Mal di merito
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Mal di merito

L'epidemia di raccomandazioni che paralizza l'Italia

  1. 234 pagine
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Mal di merito

L'epidemia di raccomandazioni che paralizza l'Italia

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Roma, 1990: uno stanzone traboccante di plichi e scatoloni è l'archivio raccomandazioni del sottosegretariato alla Difesa. Quindici anni dopo, nel 2005, si scopre che le Poste hanno un database il quale, oltre alle richieste di assunzioni e promozioni, contiene anche le lettere di risposta – tra i destinatari, persino due cardinali. La "spintarella" è il sistema più usato in Italia per far muovere i lavoratori da un posto all'altro. Ma è anche il modo più sicuro di immobilizzare il Paese intero. Perché livella ogni merito, azzera qualunque formazione, blocca la ricerca. Dal settore della sanità a quello universitario, dagli scambi di poltrone del grande capitalismo al micro-nepotismo della piccola impresa, questa inchiesta ironica e incalzante racconta il colossale spreco delle menti migliori di generazioni di italiani. Il genio della sperimentazione sulle staminali che fugge all'estero perché qui deve "aspettare il suo turno" per essere promosso; il brillante fi sico costretto a comprare meteoriti su eBay e analizzarli nel tinello; il barone che con una telefonata "fa fuori" da un concorso un promettente cardiologo e molti altri. Attingendo alla propria esperienza, Floris rivaluta l'individualismo meritocratico degli anni Ottanta e analizza il Sessantotto cogliendone, oltre ai meriti, alcuni inediti demeriti. Rievoca le avventure di un giovane giornalista e dei suoi coetanei in un'Italia medioevale, fatta di caste, castelli e feudi inespugnabili. Diagnostica senza pietà la malattia degenerativa che distrugge le migliori cellule della società, una progressiva paralisi che minaccia il futuro di tutti e che la classe dirigente del Paese non può o non vuole curare. Ma, tra Steve Jobs e Alberto Sordi, Floris individua anche esempi di resistenza e possibilità di ripresa. Ci vorrà una cura da cavallo, ma l'Italia dal mal di merito può ancora guarire.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858620250
Seconda parte
I controlli
1
Il futuro ereditario
Un supereroe per amico
Verso la fine degli anni Novanta il Giornale Radio mi mandò in Sud America per una lunga inchiesta mirata ad approfondire le debolezze delle economie dell’area, le stesse debolezze che avrebbero in seguito portato l’Argentina a dichiarare default, nel dicembre 2001. Preparai un lungo viaggio che mi avrebbe condotto in diverse nazioni, e contattai quindi le varie ambasciate, in modo da ottenere un aiuto e qualche appuntamento una volta sul posto. Scoprii che un importante funzionario di una nostra ambasciata era un mio compagno di università, un simpaticissimo ragazzo romano con cui avevo diviso la preparazione di vari esami.
Arrivato nella sua città andai a cena da lui e, mentre il maggiordomo in livrea ci serviva in uno splendido salone un’amatriciana preparata in mio onore, il mio amico mi raccontò un episodio molto divertente.
Un paio di settimane prima la famiglia era venuta a trovarlo dall’Italia e si era scatenato un feroce litigio tra suo padre, che era andato a salutarlo sul lavoro, e l’usciere dell’ambasciata che non voleva farlo entrare, non ricordo per quale motivo. Urla, insulti e forse qualche spintone, a sottolineare che il mio amico non discendeva da una casata di diplomatici, e tutta l’ambasciata basita, affacciata alle finestre, per vedere come andava a finire.
Lui raccontava l’episodio ridendo come un matto e sottolineava la morale: era diventato di colpo evidente ai colleghi che nel suo caso non era stato il sangue blu a fare di lui un buon diplomatico, ma piuttosto quella determinazione e quel carattere che probabilmente aveva ereditato proprio dal padre. (Non ricordo che lavoro facesse quest’ultimo, ma di sicuro sulle pareti di casa non erano appesi i ritratti dei suoi avi.)
