L'ardimento
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L'ardimento

Racconto della vita di don Carlo Gnocchi

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ardimento

Racconto della vita di don Carlo Gnocchi

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Gennaio 1943 fronte russo: un cappellano militare sopravvive miracolosamente alla battaglia di Nikolajewka e decide di dedicare la vita alla memoria degli alpini morti contro l'esercito dell'Armata Rossa, ai loro orfani, ai piccoli feriti dalle bombe. Quel sacerdote è don Carlo Gnocchi, il prete che il cardinal Schuster vorrebbe fare vescovo, che padre Gemelli vorrebbe tenere con sé all'Università cattolica e che invece realizzerà una delle più importanti opere di carità del dopoguerra. La vita di don Gnocchi è un susseguirsi di prove estreme, di sfide temerarie sull'orlo dell'impossibile, di gesti audaci realizzati con umiltà, attenzione quasi maniacale al dettaglio e il sorriso sulle labbra. Un'esistenza traboccante di "eccessi", come nota il cardinale Martini nella prefazione. Don Carlo vuol vedere i frutti dell'albero dei talenti che il Signore gli ha dato e non ha paura di rischiare, qualche volta di sbagliare. La straordinaria fioritura delle opere intraprese per i mutilatini e la grande popolarità guadagnata sul campo sono il sigillo di una vita guidata dalla fede nell'ideale. E la dimostrazione che Cristo, cambiando l'uomo, cambia il mondo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858630570

PREFAZIONE

«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,12). Queste parole di Gesù descrivono anzitutto la sua grande, immensa dedizione per il nostro bene: «Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Esse però intendono esprimere anche la regola del cristiano, del perfetto discepolo. Gesù dice infatti: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15). E ancora: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Se si pensa a come ha amato Gesù di Nazaret, cioè fino alle sofferenze e umiliazioni della passione e fino alla morte in croce, si scopre che queste parole non indicano semplicemente un’attenzione vigile per chi ci sta attorno, una misura ordinaria di dedizione, ma esprimono ed esigono una qualche forma di “eccesso” che supera le misure umane e appare alla sensibilità dei più come “esagerazione”. Si comprende così che nel quadro di questo “eccesso” stanno parole evangeliche come «se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5,39), «se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due» (Mt 5,41), «chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25), «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Sono queste anche le parole che vengono alla mente pensando alla vita di don Carlo Gnocchi, un sacerdote ambrosiano, vissuto nel secolo scorso e noto universalmente per quanto fece per i bambini mutilati di guerra, piegandosi con instancabile amore sulla “sofferenza innocente”. La lettura di una biografia come la presente ci mostra quali preparazioni di mente, di spirito, e quali indicibili prove siano alla radice della sua dedizione. Trattandosi di un prete che io non ho conosciuto personalmente, ma che appartiene a quella grande schiera dei preti ambrosiani di cui ho potuto ammirare per lunghi anni l’impegno e il coraggio nelle opere di apostolato e di carità, non posso che ringraziare Dio che ha donato anche ai nostri tempi una figura così vicina a noi e insieme così eccezionale e straordinariamente dedita alle necessità del prossimo.
Don Carlo era un uomo di una fine intelligenza, di una grande capacità comunicativa, un educatore nato, e si trovava perfettamente a suo agio con gli alunni del Collegio Gonzaga di Milano e con le famiglie, nell’adempimento dell’incarico di Padre spirituale. Ma queste sue doti dovevano essere vagliate e perfezionate nella sofferenza perché potesse realizzare il suo grande piano umanitario. Fu soprattutto il momento della guerra, con la spedizione in Russia a seguito degli Alpini e la tragedia della ritirata in pieno inverno, che misero don Carlo a contatto con i momenti più dolorosi dell’esistenza umana e con sofferenze indicibili, di fronte a cui si restava muti, come senza fiato, e la stessa fede in Dio veniva messa alla prova.
Don Carlo uscì da questa fornace ardente con un desiderio incontenibile di aiutare il prossimo e, in particolare, le vittime innocenti di quella guerra di cui aveva visto gli aspetti più drammatici. Il presente libro racconta queste cose e fa vedere come da esse si siano sviluppate quelle iniziative di carità competente e coraggiosa che fanno di lui un precursore nel campo della cura dei disabili e un pioniere nell’ambito allora appena incipiente della donazione degli organi. Da un altro punto di vista si potrebbe anche dire che don Gnocchi ha saputo essere un grande “imprenditore” della carità, con una genialità e creatività sempre rinnovate, che avevano la loro radice nella fede, nella speranza e nell’amore che gli bruciavano dentro e che avevano avuto nella campagna di Russia la loro “prova del fuoco”.
Per questo molti nella Chiesa desiderano che a don Carlo sia riconosciuta ufficialmente quella esemplarità di vita e di impegno propria dei santi. Leggendo queste pagine ciascuno potrà, senza prevenire il giudizio della Chiesa, farsi la propria opinione su quello straordinario “eccesso” di dedizione e di entusiasmo che ha caratterizzato la vita di questo grande prete, e che dovrebbe caratterizzare la vita di ogni discepolo del Signore.


