La buona fede
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La buona fede

Sui fondamenti della morale

  1. 176 pagine
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La buona fede

Sui fondamenti della morale

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"Essere morali allo scopo di produrre ricchezza, esserebuoni per essere ricchi, significa non essere morali enon essere buoni." Emanuele Severino affronta la filosofia morale, la "ragion pratica", e discute della "virtù" sollevando il velo dei luoghi comuni sulla buona fede, l'etica della tradizione, il matrimonio cattolico, la preghiera, la volontà di verità. Dalla corruzione pubblica alle marce contro i pedofili, dalle implicazioni del "Padre nostro" ai fondamenti dell'etica laica, dalle pratiche contraccettive ammesse dalla Chiesa all'indifferenza dei popoli ricchi per le sofferenze di quelli poveri, tutti argomenti noti ma visti per la prima volta da una prospettiva radicalmente nuova, quale è quella di Severino. Attraverso l'analisi e la critica del pensiero di giganti come Platone, Aristotele, Spinoza, Kant, Bergson, Nietzsche, si snoda un intenso percorso di riflessione sull'essenza e sulle contraddizioni della ragion pratica, che conduce allo smascheramento e alla presa di coscienza della "follia dell'Occidente".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858630266

1

Sulla virtù

I

Da qualche tempo è venuta alla luce la profonda e inquietante corruzione della società italiana. Sembra che molto raramente, almeno nel nostro tipo di società, si sia verificata un’eclissi delle virtù della cittadinanza, paragonabile a quella dell’Italia del dopoguerra. Un primato che, come si suol dire, gli altri popoli non ci invidiano.
Giacché oggi non ci si limita alla constatazione delle carenze morali di un popolo: si sa che esse incidono negativamente sul buon funzionamento della società (come appunto sta accadendo da noi) e quindi sul livello e sulla qualità della produzione economica. Ormai si riconosce apertamente che la produzione della ricchezza, anzi ogni produzione di forme di potenza, richiede un certo grado di moralità dei produttori. Un discorso, questo, in qualche modo plausibile; ma plausibile, appunto, relativamente agli interessi della ricchezza e della potenza. Altrimenti esso perde di vista che essere morali allo scopo di produrre ricchezza (o, in generale, potenza), essere buoni per essere ricchi, significa non essere morali e non essere buoni. Il senso di un’azione è determinato infatti dal suo scopo, sì che se quest’ultimo cambia – se ad esempio lo scopo di un’azione non è più il bene morale, ma la ricchezza e la potenza –, solo apparentemente l’azione rimane ciò che essa era: in realtà è diventata qualcosa di essenzialmente diverso.
D’altra parte, anche la produzione di ricchezza è una virtù della cittadinanza. Che peraltro mobilita e coinvolge tutte le altre perché è la condizione della loro esistenza. La produzione di ricchezza, o in generale di potenza, coincide con la produzione della sopravvivenza, ossia di ciò senza di cui non sarebbe nemmeno possibile praticare tutte le altre virtù.
Ma anche produrre ricchezza allo scopo di vivere virtuosamente – essere ricchi e potenti per essere buoni, secondo quanto propone la nostra tradizione culturale – è un agire essenzialmente diverso dalla produzione di ricchezza in quanto scopo delle altre forme di virtù. Ciò significa che tra queste forme tende a prodursi una conflittualità, che la nostra tradizione culturale ha tentato di evitare pensando che le virtù molteplici siano forme diverse della virtù, dell’unica virtù che comprende in sé le virtù individuali e quelle civiche e che consiste nella volontà di perseguire il bene comune della società, il bene della pólis. La «virtù politica» è la totalità unitaria della virtù, di cui le altre virtù sono specificazioni. Montesquieu la definisce come «l’amore delle leggi e della patria», che «esige una continua preferenza dell’interesse pubblico al proprio privato» e che «dà luogo a tutte le virtù particolari», che «non sono altro che questa preferenza» (Lo spirito delle leggi, IV, 5). E l’«interesse pubblico» è appunto ciò che nel linguaggio della tradizione aristotelica, ripreso anche dalla Chiesa cattolica, viene chiamato «bene comune». In questa prospettiva, nessuna virtù particolare è lo scopo delle altre, ma ognuna è un modo specifico di praticare la virtù universale che persegue come scopo il «bene comune» della società. E le virtù della cittadinanza sono le stesse virtù dell’individuo, in quanto hanno come scopo il bene comune della società.
Ma se la virtù universale diventa impensabile e impraticabile – come appunto accade nello sviluppo della cultura e dei costumi dell’Occidente –, il conflitto tra le diverse virtù si riapre, i valori da esse perseguibili appaiono incompatibili; sì che, ad esempio, l’esser buoni per esser ricchi (dove il valore dominante, lo scopo, è la ricchezza) diventa incompatibile con l’essere ricchi per esser buoni (dove il valore dominante è la bontà).
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II

