria e Gina, la vedova di mio fratello Bruno, stavo suonando il pianoforte in una stanza che dava sul cortile interno riservato alle automobili. Accennavo le note della Vedova allegra di Franz Lehar; mio padre aveva avuto in regalo l’originale dello spartito dal compositore ungherese e si entusiasmava ogni volta che io ne suonavo la musica. Così quella mattina, quando lo vidi entrare nella stanza, pensai che volesse ascoltarmi per qualche momento stando in piedi dietro a me, come aveva fatto altre volte.
Invece mi abbracciò. «Ciao Romano,» mi disse con una voce bassa e malinconica che non era la sua «continua a suonare.»
Uscì nel cortile e raggiunse l’auto che lo aspettava per portarlo a Milano dove, come aveva detto a mia madre, si sarebbe trattenuto «due o tre giorni al massimo», il tempo di capire se era ancora possibile opporsi all’avanzata degli Alleati.
Indossava la divisa militare. Io mi affacciai alla finestra e vidi che, mentre la vettura si metteva in moto, mi rivolgeva un ultimo saluto agitando la mano destra.

CAPITOLO 1

FRANCO LO AVREBBE POTUTO SALVARE

MIO PADRE ERA NATO IL 29 LUGLIO 1883; io sono venuto al mondo – quarto dei cinque figli di Rachele Guidi – il 26 settembre 1927. Al momento del nostro ultimo incontro, dunque, lui aveva 61 anni e 9 mesi; io 17 anni e 7 mesi. Avevo avuto tutto il tempo per conoscerlo e per essere testimone, se non protagonista, di molti episodi ancora oggi dibattuti.
Scrivendo questo libro, non solo ho voluto mettere a disposizione di tutti i miei ricordi di figlio, ma anche contribuire con elementi nuovi a far luce su alcuni aspetti della vita del Duce.
Qualcuno si domanderà se, dopo tanti anni, ci sia ancora qualche cosa da scoprire, se resti qualche particolare inedito da mettere a fuoco. Io rispondo di sì, molta storia deve ancora essere scritta perché spesso le ricostruzioni sono state viziate dalle passioni. E soprattutto affermo che uno dei capitoli fondamentali della vita di mio padre, quello relativo al perché morì nel modo che tutti conoscono, è ancora tutto da svelare.
È vero per esempio che la notte del 24 luglio 1943, quando si accorse che Dino Grandi e gli altri membri del Gran Consiglio del Fascismo si preparavano a esautorarlo, mio padre avrebbe potuto bloccarli dentro Palazzo Venezia e magari anche farli uccidere?
È vero che, quando gli Alleati cominciarono a risalire la penisola dopo essere sbarcati in Sicilia, non reagì perché aveva in mente un piano rivoluzionario e pensava di avviare trattative per una pace separata?
È vero che Hitler, che lo incontrò a Feltre il 19 luglio 1943, sei giorni prima del suo arresto da parte del re, voleva farlo proteggere da un reparto di SS, cosa che avrebbe cambiato il corso degli avvenimenti?
È vero infine che quando Galeazzo Ciano, il marito di mia sorella Edda, fu processato e condannato a morte a Verona durante la Repubblica di Salò, mio padre cercò di far approvare un provvedimento che congelasse tutti i procedimenti giudiziari fino a guerra conclusa?
Io ribadisco che fino all’ultimo mio padre si sarebbe potuto salvare: anzi, per metterlo al sicuro esisteva un piano accuratamente studiato in ogni dettaglio, e se non andò in porto fu solo per sua scelta. «Non voglio» diceva «mendicare la salvezza mentre i migliori si sacrificano per me e per la dignità dell’Italia.» Autori del piano erano Luigi Gatti – il segretario particolare di mio padre, poi fucilato a Dongo – e mio fratello Vittorio. Gatti aveva sposato una nobildonna spagnola dalla quale aveva avuto un figlio, Alfredo, ancora oggi mio fraterno amico. Anche lui, come me, ricorda bene come avrebbero dovuto svolgersi le cose. Davanti a Villa Feltrinelli, sulle acque del lago, sarebbe sceso all’imbrunire un idrovolante pilotato da un fedelissimo. Mio fratello e Luigi Gatti, dopo avere narcotizzato il Duce, lo avrebbero sorretto fino all’imbarcadero e quindi issato a bordo. L’idrovolante avrebbe raggiunto la costa spagnola e lì alcuni dipendenti della signora Gatti, che possedeva una grande azienda agricola nel centro del Paese, lo avrebbero preso in consegna facendosi trovare all’appuntamento con due automobili.
Tutto era stato predisposto affinché del Duce si perdesse ogni traccia. Ma c’è di più: una volta in Spagna mio padre avrebbe avuto l’appoggio di Franco, che avrebbe trovato il modo di salvarlo accordandosi con gli americani.
Dico questo perché nel 1963 ho incontrato a Madrid l’allora settantunenne Francisco Franco, che non aveva mai dimenticato d’essere giunto al potere nel 1939 grazie all’appoggio di mio padre e di Hitler. Magrissimo, mobile e vivo solo nello sguardo, il Generalissimo aveva l’aspetto di un centenario. Era pessimista: «Vinceranno i comunisti» mi disse «perché nel mondo ci sono milioni e milioni di poveri, e i poveri saranno sempre comunisti». Mi mise a parte poi della sua decisione di restaurare la monarchia e di nominare suo successore (lo avrebbe fatto sei anni dopo) il giovane Juan Carlos, saltando il padre.
«Sarà un parto indolore» aggiunse indovinando la mia perplessità. «Tutte le decisioni che ho preso in vita mia, prima o poi sono state accettate.» Franco si era aspettato, a suo tempo, che mio padre cercasse rifugio in Spagna.