CARLO MARIA CARD. MARTINI S.J.


8 gennaio 2006

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutato con i loro consigli nella stesura del libro. In particolare il Presidente della Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus, monsignor Angelo Bazzari, con cui ho discusso la personalità di don Gnocchi, Emanuele Brambilla che mi ha messo a disposizione tutti gli strumenti della Fondazione e Oliviero Arzuffi per il puntuale lavoro di revisione. Un grazie particolare a Silvia Giampaolo con cui mi sono quotidianamente confrontato nel corso del lavoro.


S.Z.

PROLOGO

LA TOMBA NEL GHIACCIO

Gennaio 1943, sull’immensa pianura russa è calato il buio. Gli alpini, che per tutto il giorno hanno combattuto contro i nemici, cercano un riparo per la notte. Quei soldati laceri, mandati al macello da Mussolini, vagano fra le isbe di Nikolajewka, un nome che entrerà nella storia come una pagina di eroismo disperato. Fra quei giovani che non vogliono morire per il gelo incombente c’è Giovanni Maria Ragazzi, comandante della pattuglia-staffetta “sci veloci”. Anche lui sta scrutando la notte con ansia crescente: il freddo pungente continua a salire. Meno trenta, meno quaranta. Le temperature sembrano giochi matematici, tanto appaiono irreali, lontane dalle nostre medie. E invece quel nemico invisibile e silenzioso stordisce e uccide. Senza pietà. Finalmente, Ragazzi ha trovato un tetto. Dev’essere una vecchia chiesa, una delle tante che il regime comunista ha snaturato e trasformato. L’uomo, stanchissimo, entra e a tentoni si ritaglia un angolo dove accucciarsi. Quel grande locale, malamente illuminato, è stipato da un’umanità afflitta e desolata. Meglio non guardare e dormire immediatamente. Meglio chiudere gli occhi. «Giovanni...» Giovanni è costretto a fissare un punto, una stringa immersa nel grasso che produce una debolissima luce. Osserva. Si avvicina, evitando quei corpi buttati sulla terra. Ma sì, non si è sbagliato: quel profilo chino, quasi inginocchiato nell’incertissima penombra, è quello di don Carlo, don Carlo Gnocchi, il cappellano della Tridentina. Don Carlo sta parlando con un soldatino che giace sdraiato, Silvio. È Silvio che l’ha chiamato. «Silvio! Sei ferito?» «Di più, è la fine!» Silvio e Giovanni sono amici, molto amici, ma ora quel vincolo di solidarietà sta per cedere alle leggi implacabili della guerra. «Ma no...» «Sì... voglio morire da alpino sulla neve, non in questo merdaio. Portatemi fuori, aiutatemi, convinci don Carlo.» Giovanni temporeggia: «Ma Silvio aspetta, non mi pare...». «Guarda», e l’altro scosta la coperta: il fianco è sventrato. Lo squarcio è spaventoso. Per tamponare l’emorragia qualche mano pietosa ha applicato sulla ferita una arlecchinesca collezione di pezze, passamontagna, stracci. Ma il sangue, sia pure lentamente, continua a uscire. E si porta dietro frammenti di interiora, come un fiume di detriti. È la vita che se ne va.
«In nome della nostra amicizia, nel ricordo delle tante giornate passate sulle nevi, per dire a mia madre, se potrai, che sono morto pulito, portami fuori!» Giovanni guarda don Carlo. Il cappellano fa un cenno con la testa: sì, bisogna ubbidire al morente. «Chi mi dà una mano?» I compagni si avvicinano, altri aprono un varco in quel groviglio. C’è un angolo intatto, sulla neve, nel punto esatto in cui Giovanni aveva lasciato gli sci. Quel fazzoletto immacolato di ghiaccio è il punto in cui far morire un amico. Sotto la volta della notte nordica. Silvio gli chiede di sollevargli la testa, poi pronuncia a fatica poche parole: «Preghiamo insieme, e tu don Carlo puoi assolvermi». «Padre nostro...», poi in un sussurro, «...che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il regno tuo...». Il ferito tace un attimo, come a raccogliere