Se in una società la produzione della ricchezza è produzione della sopravvivenza di tale società, la produzione della sopravvivenza è insieme, nel suo significato concreto, produzione della forza, ossia della potenza che a tale società consente di prevalere sugli avversari, esterni e interni, dai quali è minacciata la sua esistenza. La forza, o fortezza – di cui la disponibilità di beni economici è una componente essenziale – è cioè la virtù civica che vale come condizione di tutte le altre.
Nel suo significato più antico, la parola latina virtus (da cui «virtù») significa appunto «forza», «potenza», «capacità». La virtù è forza, e riferita all’uomo significa forza e capacità di realizzare gli scopi che egli si propone. Lo stesso significato possiede l’antica parola greca aretḗ, che appunto corrisponde a virtus. È innanzitutto il linguaggio a indicare il riferimento di virtus e aretḗ alla forza o fortezza; sia la parola latina sia quella greca sono costruite su temi riconducibili al tema art, che è il tema del sostantivo ars, «arte». L’arte, nel suo significato originario, è appunto la capacità, la potenza, la forza di coordinare mezzi in vista del raggiungimento di scopi. L’arte è tecnica. E il tema art è riconducibile anche alla parola «fortezza»: il virt-uoso è il fort-e.
Che poi la parola «virtù» abbia finito con l’indicare una forma specifica di arte – l’arte che consente di essere felici, l’arte della felicità – è un fatto analogo a quello per il quale la parola greca poíēsis, che significa «produzione», ha finito con l’indicare quella forma specifica di produzione che è la produzione poetica, la poesia. La specificazione non cancella la dimensione specificata. Quando si ritiene che la virtù sia l’opposto della forza – come accade nella virtù cristiana dell’amore – , propriamente si contrappone alla virtù non la forza, ma un certo tipo di forza, ad esempio la forza bruta o malvagia (che da ultimo mostra di essere una debolezza), giacché per il cristiano l’amore è infinitamente più forte e potente di qualsiasi altra forza e potenza, in quanto fa addirittura guadagnare il Regno dei cieli e la vita e la felicità eterne.
Nelle Tusculane (II, 18) Cicerone scrive: «Appellata est enim ex viro virtus; viri autem propria maxime est fortitudo». (Virtus è chiamata così da vir [uomo]; giacché la fortitudo [coraggio, fortezza] è massimamente propria dell’uomo.) In Spinoza è ancora esplicitamente presente l’identità di virtù e potenza: «Per virtutem et potentiam idem intelligo; hoc est virtus, quatenus ad hominem refertur, est ipsa hominis essentia seu natura, quatenus potestatem habet quaedam efficiendi quae per solas