Mila alla Scala
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Mila alla Scala

Scritti 1955-1988

  1. 576 pagine
  2. Italian
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Mila alla Scala

Scritti 1955-1988

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Massimo Mila ha fatto la storia della critica musicale in Italia. Ironico, umile, rigoroso, severo ma equilibrato, ha incarnato e incarna tuttora un modello per molti, l'esempio di uno stile critico di cui si sente la mancanza, fondato sull'onestà intellettuale e su una salda etica professionale. In questa raccolta vengono presentati oltre trent'anni di attività – dal 1955 al 1988, tra 'Espresso' e 'Stampa' – visti sotto la lente particolare degli articoli dedicati alle opere della Scala e della Piccola Scala. Perché se il lavoro di Mila ha guardato sia ai più celebri teatri del mondo sia ai piccoli enti di provincia, nessun istituto musicale e nessuna città hanno regalato all'arguzia della sua penna occasioni così continue e numerose. Pagine su cui sfilano i protagonisti della scena musicale e teatrale del secondo Novecento: Callas, Schwarzkopf, Bernstein, Abbado, Muti, Eduardo De Filippo, Strehler, Ronconi… Un'escursione unica nella storia della musica, vista dal palco del più prestigioso teatro d'opera italiano. Una guida fatta di prosa leggera e giudizi fulminanti, che costituisce un paradigma insuperato di giornalismo culturale e grande divulgazione.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858629697

UN «CRONISTA» ESEMPLARE

Il Teatro alla Scala ha sempre coltivato un rapporto molto stretto con Massimo Mila: lo testimoniano i numerosi saggi che il grande musicologo ha scritto negli anni per i programmi di sala del Teatro e, infine, questo volume del 1989 che conosce oggi una seconda edizione. E, va sottolineato, che fu questo il primo omaggio di un teatro d’opera alla memoria del critico scomparso l’anno precedente.
Sono qui raccolte le recensioni di Mila degli spettacoli scaligeri nell’arco di un trentennio: rileggere queste note è ancora un’esperienza importante perché riflettono una serietà professionale, una onestà intellettuale difficilmente riscontrabili nei cronisti musicali di oggi. Mi sembra perciò opportuno ricordare un episodio che, riguardandomi direttamente, bene dice non solo della serietà dello studioso, ma anche e soprattutto di un modo etico di esercitare la critica di cui s’è persa la traccia.
Tarda primavera del 1983. Ero stato appena nominato Direttore del settore musica della Biennale di Venezia quando a pochi mesi dalla manifestazione fui pregato dal presidente Portoghesi di predisporre un programma a tambur battente. Ricorrendo il centenario della nascita di Anton Webern presentai un Festival che non poteva altro che avere il carattere di una carrellata storica per celebrare quel compositore così importante nel panorama della musica del Novecento. Quel programma, allestito in soli due mesi, venne da molti «critici» aspramente giudicato, in particolare da chi scriveva sul più importante quotidiano nazionale, il quale, con una malafede in tutto degna della sua sintassi difficoltosa, ebbe a dire che Webern era un autore di frequentissimo ascolto in tutte le sale da concerto e non aveva senso quindi riproporlo in sede festivaliera. Che Webern fosse un autore così amato e così conosciuto dal grande pubblico non mi pareva allora e non mi pare ancor oggi. Ma tant’è. Vennero, comunque, i giorni del Festival e ci fu un solo critico che ruppe l’embargo decretatomi: Massimo Mila, che non perse un solo concerto. Il critico forse più autorevole allora in attività, aveva sentito il bisogno di un nuovo incontro con un autore, da lui ben conosciuto, che tanta influenza aveva esercitato sulla musica contemporanea. Ciò mi colpì molto. Conservo gelosamente a distanza di tanti anni quelle recensioni, esemplari per la profondità dell’analisi mai disgiunta da una chiarezza espositiva, funzionale all’illustrazione di una musica di linguaggio ostico per il grande pubblico.
Un piccolo episodio che fece ulteriormente crescere in me l’ammirazione e la stima per Massimo Mila, studioso e critico d’altri tempi.

Carlo Fontana
Sovrintendente del Teatro alla Scala
Febbraio 2001

CARO MILA...