Il Duce, questa è la verità, volle andare incontro al suo destino. Destino che in parte – e io cercherò di spiegare il perché – fu lui stesso a rendere ineluttabile.
Ero attaccatissimo a mio padre. Negli ultimi tempi, poi, dopo il trasferimento sul Garda, gli ero stato molto vicino, più che a Roma. È vero che non avevo il coraggio, che invece non mancava ad Anna Maria, di andare tutti i giorni da lui a Villa Orsoline (era lì che aveva il suo quartier generale, mentre a Villa Feltrinelli abitavamo), ma è anche vero che dopo pranzo facevamo assieme lunghe passeggiate e tra noi si era stabilito un rapporto bellissimo. Con il passare del tempo anche gli uomini più importanti e impegnati si avvicinano ai figli. Io non ho avuto la fortuna di vedere mio padre invecchiare fino a sentirmelo fratello, ma certo la tetra stagione di Salò favorì la nostra confidenza.
Tutto stava crollando eppure, ancora nel febbraio 1945, il Duce non rinunciava alle sue speranze. C’è chi ancora oggi non crede che, fino all’ultimo, egli sia stato all’oscuro delle trattative avviate dai tedeschi con gli Alleati per la resa in Italia. Ma era effettivamente così e io lo sentii dire a mia madre: «È stato Hitler in persona, in Germania, ad accompagnarmi nelle fabbriche in cui si stanno preparando le armi che capovolgeranno le sorti della guerra. L’importante è non perdere la fiducia, il resto verrà da sé».
Davvero credeva nelle sue affermazioni? La risposta a questo interrogativo è duplice, e in essa è racchiusa la chiave per capire l’uomo. Da una parte il Duce sapeva che la guerra era perduta. Le grandi città del Nord erano un ammasso di macerie, il settanta per cento delle case di Milano era distrutto o comunque inagibile. L’apparato militare italiano si era sgretolato e il 10 aprile 1945 le truppe anglo-americane avevano sferrato l’attacco finale alle posizioni tedesche, arrivando fino al Po. E il generale Wolff, convocato da Hitler, era partito per Berlino.
«Oltre che un politico di razza,» mi disse un giorno mia madre «il Duce era un uomo intelligente. Gli si farebbe torto, perciò, a pensare che non capisse la situazione in tutta la sua disperata drammaticità.»
Dall’altra parte, però, era un inguaribile sognatore: non per niente D’Annunzio era stato l’uomo che aveva maggiormente ammirato. E mio padre aveva un sogno, un’illusione di cui era lui il primo a diffidare ma che ostinatamente coltivava. Pensava di raggiungere con i suoi fedelissimi (che gli era stato assicurato sarebbero stati almeno trentamila) la Valtellina, dove avrebbe organizzato l’estrema resistenza contro l’invasore. Quell’ultima battaglia avrebbe avuto il significato, per lui, di una sorta di sacrificio purificatore. «Saranno le Termopili del Fascismo» diceva. «Come Leonida e i suoi eroi, io mi sacrificherò per sbarrare il passo al nemico.»
Ma come raggiungere la Valtellina senza essere intercettato? Fu mio fratello Vittorio, per suo incarico, a prospettare un piano d’azione al cardinale di Milano, Ildefonso Schuster, che già da tempo aveva preso contatti con gli Alleati per cercare di rendere meno sanguinoso il momento in cui sarebbero entrati in città. Sentii mio padre dire a donna Rachele: «Schuster è un grande mediatore, io ho fiducia in lui». Lei ne aveva molta meno, ma si sbagliava. Dopo aver parlato con Vittorio, Schuster interpellò il Comando alleato tramite la Nunziatura in Svizzera. La risposta fu però negativa: gli Alleati volevano la resa completa e incondizionata dei fascisti e non erano disposti a dar loro alcun salvacondotto. Tanto meno quello per la Valtellina, che avrebbe significato nuovi scontri e, in sostanza, il prolungamento della guerra.
Mio padre accolse con disappunto la risposta negativa del cardinale. Nella sua mente, infatti, si riaffacciò l’incubo che ormai lo tormentava da mesi: la cattura e il processo da parte degli americani. Una delle ultime volte che cenammo con lui a Villa Feltrinelli, al momento di alzarsi da tavola ci disse: «Già mi sembra di vedere il processo che mi faranno al Madison Square, con la gente sulle tribune che mi guarda come se fossi una belva imprigionata». Ricordo anche che aggiunse: «No, meglio morire con le armi in pugno, solo questa può essere la degna conclusione della mia esistenza».