ipsius naturae leges possunt intelligi». (Per virtù e potenza intendo la stessa cosa; ciò significa che la virtù, in quanto si riferisce all’uomo, è la stessa essenza o natura dell’uomo, in quanto ha la potestà di produrre certi effetti che possono essere compresi in base alle sole leggi della sua natura, Etica, IV, Def. 8.) E affermando che la virtù originaria e suprema è il conatus sese conservandi, «lo sforzo di conservare se stesso» (op. cit., IV, Prop. XXII), Spinoza rende esplicito il significato fondamentale che la virtù possiede nell’intero pensiero dell’Occidente. La virtù è la potenza che consente di essere, e cioè di mantenersi al di fuori del nulla. Per il cristianesimo essa fa entrare l’uomo nella vita eterna: con l’aiuto della grazia, la virtù sconfigge il demonio, il nemico mortale dell’uomo.
Kant è ormai lontanissimo dal concepire la virtù come forza mediante la quale si raggiunge lo scopo di prevalere sui propri avversari. La virtù è l’obbedienza alla legge morale, e tale obbedienza è autentica solo in quanto non ha scopi. Non si è virtuosi per essere felici. Tuttavia la virtù, per Kant, rende meritevoli della felicità. Sì che, proprio perché non intende valere come mezzo in vista di uno scopo, essa è il mezzo decisivo che consente di raggiungere lo scopo essenziale dell’uomo, cioè la felicità.
Kant continua infatti a concepire la virtù come forza: forza morale, fortitudo moralis: «la capacità [Vermögen] e il fermo proposito di resistere a un avversario forte ma ingiusto è il coraggio (fortitudo); e, in relazione all’avversario dell’intenzione morale che è in noi, è la virtù (virtus, fortitudo moralis)» (Metafisica dei costumi, Parte II, Introd., I). Qui la virtù è il coraggio (Tapferkeit), cioè la forza (Vermögen) e il fermo proposito con cui è combattuto un avversario che non minaccia soltanto l’esistenza di una patria, ma l’esistenza della virtù stessa, ossia di ciò che per Kant è la radice più profonda di ogni patria e di ogni esistenza autentica. Anche per Kant, come per l’intero pensiero dell’Occidente, la virtù suprema è la fortitudo, la potenza che contrasta l’avversario da cui è minacciata l’esistenza del «bene supremo» dell’uomo, che per Kant (e qui è la specificità del suo discorso, peraltro sostanzialmente riportabile al concetto cristiano della buona volontà) è la coscienza morale e la possibilità di darle ascolto. Ma anche quando dissente dal modo in cui Kant determina il bene supremo, l’intero pensiero dell’Occidente è concorde nel concepire la virtù come la fortitudo che difende, contro l’annientamento, l’essere di ciò che di volta in volta è considerato il bene supremo dell’uomo.

