Rinominare il mondo
Che cosa significava per te, quando l’hai realizzata, l’opera che rappresenta il papa accasciato a terra, colpito da un meteorite (La Nona Ora, 1999)?
Oggi potrei parlare del legame tra il papa e mio padre, del rimando alla figura paterna, ma non è così che è nata la cosa. All’inizio il discorso era più vicino a quello delle casseforti se vuoi, al mettere in scena il contrasto che esiste tra il potere e la vulnerabilità. Dovevo fare una mostra a Basilea, in Svizzera. Sono andato in biblioteca e ho sfogliato una montagna di libri e riviste, finché non mi è capitata sotto gli occhi una fotografia del papa. Ecco che cosa fare, mi sono detto: una raffigurazione del papa in piedi in mezzo alla galleria. Ho dato inizio alla produzione, un processo complicato, perché era la prima volta che realizzavo una figura umana. Mi sono rivolto a uno scultore del Musée Grévin, il museo delle cere di Parigi. Più passava il tempo, meno l’idea mi convinceva. Però non avevo nessun progetto di riserva, io lavoro solo in vista delle mostre, non ho uno studio, devo cavarmela da solo nel tempo che mi viene concesso. Una volta finita ho capito che non avrei potuto esporla così, in piedi, che bisognava distruggerla, ma non sapevo come. Poi ho pensato che sarebbe stato interessante farlo apparire come un intervento dall’alto, un intervento divino, come avrebbe detto mia madre. Allora sono andato in montagna a cercare il pietrone che rappresenta il meteorite. Quando si è trattato di segare la scultura in due ho provato un autentico shock, sono restato due ore in galleria senza riuscire a fare nulla. Dovevo uccidere il padre per conquistare la libertà, è stata una vera e propria lotta edipica!
Che cosa ti ha indotto, di lì a poco, a realizzare Him (2001), un’opera che rappresenta Hitler delle dimensioni di bambino in ginocchio, intento a pregare?
È stata di gran lunga la cosa più rischiosa che ho mai fatto. Da molto tempo volevo realizzare un lavoro che parlasse del male assoluto, ma non trovavo mai l’occasione giusta. La soluzione formale è arrivata all’improvviso, a ridosso di un invito a fare una mostra in Svezia. Ho pensato che la Svezia, un Paese neutrale, sarebbe stato il posto ideale per realizzare un’opera del genere, come era stata la Svizzera nel caso dell’opera con il papa. Con questi due Paesi, i legami c’erano ma erano sottili, quasi come le funzioni «Easter Egg» che trovi nei dvd o nei videogiochi, una chiave che dà accesso a universi nascosti. Nel caso del papa si trattava delle Guardie svizzere, e dell’idea che in qualche maniera fossero venute meno al loro compito di protezione. In Svezia era l’ambigua posizione che avevano assunto durante la Seconda guerra mondiale, quando dietro un’apparenza di neutralità in realtà sostenevano abbastanza apertamente la Germania nazista. Era insomma un luogo adatto per accogliere un’opera non tanto provocatoria in sé, ma la cui interpretazione poteva risultare complessa. A quel punto la scelta della figura di Hitler si è imposta in modo naturale. Tutt’altro che scontato, invece, era il modo di rappresentarla. Tra il momento in cui mi hanno proposto di fare quella mostra e la sua realizzazione è passato più di un anno, e l’idea non progrediva. Poi un giorno, guardando dei documenti che mi avevano mandato per un’altra mostra, mi è caduto l’occhio su una figurina che non c’entrava nulla con quello che avevo in mente e l’immagine che cercavo è arrivata spontaneamente. L’architettura del centro Färgfabriken si prestava perfettamente: è un ex edificio industriale, ha un’aria solenne, ricorda una specie di cattedrale.
Perché volevi realizzare un lavoro sul male?
Il male assoluto è un po’ il rovescio speculare della spiritualità assoluta. Se esiste qualcosa di tanto grande come Dio, allora deve esistere qualcosa di altrettanto estremo nel registro opposto, quello del male. Him incarna entrambe le facce, e forse è per questo che risulta così inquietante. Rappresenta la parte negativa di noi stessi, la possibilità del male, ma parla anche dell’altra metà, capace di opporsi al male. Ognuno di noi porta dentro di sé sia il bene che il male. Il risultato di quello che siamo è una scelta.