L’epilogo dell’avventura di mio padre, visto a più di mezzo secolo di distanza, sembra far parte di uno dei romanzi che egli aveva scritto da giovane. E ancor più romanzesca fu la proposta avanzata da Claretta Petacci per salvarlo. Mia madre ne venne a conoscenza solo a guerra finita, io e mio fratello Vittorio invece ne fummo subito messi a parte. Si trattava di un piano assurdo, chiaramente privo di qualunque possibilità di riuscita, ma in quei momenti ci aggrappavamo a tutto.
Claretta aveva lasciato Villa Fiordaliso (la «casa dei morti», come la chiamava mia madre non vedendo mai alcuno entrarci o uscirne) e aveva raggiunto mio padre a Milano. La accompagnava come al solito il fratello Marcello, odiatissimo da tutto l’apparato gerarchico per la posizione privilegiata che occupava grazie alla sorella e per la spregiudicatezza con cui se ne serviva. Marcello non si faceva scrupoli, questo è vero, ma quando si trattava di proteggere Claretta diventava un’altra persona. Cercava di aiutarla in ogni modo, e così fece anche quando lei gli chiese di studiare un piano che le permettesse di mettersi in salvo assieme al Duce.
Marcello si sarebbe procurato un’automobile simile a quelle con cui si spostava mio padre, un’Alfa Romeo nera, e l’avrebbe portata a fracassarsi contro un muro simulando un incidente. I rottami della vettura sarebbero stati incendiati e da essi i soccorritori avrebbero estratto il cadavere sfigurato di un uomo in uniforme militare. Un omicidio bello e buono, in sostanza, ma il sacrificio del poveretto ucciso al posto del Duce avrebbe fatto credere a tutti che lui fosse morto durante un tentativo di fuga. Frattanto, invece, Claretta avrebbe trovato riparo con lui in Svizzera sotto falso nome e da lì, poi, la coppia avrebbe proseguito per l’Australia con una serie di spostamenti effettuati con aerei a noleggio.