la voce, riprende in crescendo: «...Sia fatta la tua volontà...». Poi piano: «Così in cielo come in terra, dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti...». Silenzio. Il cappellano e l’amico premuroso si chinano su quel corpo sformato. Dieci alpini fanno loro corona. Immobili come sfingi. «Come noi» ora la voce è un soffio «li rimettiamo ai nostri debitori e non c’indurre in tentazione.» Altra pausa. Prima del grido finale: «Ma liberaci dal male».1 Giovanni sente il peso del corpo che si affloscia sul suo braccio. Don Carlo gli chiude gli occhi e lo benedice.
Don Carlo e Giovanni strappano un lembo della coperta, compongono una croce e gliel’appoggiano sul petto. A fatica, in segno di pietà, incrociano le mani congelate del defunto. Poi si danno da fare con le dita, con gli sci, con una gavetta. Lo ricoprono con la neve sino a formare un tumulo. Don Carlo si guarda intorno perplesso, poi ha un’illuminazione: si strappa la croce rossa dal maglione, sotto la giacca a vento, e la posa su quella tomba. Il ghiaccio la fissa immediatamente.
La croce. In quei giorni di morte e di degradazione e di lotta belluina per la sopravvivenza, don Carlo, quasi incredibilmente, scrive: «Ho visto il Signore». Com’è possibile? Eppure quella pagina di Cristo con gli alpini, delicatissimo libretto pubblicato proprio in quei mesi di guerra, è limpidissima: «In una dura giornata di guerra, io credo fermamente di averti intravisto, o Signore. Era un ferito già grave e presso a morire [...]. Senza parlare mi guardò. I suoi occhi erano colmi di dolore e di pietà, di volontà decisa e di dolcezza infantile. Al fondo vi tremava, attenuandosi, la luce di visioni beate e lontane. Come di bambino che si addormenta poco a poco. Non altrimenti dovette guardare Gesù dall’alto della croce». Qual è lo sguardo di don Carlo sulle miserie del mondo? «Provai improvviso il brivido gaudioso e lancinante della Veronica quando vide prodigiosamente fiorire il volto di Cristo sul suo lino bianco e spiegato.» Il lino bianco e spiegato è la neve russa, forse quell’angolo candido dove è morto Silvio. E tanti come lui. Ragazzi che il cappellano ha accompagnato nell’agonia. «Da quel giorno, la memoria esatta dell’irrevocabile incontro mi guidò d’istinto a scoprire i segni caratteristici del Cristo sotto la maschera essenziale e profonda di ogni uomo percosso e denudato dal dolore.»2
Don Carlo è «una colonna di fede». E di umanità. Così appare sulle rive del Don a don Aldo Del Monte, il cappellano della formazione sanitaria che molti anni dopo diventerà vescovo di Novara. La Russia ha incrinato le certezze di don Aldo: Dio gli appare silenzioso. Muto. Assente. «Don Carlo, sono io che vado male. Mi sembra spiritualmente di essere uno sconfitto [...]. Mi ha preso la paura di essere nella voragine dell’“inimicus homo”.» «Dai, don Aldo,» gli risponde don Carlo «mettiamo alla prova la nostra fede dicendo insieme un Pater Ave Gloria.» «Io» ricorda don Aldo «ritornai al mio reparto non del tutto guarito. Ma prima, a ogni soldato che moriva, io davo un abbraccio, quasi per arrestare il cammino della morte sentendomi uno sconfitto. [...] Dall’incontro con don Carlo, non più.»3 Il ghiaccio ostile non si è trasfigurato nel lino bianco di don Carlo. Ma è diventato un po’ meno nemico dell’uomo.

CAPITOLO I

UN PRETE INNAMORATO DI CRISTO

Gli occhi di don Orione. Gli occhi di un santo. Che cosa guardano gli occhi di un uomo proteso a Cristo? Il giovane don Carlo Gnocchi li scruta e ne è folgorato. Anni dopo, quando don Orione ha già lasciato questo mondo, li descrive e quel breve racconto è forse il miglior autoritratto di don Carlo che oggi conserviamo. Non un telegramma agiografico o un s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L'ardimento