La sfida del cambiamento
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La sfida del cambiamento

Superare la crisi senza sacrificare nessuno

  1. 304 pagine
  2. Italian
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La sfida del cambiamento

Superare la crisi senza sacrificare nessuno

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Il dissesto economico e le tensioni sociali che stanno mettendo in ginocchio l'Europa sono il segno di una ben più profonda e radicata crisi culturale. A venire meno non sono soltanto le istituzioni governative, ma i paradigmi ideologici e le certezze che per anni le hanno sorrette. È necessario un ripensamento delle pratiche di gestione del bene comune, un cambiamento che riaffermi la priorità delle iniziative sorte "dal basso" e che rimetta al centro della vita civile l'uomo, la famiglia e tutti quei soggetti sociali dei quali, per troppi anni, si è rifiutato di riconoscere la funzione pubblica. I saggi raccolti in questo volume indicano come gli stessi cittadini possano farsi motore della crescita, se non ostacolati dallo Stato; come ognuno di noi, facendo appello al proprio senso di responsabilità e alle risorse illimitate del proprio "desiderio socializzante", possa dare vita a una iniziativa sociale a misura d'uomo, in grado di fornire risposte concrete ai bisogni della collettività e dei singoli individui.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858633595

Per un welfare sussidiario

Il welfare tra crisi e innovazione: paradigmi a confronto

di Ivo Colozzi

1. I fattori di crisi del welfare state

Il sistema di politiche sociali legato al modello di welfare state è entrato in crisi negli anni Ottanta del secolo scorso per una serie di ragioni, alcune delle quali interessano tutti gli Stati nazionali, mentre altre si sono evidenziate maggiormente in alcuni Paesi e hanno, quindi, un carattere peculiare.
Fra le cause di ordine generale indichiamo:

a) la globalizzazione dell’economia.

La globalizzazione dell’economia ha messo in crisi gli Stati europei che avevano adottato il modello di Stato sociale rallentandone la crescita economica, in quanto nel nuovo contesto i costi per le politiche sociali appesantiscono il sistema Paese e riducono la competitività delle aziende nazionali rispetto a quelle localizzate in Stati-nazione che, avendo livelli più bassi di protezione sociale dei lavoratori, possono contare su costi del lavoro ridotti. Più in generale la globalizzazione ha reso obsoleto lo schema economico elaborato da Keynes. Non è più vero che per dare impulso all’economia è sufficiente ridurre i tassi di interesse e incrementare la spesa pubblica e che per frenarla (se c’è un rischio di inflazione) è sufficiente aumentare i tassi. In un’economia senza confini territoriali l’espansione della domanda in un Paese può causare una crescita occupazionale in un Paese diverso, da cui vengono prodotti i beni più richiesti. Oppure può non avere riflessi positivi sull’occupazione perché la produttività può essere ottenuta con l’innovazione tecnologica, cioè sostituendo la forza lavoro con l’uso di computer e robot. Inoltre, la riduzione dei tassi di interesse può indurre gli investitori stranieri a portare all’estero i loro capitali. D’altra parte, il rallentamento della crescita economica, che produce comunque un aumento della disoccupazione strutturale, rende difficile nel lungo periodo mantenere livelli elevati di spesa pubblica. Un ulteriore fattore di cambiamento prodotto dalla globalizzazione è la cessione di sovranità nazionale a favore degli organismi politici ed economici sovranazionali o transnazionali, come l’Unione europea, il FMI (Fondo Monetario Internazionale), la Banca Mondiale. Tali organismi possono oggi vincolare ad esempio l’ammontare massimo della spesa pubblica in percentuale del PIL, costringendo di fatto gli Stati a rivedere il loro sistema di welfare;

b) il livello troppo alto del debito pubblico.

La spesa sociale, in base al principio keynesiano del deficit spending, è una delle voci che più ha contribuito negli ultimi decenni a portare il debito pubblico, cioè l’ammontare complessivo dell’indebitamento dello Stato verso terzi in percentuale del PIL, a livelli che in alcuni casi (come quello italiano) superano addirittura l’ammontare complessivo del PIL o che toccano, comunque, percentuali superiori alla metà. In termini più attenti all’economia reale che alla finanza, potremmo dire che quando il livello di indebitamento supera certe soglie, diventa problematica la prospettiva di un ulteriore sviluppo economico «sano» del Paese, cioè uno sviluppo con bassi tassi di inflazione. Dal momento che la spesa sociale incide in maniera molto significativa sulla dinamica del debito, ne deriva la necessità di rivedere il sistema di protezione sociale che tale spesa produce;

c) un tasso eccessivo di pressione fiscale.

È un aspetto strettamente collegato a quello precedente. Se un Paese ha un debito molto alto, può essere costretto ad aumentare la pressione fiscale (cioè l’insieme delle proprie entrate) per ridurlo o, quantomeno, per non espanderlo. Tale aumento può consistere in un inasprimento della fiscalità generale e/o in un aumento dei contributi pagati dai lavoratori e dai datori di lavoro per finanziare i sistemi assicurativi di protezione sociale (ad esempio le pensioni). Il problema è che in una economia aperta, cioè globalizzata, un livello di tassazione troppo elevato produce effetti negativi sulla crescita dell’economia perché induce a trasferire sia le imprese che i capitali finanziari in Paesi dove il costo del lavoro e la tassazione sui profitti d’impresa e sui capital gains (incremento di capitali) sono più bassi;

d) i cambiamenti socio-demografici.