CAPELLI GRIGI, ABITO BLU, il programma di sala sottobraccio, lentamente Mila scivolava in platea tra la folla. Pronto al saluto, sorrideva agli amici e ai colleghi che incontrava. Eppure rimaneva composto, schivo, parco di parole, come già col pensiero alla musica: al nostro lavoro e al suo lavoro. Questo sentivamo e vedevamo, noi gente del teatro.
Durante lo spettacolo, qualche rapido appunto nel buio, il binocolo a portata di mano, tutta l’anima al palcoscenico e all’orchestra. Durante gli intervalli spesso restava seduto, o in piedi accanto alla sua poltrona: forse per rifiuto di mondanità, di convenevoli, di chiacchiere vane.
Nessuno, neanche i più intimi, a fine serata avrebbe potuto svelare che cosa ne pensasse Mila e, tanto meno, che cosa ne avrebbe scritto l’indomani. Nessuno può dire di averlo mai visto nel camerino di un cantante, di un direttore, di un solista. Nessuno l’ha mai potuto contare tra gli ospiti d’una cena importante, di un dopo-Scala ufficiale.
Personalmente lo conoscevamo poco. Moltissimo però lo conoscevamo e lo aspettavamo come critico, prima sull’«Espresso» poi sulla «Stampa». Sapevamo che non perdonava nulla: ma appunto per questo i suoi complimenti erano più preziosi. Sapevamo che non veniva in teatro prevenuto, con certi giudizi prefabbricati, già stampati in testa. Non giudicava un cast, se non in base all’esecuzione.
Certo era il primo che andavamo a leggere. Per non trovarci impreparati: il giorno dopo in teatro molti ce ne avrebbero parlato. E perché leggerlo era un piacere, intelligenza, umiltà, rigore, ironia; quelle recensioni che erano anche storia della musica raccontata con stile disincantato; quell’esprimersi con esempi legati alla vita di tutti i giorni; quel sorridente paragonare talune abilità vocali con il gol di un centravanti o col «settimo grado» di uno scalatore. Caro Mila! Pagine di giornale qui diventano un libro, il primo, siamo orgogliosi di dirlo, dopo la dolorosa scomparsa, che rimarrà a testimonianza del sodalizio lungo e straordinario tra un grande critico e un grande teatro.
Carlo Maria Badini