III

Quando, nel suo sviluppo, il pensiero dell’Occidente giunge alla conclusione che non può esistere un bene supremo che valga incondizionatamente e immutabilmente per tutti e per sempre, le singole forze del mondo umano identificano se stesse con il bene supremo, e ai loro occhi la virtù suprema è il loro stesso voler essere e la loro conservazione stessa; è cioè la volontà di potenza, che negli individui, nelle società, negli Stati si difende dai propri nemici – che per definizione, dunque, sono sempre «avversari ingiusti». Dal punto di vista dell’individuo, al di sopra di tutte le virtù civiche si pone quindi la propria volontà di sopravvivenza; mentre dal punto di vista della compagine sociale le autentiche virtù civiche sono le fortitudines da cui essa è difesa. Che lo Stato si ponga al servizio dell’individuo è un’esigenza centrale del mondo moderno; ma quando ci si rende conto che non può esistere un bene supremo, capace di unificare e subordinare a sé tutti i beni e tutte le virtù particolari, è inevitabile che, nello scontro tra i beni diversi e tra le diverse virtù, il bene dello Stato si costituisca come qualcosa di eterogeneo rispetto al bene dell’individuo e prevalga su di esso, e che in nome della «ragion di Stato» la subordinazione dell’individuo allo Stato esiga il sacrificio delle virtù in nome delle quali l’individuo si contrappone allo Stato, e perfino il sacrificio della stessa vita individuale.
Se la fortitudo soverchiante della compagine sociale fa sì che le virtù individuali siano subordinate alle virtù civiche, tale subordinazione prefigura la subordinazione alla tecnica da parte delle grandi forze che nella nostra civiltà si illudono al contrario di servirsi della tecnica per prevalere le une sulle altre. Se lo Stato è il mezzo con cui ogni individuo si difende dagli altri individui, è inevitabile che a ogni individuo la forza dello Stato appaia come qualcosa di irrinunciabile, che non deve essere indebolita e quindi non deve essere subordinata agli scopi e alle virtù individuali.
Assumere qualcosa come mezzo, infatti, significa sempre indebolirla rispetto al rafforzamento dello scopo, cioè rispetto alla forza in cui consiste la realizzazione dello scopo. Ma quando il mezzo non deve essere indebolito dal perseguimento dello scopo – perché, come nel caso dei rapporti sociali, la sopravvivenza dell’individuo dipende dalla sopravvivenza e dalla forza dello Stato – è inevitabile che il mezzo divenga lo scopo e che, per quanto riguarda quei rapporti, il bene e le virtù dell’individuo siano subordinati al bene e alla virtù dello Stato, e le virtù private alle virtù civiche.

IV

All’interno di questo quadro diventa comprensibile anche quel tratto dominante del Novecento che è stato la lotta tra il sistema democratico-capitalistico e il socialismo reale, i quali sono – insieme allo Stato fascista e nazionalsocialista – le fondamentali configurazioni dello Stato nel secolo Ventesimo. Oggi si tende a dimenticare che per entrambi gli avversari si è trattato di uno scontro mortale, e che quindi da entrambe le parti è stato adottato ogni possibile mezzo per prevalere sull’avversario: fino al punto da organizzare un sistema di offesadifesa, imperniato sull’armamento nucleare, che messo in moto avrebbe distrutto la terra – e, d’altra parte, così resistente ai logoramenti dovuti ai tempi di attesa della «guerra fredda» da essere capace di sopravvivere indefinitamente alle motivazioni ideologiche che ne avevano determinato la nascita.
Nello scontro tra sistema democratico-capitalistico e socialismo reale ognuno dei due avversari ha considerato e organizzato la possibilità di distruggere la terra per prevalere. La fortitudo, cioè la virtus di ognuno dei due sistemi antagonisti, ha organizzato la possibilità di distruggere se stessa, con la distruzione della terra, al fine di prevalere e di distruggere la fortitudo e la virtus dell’avversario. Il conatus essendi, la volontà di essere, ha organizzato, in ognuno dei due contrapposti sistemi, proprio allo scopo di essere, il proprio non essere, il proprio annientamento. Una volta che l’energia atomica era divenuta disponibile, non era più possibile evitare questa contraddizione: se la volontà di potenza e di esistenza, in ognuno dei due avversari, avesse rinunciato all’uso militare dell’energia atomica, e quindi alla contraddizione provocata dall’uso effettivo di essa sul piano militare, la volontà di potenza e di esistenza si sarebbe arresa all’avversario, si sarebbe lasciata distruggere. Era inevitabile che, in ognuno dei due avversari, la virtus, per salvare se stessa, organizzasse la morte della terra e di se stessa.