In tutti i Paesi europei nel periodo di espansione del welfare state si è registrato un aumento dei tassi di invecchiamento della popolazione, dovuti sia all’abbassamento dei tassi di natalità, scesi sotto la soglia di riproduzione della popolazione, sia al prolungamento della durata media della vita, e una conseguente crescita molto spinta delle spese per le pensioni e delle spese sanitarie. Ciò, oltre che aumentare in assoluto la spesa sociale, ha creato problemi consistenti di equità fra le generazioni, nel senso che la distribuzione della spesa pubblica, finanziata tramite prelievo fiscale, rischia di penalizzare i giovani e di favorire gli anziani.1 Inoltre l’aumento molto forte del numero degli anziani parzialmente o totalmente non autosufficienti ha messo in difficoltà le reti pubbliche di assistenza e sostegno, costrette sempre più ad appoggiarsi alle reti familiari e parentali.2 Queste, d’altra parte, vanno perdendo la loro capacità di tenuta sia perché la minore natalità ne ha ridotto le dimensioni strutturali (cioè il numero dei componenti su cui distribuire i carichi del lavoro di cura), sia perché sono sempre più interessate da processi di indebolimento e di rottura a causa del diffondersi di separazioni e divorzi. Ne è conseguita una contraddizione strutturale tra aumento dei bisogni e riduzione della capacità di risposta, che ha prodotto una crescente difficoltà delle famiglie;

e) le nuove immigrazioni.

La spinta alla globalizzazione, il forte invecchiamento della popolazione, il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro per quanto riguarda in particolare i lavori che richiedono scarsa qualificazione e molta fatica fisica: sono alcune delle ragioni che hanno portato negli ultimi trent’anni a un costante aumento, nei paesi della Comunità europea, della presenza di immigrati extracomunitari. Questo processo non è avvenuto e non avviene in forma «razionale», cioè secondo logiche di programmazione dei flussi in base all’offerta di lavoro e rispettando le procedure previste dagli accordi internazionali per l’immigrazione. Parte anche consistente degli immigrati è arrivata clandestinamente nei nuovi Paesi; non ha il permesso di soggiorno, oppure l’aveva ma è scaduto; lavora in nero o svolge attività illegali. In tutti questi casi gli immigrati non possono richiedere la cittadinanza o una forma equivalente che consenta loro di godere dei diritti sociali che il sistema di welfare garantisce ai cittadini. Nonostante questo hanno bisogni e devono poter contare su forme di protezione in società che tendono a essere sempre più «rischiose» (Beck 2000). Si pone, quindi, il problema di andare oltre il modello basato sulla tutela dei diritti di cittadinanza, e di estendere le garanzie anche a chi non è cittadino, ma gode dei diritti riconosciuti dalle varie Carte dei diritti dell’uomo;

f) le nuove povertà e patologie sociali.

Un esito «paradossale» della crescita del benessere e dei modi di vita che a questo si accompagnano, consiste nel fatto che produce forme nuove di povertà, sia di tipo materiale, nel senso che aumenta la percezione dei bisogni insoddisfatti e con essa la percezione di deprivazione relativa, cioè di vivere peggio della media dei propri concittadini, ma soprattutto di tipo relazionale (allentamento dei legami parentali, sparizione dei rapporti di vicinato, riduzione delle reti amicali). Si sono, inoltre, diffuse nuove patologie sociali, come la tossicodipendenza, e nuove «epidemie», come la violenza diffusa e gratuita nei confronti di persone e cose. Nella logica riparativa, cioè di predisposizione degli interventi dopo che si è manifestata la patologia o il problema, che è tipica del welfare state, il crescere di questi fenomeni tende a produrre un continuo aumento delle spese per nuovi servizi che molto spesso dimostrano di non essere in grado di risolvere i problemi in campo. In altri termini, si potrebbe dire che di fronte al modificarsi della fenomenologia dei bisogni, il modello tradizionale di politica sociale mostra utilità marginali descrescenti, cioè un saldo costantemente negativo fra costi e benefici;

g) la modificazione del sistema occupazionale.