IL MESTIERE DI CRITICO

A TARDA SERA, MOLTE SERE, MASSIMO MILA, dopo l’opera, dopo il concerto, entrava nella redazione della «Stampa» di Torino. Salutava i giornalisti tornati dalla tipografia, dove avevano appena chiuso la prima edizione: scambiava con loro frasi cordiali. Si guardava intorno, sceglieva una scrivania libera. Si sfilava la giacca, si sedeva, infilava il foglio nella macchina per scrivere, si metteva ritto, appoggiato allo schienale della sedia, braccia tese, mani composte agli estremi della tastiera. Stava un poco a pensare, a concentrarsi, come un pianista prima di suonare. Poi cominciava a lavorare, senza fretta, con battute regolari come i suoi passi di alpinista esperto. Raramente si fermava a controllare uno dei brevi appunti annotati, nel buio, sui margini del programma di sala.
Faceva così da quando, nel 1967, era succeduto a Andrea Della Corte. Aveva fatto così dal ’47, per vent’anni, quale critico musicale nell’edizione torinese dell’«Unità». E a lungo avrebbe continuato a scrivere subito dopo lo spettacolo, anche quando un armistizio generale aveva stabilito che le recensioni sarebbero state pubblicate, da tutti, all’indomani. Calmo, attento, all’occorrenza severo, intimamente forte dell’immensa sapienza musicale, dell’onestà di giudizio mai preconcetta, del limpido scrivere antiretorico. Ironico per natura e per cultura, parco di citazioni, insofferente del divismo, pronto a sostituire un graffio con un sorriso.
Pagine di alto giornalismo, che ebbe una sua prima vistosa vetrina sull’«Espresso» di Arrigo Benedetti, dalla fondazione, ottobre 1955, fino al giorno in cui Mila, su invito di Giulio De Benedetti, entrò nel grande quotidiano torinese e ne fece la sua palestra esclusiva. Neanche la tessera di pubblicista in tasca, come non ebbe mai tessere politiche. Ma tutti i ferri del mestiere in pugno, tutte le malizie, e un rarissimo stile il cui segreto era la semplicità.
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Mezzo secolo di attività, migliaia di articoli: piccoli o ampi specchi del saggista, che intanto collezionava libri di successo, da L’arte di Verdi a Lettura del «Don Giovanni» e agli altri studi mozartiani, passando per Compagno Strawinsky, per gli studi su Beethoven, Rossini, Bellini, Brahms, Wagner, Musorgskij, Strauss, Hindemith; per i contributi su Busoni e Dallapiccola, Petrassi, Maderna e Nono; per quella Breve storia della musica, che un giorno confidò di amare più d’ogni altro suo lavoro.
Da quella galassia di pezzi giornalistici, lo stesso autore aveva attinto qualche raccolta, come le einaudiane Cronache musicali 1955-1959. Ma decenni di militanza restano insondati. Ecco la prima ragione di questo volume: offrire il miglior saggio di Massimo Mila critico, fino all’ultima recensione; strappare subito all’effimero quotidiano, rendere per sempre leggibili, pagine che resterebbero altrimenti sepolte negli archivi o consultabili, per pochi, in microfilm.
Ma perché, tra i vari criteri di selezione possibili, sceglier il Teatro alla Scala? Perché l’idea di un’opera speciale era stata espressa dal suo Sovrintendente proprio il 26 gennaio 1989, prima rappresentazione di Oberon, con affettuosa prontezza dedicata alla memoria del musicologo appena scomparso. E quella sera stessa la proposta fu accolta dai vertici della Rizzoli.
Certo, suoi articoli memorabili sono legati anche ad altri celebri teatri del mondo o a teatri di provincia, dove Mila si spingeva volentieri: lontano dal detestato divismo, vicino al mestiere della musica, ai servitori della musica; dove andava a cercare più rari incontri e ad aiutare compagnie meno vistose, interpreti più schivi.
In ogni caso, però, nessun ente lirico, nessun istituto musicale, nessuna città aveva consentito all’arte di Mila critico così numerose e continue e splendide occasioni. Finalmente insieme, una dopo l’altra, queste pagine raccontano, come non era stata mai raccontata, la storia della Scala, i suoi personaggi e interpreti, gli eventi, le perfezioni e le imperfezioni, le convenienze e le inconvenienze teatrali, che la vede insostituibile marchio musicale, primo termine di paragone per le più imponenti e collaudate fabbriche di musica internazionali.
La quantità dei materiali, tratti dall’«Espresso» e dalla «Stampa» (non dall’«Unità», su cui Mila svolgeva un’attività critica limitata alle pagine di Torino), imponeva il sacrificio degli interventi dedicati ai concerti e ai balletti, per offrire invece intatte le cronache della Scala e della Piccola Scala, sacra alla nuova musica che non cessava di interessare lo studioso. Tra passioni e ritrosie, acute osservazioni e arguzie, il critico crociano e laico, libero e dolcemente fermissimo, narra e spiega. Testimone d’eccezione, scandagliatore del passato ma pronto a schierarsi con gli esploratori delle più estreme frontiere del suono, trova la strada per una moderna idea della critica.
r.g.
a.s.
Si ringraziano per la collaborazione: la signora Anna Giubertoni Mila, i direttori della «Stampa» e dell’«Espresso», l’associazione Amici della Scala.