V

Proprio perché questa contraddizione rendeva impraticabile lo scontro atomico effettivo, dovevano essere praticati tutti i modi e adoperati tutti i mezzi che avrebbero consentito di non perdere terreno di fronte al nemico, identificato con l’«ingiustizia» suprema.
L’opinione pubblica ha percepito solo dall’esterno, e perfino in uno stato di distrazione incosciente, il carattere non solo epocale ma addirittura cosmico dello scontro tra capitalismo e comunismo (e infatti erano e rimangono in gioco le sorti del cosmo); ma nel frattempo lo scontro aveva piegato alle proprie esigenze e configurato le forme della società. Un processo, questo, che ha dovuto prender piede in tutti gli Stati appartenenti ai due blocchi contrapposti, innanzitutto nelle due Superpotenze; e che dunque si è imposto anche nel nostro paese, con un’intensità specifica dovuta alla presenza, in Italia, del più forte partito comunista del mondo occidentale e alla debolezza della nostra democrazia e del nostro capitalismo.
Ci si scandalizza, della gravità della corruzione della società italiana e si arriva persino a considerare la possibilità di una predisposizione genetica degli italiani alla corruzione morale. Parallelamente, si è creduto che con l’uso appropriato dello strumento giudiziario fosse possibile risanare la società italiana. In entrambi i casi si perde di vista il contesto mondiale che ha reso possibile la corruzione non solo in Italia.
Anche nelle più mature democrazie dell’Occidente capitalistico l’efficacia dell’organizzazione della lotta contro il comunismo ha richiesto la segretezza di tale organizzazione. Per essere efficace, la virtus o fortitudo democratico-capitalistica doveva sottrarsi allo sguardo dei nemici esterni e interni e dunque nascondersi, cioè sottrarre al dominio pubblico gran parte del suo esercizio per quanto riguarda non solo i piani militari, ma anche ogni altro piano e iniziativa volti a contrastare l’avversario sul fronte interno ed esterno. Ma poiché il carattere pubblico delle decisioni relative allo Stato appartiene all’essenza stessa della democrazia, è accaduto che la democrazia reale del nostro tempo, proprio per difendersi, abbia dovuto negare e danneggiare se stessa. Per sopravvivere, la democrazia parlamentare ha dovuto rinunciare a gran parte di sé. La virtù civica fondamentale, cioè la difesa del sistema, è stata costretta a rinunciare ad alcuni dei propri tratti essenziali, e dunque a una parte consistente del sistema da essa difeso. La difesa della legalità democratica ha dovuto adottare pratiche illegali. E, anche se in modo meno drammatico, la legalità dei rapporti capitalistici si è a sua volta difesa con procedure che sono illegali dal suo stesso punto di vista.
Per il sistema democratico-capitalistico, la necessità di negare se stesso al fine di sopravvivere è stata una contraddizione ulteriore, che insieme a quella sopra considerata (cfr. IV) ha formato il terreno di radicale incertezza e di perdita di identità del sistema, in cui ha potuto attecchire la disonestà individuale. Se lo stesso sistema democratico-capitalistico, per sopravvivere, ha dovuto negare e danneggiare se stesso (e considerazioni in qualche modo analoghe si possono sviluppare a proposito dei mezzi usati dal socialismo reale, che intendeva eliminare con la violenza le ingiustizie sociali), questo danno è stato il varco che ha consentito il passaggio delle forme di corruzione che erano volte al conseguimento di vantaggi individuali e che hanno determinato un ulteriore danno alla salute del sistema.
La corruzione morale – l’eclissi della virtus – non è un fenomeno patologico che aggredisca dall’esterno il sistema democratico-capitalistico, ma appartiene alla sua fisiologia, perché se, in nome dell’efficacia e dunque della segretezza del piano difensivo-offensivo contro il nemico mortale, non avesse agito contro le forme di legalità di cui esso stesso era il portatore, avrebbe rinunciato alla propria forza e si sarebbe lasciato distruggere da...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Avvertenza
  4. 1 - Sulla virtù
  5. 2 - L’ontologia del matrimonio cattolico
  6. 3 - Etica e tecnica
  7. 4 - La preghiera
  8. 5 - Verità e ragione pratica
  9. 6 - Verità e ragione pratica
  10. 7 - La buona fede
  11. 8 - Il «risultato» e il tempo
  12. 9 - L’«origine»
  13. Note al capitolo 3