In tutti i Paesi avanzati il welfare state ha accompagnato, reso possibile e, in certa misura, perfino «prodotto» una modificazione del sistema occupazionale nel senso di: una consistente e costante riduzione dell’occupazione nel settore primario (agricoltura); una crescita molto significativa di quello secondario (industria) e del terziario pubblico. A partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento, invece, è cominciata una riduzione importante degli addetti all’industria, mentre è cresciuto il settore dei servizi sia di tipo tradizionale che di tipo avanzato, cioè dei servizi legati all’utilizzo delle nuove tecnologie telematiche (terziario e quaternario o terziario avanzato). Si è inoltre assistito a un blocco o a un forte contenimento delle assunzioni nel pubblico impiego, direttamente prodotto dalla «crisi fiscale dello stato» (O’ Connor 1977) e alla crescita molto forte della domanda di lavoro flessibile. Questi cambiamenti hanno reso relativamente marginali, anche sul piano quantitativo, le classi sociali che più hanno voluto e difeso il modello di Stato sociale (cioè la classe operaia e il pubblico impiego) e i sindacati che le rappresentano. Questi possono continuare a giocare un ruolo politicamente importante trasformandosi in organizzazioni di tutela dei pensionati e delle altre categorie che dipendono dal welfare state, come in effetti stanno facendo in molti Paesi, compresa l’Italia, ma le categorie emergenti sono quelle del lavoro autonomo e a forte mobilità, categorie che sono meno favorevoli alla logica del welfare tradizionale, basata su prestazioni standardizzate, anche perché i nuovi lavori sono caratterizzati da percorsi che produrranno sempre maggiore differenziazione e che pertanto necessitano di forme di garanzia molto più flessibili e individualizzate.3 Le modificazioni accennate hanno riflessi importanti anche sulla famiglia. Ne sottolineo due, che mi sembrano i più rilevanti: la forte riduzione del tipo di famiglia che costituiva l’asse portante del modello di welfare state, cioè la famiglia che fa capo al male breadwinner, cioè al capofamiglia maschio unico procacciatore di reddito; la crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro e il continuo aumento della capacità di guadagno autonomo da parte delle donne, che ne riduce la dipendenza dal maschio (marito), ma esige nuove forme di tutela che rendano compatibili gli impegni lavorativi con le esigenze familiari;

h) modificazioni dei sistemi valoriali.

Anche come conseguenza dei cambiamenti che stanno interessando il mondo del lavoro, si stanno diffondendo molto velocemente «nuovi» orientamenti etici e culturali che producono una riduzione del consenso non solo nei confronti dei programmi e delle prestazioni dello Stato sociale tradizionale, percepite come eccessivamente standardizzate, burocratizzate, e non adatte a rispondere ai nuovi bisogni delle persone e delle famiglie, ma pure nei confronti di quelle politiche di solidarietà che favoriscono gruppi della popolazione le cui condizioni di debolezza possono, almeno in certa misura, essere imputate a comportamenti «colpevoli» o non legittimi, come gli alcolizzati, i senza fissa dimora o gli immigrati clandestini. In questo senso si può dire che a un livello più profondo sta andando in crisi l’idea di solidarietà sociale che sta alla base della concezione e delle pratiche dello Stato sociale tradizionale, sostituita da due orientamenti che Rodger (2004) ha definito «antimoderno» e «postmoderno». Il primo è caratterizzato dal recupero di una visione che sottolinea l’importanza dei valori forti e di una vita di comunità attiva, basata sul senso della virtù civica. Il secondo si connota per l’attenzione alla pluralità, spesso inconciliabile, di voci e di interessi che oggi caratterizzano le società «postfordiste» e per l’indicazione di strategie di politica sociale aperte al riconoscimento e alla tutela delle «differenze» oltre che delle diseguaglianze;

i) inefficienza, inefficacia, iniquità.

Secondo Donati (1998) i tre limiti indicati nel titolo del paragrafo sono particolarmente evidenti nel sistema di welfare state italiano e motivano da una parte il limitato consenso nei suoi confronti, dall’altra la necessità inderogabile di un suo oltrepassamento, anche indipendentemente dalle ragioni strettamente economiche e di bilancio che abbiamo indicato. Lo stato sociale italiano è inefficiente perché non c’è un rapporto accettabile fra costi e risultati; è inefficace perché la percentuale di obiettivi mancati e di norme non attuate è elevatissima; è iniquo perché i carichi non sono distribuiti in modo giusto; ci sono molti casi di redistribuzioni perverse (da chi ha meno a chi sta meglio) che riguardano le categorie occupazionali e le posizioni professionali, le generazioni, i sessi.
Per esemplificare sul tema dell’inefficienza, vorrei citare uno studio della CGIA di Mestre sul rapporto tra tasse e spesa sociale. Dall’analisi dei dati del 2005 si evidenzia come ogni italiano versasse all’erario in media 6.665 euro di imposte l’anno ricevendo in cambio sotto forma di spesa sociale solo 7.047 euro. Se confrontiamo l’Italia con due Paesi «forti» dell’Unione europea, la Francia e la Germania, con un livello medio di pressione fiscale più alto il primo, più basso il secondo, possiamo notare (tabella 1) una consistente differenza. I francesi pagavano allo Stato qualcosa di più di noi, in media 6.778 euro di tasse pro-capite, ma ricevevano in cambio 9.467 euro sotto forma di spesa sociale. I tedeschi pagavano solo 5.877 euro, cioè meno di noi, ma beneficiavano di un trasferiment...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. Per un welfare sussidiario
  6. Il caso italiano
  7. Gli autori
  8. Sommario