LO STILE DI MILA

Lo stile di Massimo Mila è la prima idea che insorge, leggendo, rileggendo il già noto. Sì, lo stile, della cultura e del pensiero – di tutta una vita -, tradotto nella scrittura, nel linguaggio critico. Un organismo che si compie appunto come stile. Sta al principio di una vocazione, di una personalità, e ne suggella il risultato.
È l’idea che mi ha inseguito durante il percorso degli scritti qui raccolti: quelli per «L’Espresso» – poi parzialmente raccolti nel volume Einaudi del 1959 (Cronache musicali 1955 – 1959)e quelli per «La Stampa» di Torino, sino alla morte (26 dicembre 1988), dettati nelle occasioni di «prime alla Scala».
La nozione di stile non rivela mai divisione tra lo scrittore e il giornalista; senza distinzione di tono o di livello tra il saggio critico e la recensione obbligata dalla cronaca. Del resto la qualità stilistica era sempre stata presente anche negli scritti non musicali: letterari, civili o politici (in particolare ricordo un elzeviro, sempre su «La Stampa», in memoria di un personaggio singolare ed eccezionale, nostro comune amico, Franco Antonicelli) e infine certe prefazioni per mostre pittoriche, per artisti che gli erano vicini nella cultura e nell’ambiente torinese (penso soprattutto allo scritto per Felice Casorati).
Si rende così evidente come non esistano scarti di qualità, e di lessico, anche a distanza di anni. La distanza, ad esempio, tra i Saggi mozartiani del 1945 e, nell’ultimo decennio, la Lettura delle Nozze di Figaro e del Don Giovanni (Einaudi, 1979 e 1988) che ebbero origine universitaria; tra questi e gli articoli per «L’Espresso» e per «La Stampa», su temi ancora mozartiani. L’origine universitaria dei due libri citati dice anche molto sulla funzione di «maestro». È noto a chi abbia conosciuto la vita culturale di Torino, quanto fossero frequentati i suoi corsi universitari. E proprio da lui – che non ebbe mai cattedra – uscirono musicologi oggi in ruolo e cattedratici. Un’anomalia che la cultura ufficiale riserva talvolta a intelligenze libere. Libertà che lo portò giovanissimo al carcere fascista, e che nella maturità lo vide con le armi in pugno nella lotta per la Liberazione.
Nelle fasi iniziali venne indicata in lui un’ascendenza crociana. E certamente, in sede storiografica e morale, nella temperie di allora, per Mila come per altri giovani estranei ed ostili alla cultura di regime, la lezione e l’esempio di Croce furono presenti. Non soltanto la simpatia per un giovanissimo già circondato ai suoi inizi da consensi significanti avrà suggerito al Croce di far pubblicare dal suo editore Laterza Il melodramma di Verdi (1933), ma può ipotizzarsi (nonostante la nota avversione di Croce alla musica), a posteriori, una consentaneità in ordine alla chiarezza del pensiero estetico, volto all’ordine dei valori, senza intrusioni diverse. Mentre in ordine allo stile critico-storiografico, per i giovani migliori, in quegli anni, la lezione di Croce ebbe incidenza speculare. Penso soprattutto a Teoria e storia della storiografia e alla Storia come pensiero e come azione, anche se in volume i saggi prima apparsi vengano riuniti nel 1938, cioè a una data già scontata nella formazione di Mila. Certo, la cosiddetta «estetica delle vette» si afferma presente nell’elaborazione verdiana, tanto da provocare legittimi contrasti quando, più avanti negli anni, la necessità di vedere alla ribalta, alla luce esecutiva, le opere del Verdi giovane, tutto il Verdi anteriore al 1850, diventerà ineluttabile, raffermandosi quale operazione vitale. Contrasti che spinsero Mila perfino a gratificar di «cretini» quanti ritenevano necessaria la ripresa per I Masnadieri, l’Attila, I due Foscari, e volevano almeno una volta nella vita ascoltare in teatro l’Oberto e Il finto Stanislao, Il Corsaro e l’Alzira. Va anche detto però che nei successivi studi, dove i materiali del primo saggio laterziano venivano rifusi e ampliati (ancora da Laterza nel 1958, per le edizioni ERI nel 1974, e infine nell’Arte di Verdi, Einaudi, 1980), le rettifiche di tiro appaiono sensibili.