Era la prima volta che affrontavi questo tema. Opere precedenti come Lullaby non parlavano del male, ma piuttosto dell’esperienza della violenza.
Lullaby si riferiva a una perdita. Non so se il problema del male sia un tema sul quale io sia mai tornato...
Prendiamo l’opera che hai installato in una piazza di Milano, quella dove si vedevano dei bambini impiccati a un albero (2006): si può dire che quella, per esempio, affrontasse il problema del male?
C’era chiaramente qualcosa di violento ma non era una rappresentazione del male, piuttosto della sua applicazione. Era una raffigurazione letterale della storia di Pinocchio. C’è una parte del libro in cui Pinocchio viene appeso per il collo a un ramo, quindi mi sono accontentato di usare quella storia e di tradurla, usando tre bambini al posto di uno, bambini in carne e ossa e non burattini di legno. In Pinocchio, in effetti, se uno si lascia prendere dalla storia si trova di fronte a un incubo dopo l’altro: una volta Pinocchio viene impiccato, un’altra iniziano a bruciarlo. Non ricordo più se qualcuno mi ha letto Pinocchio quando ero bambino, ma come favola per bambini è piuttosto violenta.
Quindi l’opera si riallaccia alla tua infanzia?
No. A dire il vero l’idea originaria non aveva nemmeno nulla che vedere con Pinocchio. Volevo fare qualcosa in uno spazio pubblico, e ho scelto un punto molto particolare di Milano, dove un enorme albero secolare cresce nel bel mezzo del traffico. Milano non è certo famosa per i suoi parchi o le sue aree verdi, e questo albero, non lontano dal posto dove abitavo, mi ha sempre colpito, perché non capivo come avesse potuto sopravvivere per tutti quegli anni. Il progetto, insomma, è partito da una situazione, da un luogo, prima di diventare un’immagine. Avevo in testa quell’albero e volevo fare qualcosa che potesse trovare posto tra i suoi rami. Tra l’altro sul tronco era inchiodata una targa alla memoria dei caduti della Resistenza. Forse, inconsciamente, ho immaginato che gli alberi di quella zona fossero stati usati per giustiziare dei partigiani. Non ricordo se sia stata la targa a suggerirlo, ma è probabile che mi abbia fatto pensare a qualcosa del genere. A quel punto optare per delle figure di bambini è stata una scelta naturale, quasi scontata. Mettere in scena degli adulti non avrebbe funzionato, bisognava che fossero dei bambini.
La violenza della reazione ti ha sorpreso? Quell’opera ha fatto scandalo, ed è stata smantellata da un abitante del quartiere nel giro di tre giorni.
Non mi ha sorpreso perché già durante l’installazione avevo avuto modo di rendermene conto da solo. Arrivare sul posto con tre bambini nel bagagliaio dell’auto era un’immagine piuttosto strana, ma appenderli nottetempo ai rami di un albero è stato come rievocare un linciaggio. Era ovvio che sarebbe successo qualcosa, il risultato era sconvolgente. In termini visivi non è un’immagine che mi faccia impazzire, non è certo il tipo di cosa di cui uno tenga a conservare il ricordo, però è potente, ti mette in difficoltà quando ti ci ritrovi davanti. Mi ricordo la mattina stessa prima della mostra, quando camminando verso la piazza ho iniziato a intravedere le sagome appese agli alberi. Ho capito subito che sarebbe potuto succedere qualcosa. Tempo prima, durante una mostra a Varsavia, un politico locale aveva cercato di «soccorrere» il papa togliendo il meteorite. Che un abitante della zona potesse decidere di tirare giù i bambini, quindi, era una possibilità ampiamente prevedibile. Devo riconoscere che io stesso avevo dei dubbi, ero tentato di smantellarla molto presto, perché immagini come quelle devono vivere nella memoria, nel passaparola. Non devono durare troppo a lungo se non vogliono perdere la loro forza. In un certo senso quella persona mi ha fatto un favore.
Secondo te perché la gente si è così scandalizzata? L’arte contemporanea è piena di immagini violente.