CAPITOLO 2

I RETROSCENA DELL’ARRESTO A VILLA SAVOIA

IL 25 LUGLIO 1943, NONOSTANTE FOSSE RIENTRATO a Villa Torlonia alle quattro del mattino dopo la drammatica seduta del Gran Consiglio in cui diciannove dei ventotto votanti (compreso Galeazzo Ciano, il marito di Edda) lo avevano sfiduciato, mio padre si alzò come al solito alle otto, dopo essersi assopito per un paio d’ore.
Quella notte era rientrato cupo e disfatto e mia madre, riferendosi ai congiurati che avevano sottoscritto l’ordine del giorno di Dino Grandi, gli aveva detto: «Spero che tu li abbia fatti arrestare tutti...». Lui le aveva risposto: «Non ancora; lo farò domattina». Al che lei era sbottata: «Domattina sarà troppo tardi, non lo capisci? Grandi e i suoi compari, compreso nostro genero Galeazzo, saranno già spariti».
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Il Duce, per interrompere quel colloquio che per lui stava facendosi insopportabile, indicò il telefono a mia madre e le disse di chiamare lo stato maggiore per sapere se nelle ultime ore c’erano stati bombardamenti. Mia madre compose il numero e gli passò il ricevitore. Quando ci rivedemmo qualche mese dopo, mi disse: «Dallo stato maggiore mi tranquillizzarono, affermando che non c’era niente di importante da segnalare. In realtà mentivano, perché poche ore prima Bologna era stata bombardata. Tutta l’Italia era in allarme, ma io ne ero tenuto all’oscuro. Attorno a me stava prendendo corpo una congiura inspiegabile, o meglio erano entrati in azione coloro che volevano la catastrofe e la sconfitta».
Dopo la telefonata mio padre raggiunse la sua stanza e, senza più parlare, si gettò esausto sul letto. Erano ormai le sei e due ore dopo, come ho detto, si levò regolarmente per recarsi a Palazzo Venezia. Alle nove era già nel suo ufficio e riceveva l’ambasciatore del Giappone Shinrokuro Hidaka, al quale raccomandò di fare pressione sul suo governo perché inducesse Hitler a concludere una pace separata con l’Unione Sovietica, ormai lanciata all’offensiva sull’intero fronte orientale.
Disse in seguito mio padre: «Se la Russia avesse accettato la tregua, la Germania si sarebbe tolta di dosso un terribile peso e ci avrebbe potuto aiutare a respingere il nemico che ormai avevamo in casa. La mia era solo una speranza, lo confesso, perché mi rendevo perfettamente conto che gli avvenimenti avevano preso una piega impossibile da correggere».
Ebbi tuttavia l’impressione, non solo nell’occasione di cui ho riferito, che mio padre non si fosse reso conto fino in fondo della portata del voto di sfiducia del Gran Consiglio. E soprattutto ignorava una cosa essenziale: il re, dopo aver appreso i risultati della votazione tenutasi nella notte tra il 24 e il 25 luglio, aveva nominato Badoglio nuovo capo del governo. In una parola, mio padre non immaginava nemmeno lontanamente che, mentre lui parlava con l’ambasciatore del Giappone, l’Italia avesse due primi ministri.
Mi raccontò mia madre: «Badoglio aveva già brindato con la famiglia alla sua vittoria su tuo padre. E lui non aveva il minimo sospetto, non tentava di reagire, non capiva che quelli avevano deciso di eliminarlo». Era così, in effetti mio padre aveva permesso che Grandi presentasse il suo ordine del giorno pur sapendo che questo avrebbe significato la sua rovina. Nonostante avesse dalla sua parte la Milizia, come gli era stato ripetutamente assicurato da Galbiati e da altri gerarchi rimastigli fedeli, non cercò di reagire. Per lui sarebbe stato semplice bloccare l’iniziativa di Grandi.
Lo avrebbe potuto fare fino all’ultimo istante di quella interminabile seduta, facendo entrare i militi nell’aula dopo aver fatto scattare il dispositivo blocca-porte di cui aveva il comando davanti a sé. Si trattava di un piccolo apparecchio a pulsante fissato sotto il piano del lungo tavolo a ferro di cavallo attorno al quale sedevano i votanti.
Al Duce sarebbe bastato premere un bottone per decretare la fine dei congiurati, e di certo molti altri lo avrebbero fatto. Riuscite a immaginare un Hitler o uno Stalin, ma anche un qualunque altro dittatore, che dice: «Va bene, voi mi avete tolto la fiducia e allora io mi faccio da parte»? In casi del genere, da che mondo è mondo, è corso del sangue. In particolare Stalin, per molto meno, fece scomparire centinaia di potenziali avversari prima ancora che si pronunciassero contro di lui.
Mio padre invece era affascinato dall’ineluttabile. Forse davvero si riprometteva, come disse a mia madre, di far arrestare Grandi, ma io credo piuttosto che pensasse di recuperare terreno affrontandolo a tu per tu e rinfacciandogli tutti i privilegi che gli aveva fatto avere. Dico questo perché so che mio padre, quella notte, prima di coricarsi chiamò al telefono Grandi senza trovarlo. So anche che si illudeva perché in seguito ci disse che, attorno alle sei, Scorza lo aveva chiamato per dirgli che molti dei firmatari dell’ordine del giorno, primo fra tutti Cianetti, volevano ritrattare la loro adesione.
A Palazzo Ven...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il duce mio padre
  4. REFERENZE FOTOGRAFICHE