Henri Matisse l’ha scritto: «Un’opera d’arte muta di significato a seconda dell’epoca in cui la si esamina». Non si dice che Mila abbia teorizzato l’incoerenza (gustosa definizione ch’egli mi ha attribuito...), ma durante oltre mezzo secolo il movimento delle impressioni e del giudizio ha costituito in lui l’elemento portante, in sintonia o in contrasto con quanto avveniva in Italia e in Europa, non senza legami congeniti con certi caratteri «torinesi». Si pensi, in proposito, all’antifascismo torinese, ai «maestri»; alla pittura e alla letteratura, la musica o il teatro (il Gruppo dei Sei, Lionello Venturi, l’azione di Riccardo Gualino, e tutti i nomi che sappiamo, fuori dall’ufficialità e dal regime).
Cade dunque a proposito l’occasionale citazione di Matisse circa i mutamenti di significato di un’opera d’arte, riallacciandoci alle rettifiche di tiro sul «Verdi giovane». Infatti, a differenze di epoca, a timbri diversi del tempo culturale, sono connesse le differenze di attitudine critica. Penso, oltre che a due scritti qui raccolti per Mathis der Maler di Hindemith (1955 e 1958), soprattutto al percorso compiuto sul tema strawinskyano, nel volume Compagno Strawinsky, che riunisce tutti gli scritti lungo cinquant’anni sul musicista, nel quale è conferma di quel «mutar di significato a seconda dell’epoca». Constatandosi il rapporto tra tutta l’opera strawinskyana e lo snodarsi degli anni e dei fatti. Infine, è il rapporto con la storia di una personalità e di un’epoca, ridato nella affascinante narrazione critica. Ugualmente a come è stata recepita, da una generazione giunta oggi al suo limite, la storia di un Picasso o di un Thomas Mann, per citare – di proposito – due protagonisti del secolo, ben lontani l’uno dall’altro.
Così, lungo le riletture dell’occasione presente, la distinzione crociana di poesia e non poesia poteva talvolta porsi quale limite – o remora – nel dimidiare i fattori tecnici, specie sul versante esecutivo. Senonché, a un certo punto, in Mila, interviene l’allargamento della nozione-limite, elaborandosi l’altra nozione ricca di conseguenze: cioè il consapevole e l’inconsapevole del fenomeno d’arte che trova compimento nel volume L’esperienza musicale e l’estetica (Eínaudi, 1950), che si vorrebbe veder letto ancora oggi, per suoi valori e sensi ben duraturi. Dove piuttosto che la radice crociana sembra muoversi un rapporto con certa cultura francese (visceralmente odiata dal Croce insieme ai suoi archetipi letterari e poetici: si, Mallarmé, Valéry – il ritornello tedioso e insistito; Baudelaire appena tollerato... il malsano nell’arte, ecc.). Penso al tempo della fortuna di Gisèle Brelet, alle discussioni di allora, con le ascendenze bergsoniane e le variazioni intorno all’élan vital e alla durée. Gli spazi conquistati all’asse teorico consapevole-inconsapevole avevano già trovato realtà critica nello spazio tematico sugli autori. E appunto il volume Cento anni di musica moderna (Rosa e Ballo, 1944, poi EDT Musica, 1981, con una prefazione nuova). Casella, Busoni, Respighi, Rossini e Musorgskij: un eclettismo di soggetti saldato all’organismo stilistico unitario e alla unità concettuale del comportamento. Un libro felicissimo, che ebbe lunga eco, e che regge con energia alla rilettura di oggi.
Il fatto già indicato, che non esiste scarto tra il saggista e il giornalista, riconduce alla raccolta presente. Poiché nei resoconti teatrali e concertistici c’è l’arte di farsi leggere, prerogativa non certo frequente nella critica musicale. Ne vengono i modi descrittivi per un’opera, una serata, tali da render chiara la realtà teatrale e musicale anche a chi in teatro non c’era stato. In quei modi espositivi si nota la sobrietà aggettivale, specie riguardo ai fattori esecutivi. Mila non perde la testa per direttori d’orchestra o registi(!) o cantanti. Non saccheggia un vocabolario per insaziabilità aggettivale, anche perché in lui il servilismo di clan non ha mai luogo. C’è un metro di base che connette i mezzi esecutivi al testo interpretato: esecuzione e rappresentazione, cioè, quale medium tra chi l’opera ha inventato e chi l’ascolta. Che è certo l’attitudine realistica onde non cercare nell’opera e nella sua esecuzione quello che non c’è e non può esse...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Mila alla Scala
  4. BIBLIOGRAFIA