Li ha scandalizzati perché non era al riparo dentro i confini di un museo o di una galleria, era in un luogo pubblico, in mezzo a tutti, dove nessuno si aspettava di trovarla. Milano non è poi così una città d’avanguardia come dicono. Anche se i media, la moda e il design sono le voci principali dell’economia, ha ancora dei vecchi quartieri dove la mentalità è molto meno aperta di quanto si potrebbe credere. Qualche mese più tardi Harald Szeemann mi ha invitato a partecipare alla Biennale di Siviglia e l’ho riallestita in maniera diversa, con un bambino solo, non più impiccato a un albero, ma a un pennone. C’erano tre aste portabandiera, e al posto di una delle bandiere ho messo il bambino. Non si trattava più di uno spazio pubblico come a Milano, era un luogo recintato, eppure anche così si è scatenato un putiferio, la gente si è inferocita, ma Harald è stato inflessibile, ha avuto la forza di lasciarlo dov’era, e passato il primo momento di tensione, non ci sono più stati problemi.
Realizzare un’opera del genere era un modo per tornare a un atteggiamento politico?
Non credo. La si può leggere in quei termini per varie ragioni, non ultima il fatto che era collocata in uno spazio pubblico, ma non l’ho realizzata con quelle intenzioni.
Tu non sei più un artista politico, ma sei considerato un artista provocatore... Eppure non ti servi delle ricette canoniche della provocazione, per esempio nei tuoi lavori il sesso è assente.
Perché dovrebbe esserci di mezzo il sesso? Perché le opere d’arte dovrebbero essere glamour o sexy? Qualcuno di recente ha fatto la stessa osservazione, ma io non saprei che cosa rispondere, non so perché nelle mie opere il sesso sia assente.
Nel tuo repertorio non ci sono neppure rappresentazioni di ferite, malattie e violenze, anche se il tuo lavoro parla spesso di morte. Sbaglio?
Di violenza se ne vede fin troppa nella vita reale. Non serve che me ne occupi io.
In compenso ti occupi di un tema poco comune, quello del fallimento.
Sì, forse perché è qualcosa che ho imparato a conoscere molto presto! Come ti ho già detto, la scuola ha avuto un effetto negativo su di me, è stato un apprendistato al fallimento. È una fortuna che non mi abbia completamente distrutto. L’arte mi ha permesso di fare i conti con il problema, di parlare delle cose di cui avevo paura.
Che funzione ha, per te, l’arte?
Per me personalmente, la funzione principale dell’arte è stata quella di salvarmi e darmi una dignità che fino a quel momento non avevo, o se vogliamo un modo di esprimermi che nella mia vita precedente sarebbe stato impensabile. Oggi l’arte significa per me far vedere le cose da un punto di vista leggermente diverso, da un’altra angolazione. Non sempre quello che fai è interessante o pertinente, ma a volte riesci a toccare un nervo scoperto, a prendere qualcosa che è sotto gli occhi di tutti e metterlo in una luce tale da risvegliare la gente, farla pensare o discutere. Non saprei dire se sia un bene o un male, ma almeno questo permette di aprire un dibattito, e un dibattito è sempre un momento positivo e istruttivo, anche quando le parti sono in disaccordo.
Quindi la funzione dell’arte è far vedere il mondo in modo diverso e dare da pensare?
Be’, tu mi hai chiesto che funzione ha avuto l’arte per me, non che funzione abbia in generale. Questo è un po’ quello che mi aspetto io dall’arte ma chiaramente non è tutto, alcune forme d’arte possono vivere della sola bellezza, ma nel mio caso si tratta soprattutto di rinominare il mondo e di mettere in luce delle cose che altrimenti avresti guardato senza davvero vederle.
Ti sei mai servito della bellezza?
La bellezza in quanto tale non mi interessa molto. Però si può usare la bellezza come uno strumento per creare qualcosa che sconvolga profondamente, forse un giorno la userò per trasmettere in modo apparentemente inoffensivo qualcosa di estremamente inquietante. Sarebbe interessante coniugare il culmine della bellezza con il culmine della bruttezza.
Quanto conta, per te, il concetto di novità?
Pochissimo. L’unico concetto di novità che ho in testa quando comincio un progetto è non ripetere quello precedente. A volte ho il timore di aver sviluppato una sorta di stile da cui devo sforzarmi di sfuggire e combattere contro l’influenza del mio stesso lavoro. La ripetizione è una forma di morte prematura. Ci tengo a progredire, però il nuovo fine a se stesso non mi interessa.
Tu non credi che l’arte possa cambiare la società o l’uomo, come potevano crederlo gli artisti delle generazioni precedenti. Sbaglio?
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