All’università, il mio amico era uno dei più bravi, forse il migliore. Era un’università privata, frequentata da molti rampolli della «Roma bene», e lui, con il maglione portato a pelle, il «Corriere dello Sport» sotto il braccio, solcava la piazzetta ricolma di yuppies incravattati e studentesse firmatissime per raggiungere l’aula e sedersi in un posto qualsiasi. Rideva e scherzava con chi gli era vicino, poi, quando iniziava la lezione, ascoltava e prendeva appunti. Il giorno dell’esame arrivava disteso, aspettava che lo chiamassero e si prendeva il suo 30. Salutava tutti e se ne andava. Raccontava che voleva fare l’ambasciatore, e considerato che molti degli iscritti al nostro corso avevano la stessa ambizione, ma che potevano adagiarla su doppi cognomi e pedigree millenari, tutti lo guardavano come si fa con un bambino che si ripromette, da grande, di fare il papa. Lo dico solo per inciso: si era anche innamorato di una bella ragazza che non voleva saperne di lui, e che naturalmente ora è sua moglie.
Lui era uno di quei supereroi che riescono a realizzare i propri sogni persino in un Paese come l’Italia, ma sorprese del genere sono rare.
Il Paese bloccato
In Italia è semplicissimo, conoscendo i figli, risalire al mestiere del padre. Siete con un notaio? Il padre fa il notaio. Siete con un avvocato? Il padre fa l’avvocato. Imprenditore? Padre imprenditore. Giornalista? Padre giornalista.
Operaio? Padre operaio. In particolare, se tuo padre fa l’operaio, preparati a combattere contro una società che farà di tutto per vedere anche te inchiavardato alla catena di montaggio.
Il sociologo Antonio Schizzerotto1 si è dedicato a un poderoso lavoro di catalogazione dei destini degli italiani: ha individuato le famiglie, ha controllato quali fossero le professioni dei padri e le ha confrontate con quelle dei figli. Ne è emerso il quadro inquietante di una società immobile, fondata sulle caste, un vero e proprio ritorno alle origini della nostra storia, quando erano lo status familiare e il contesto in cui si nasceva a determinare il futuro di una persona.
I calcoli, molto complicati, sono basati sulle cosiddette tabelle della mobilità sociale: a noi basti sapere che, in media, il 20,2 per cento dei figli di imprenditori e di liberi professionisti rimane nella stessa posizione dei propri padri, mentre solo il 3 per cento dei figli di operai riesce a diventare imprenditore, dirigente o libero professionista.
Essere figlio di un professionista è come un’assicurazione sulla vita: solo il 18,9 per cento dei figli di imprenditori, liberi professionisti e dirigenti scende verso quello che una volta si sarebbe chiamato il proletariato, mentre ben 7 figli di operai su 10 sono destinati a fare gli operai.
Domanda semplice: chi ci rimette se un figlio di un imprenditore non è portato per il lavoro del padre, ma ciò nonostante ne eredita l’impresa? E chi ci rimette se il figlio di un muratore è potenzialmente un genio della medicina ma è condannato alla cazzuola? Ci rimette il sistema (che vedrà fallire un’impresa e perderà un buon medico) e ci rimettono gli interessati, destinati in entrambi i casi a una vita di insoddisfazioni.
In una società di mobilità perfetta, calcola Schizzerotto, «dovrebbero fare gli imprenditori, i liberi professionisti e i dirigenti il 5,6 per cento dei figli di impiegati, il 5,6 per cento dei figli di lavoratori autonomi e il 5,6 per cento dei figli di operai. Il fatto che in realtà ben il 20,2 per cento dei figli di imprenditori, liberi professionisti e dirigenti faccia lo stesso mestiere dei padri e che solo il 3 per cento dei figli di operai riesca a diventare imprenditore, libero professionista o dirigente significa che siamo in presenza di un forte squilibrio competitivo tra soggetti di diversa origine sociale». Cosa vuol dire «squilibrio competitivo»? Vuol dire che se gareggiassero tutti sui 100 metri, i figli dei ricchi partirebbero dalla linea del via e i figli dei poveri si sistemerebbero 30 metri indietro, con una cintura di pesi piombati legata alla vita, senza scarpe, con il pubblico dello stadio che tifa contro e l’allenatore che ride loro in faccia.
«I figli degli imprenditori, dei liberi professionisti e dei dirigenti» spiega Schizzerotto «rimangono nelle posizioni dei padri quasi cinque volte più spesso di quello che si dovrebbe verificare qualora la società italiana garantisse un’effettiva uguaglianza delle opportunità.»
In Italia i figli di operai che riescono a diventare liberi professionisti sono tre volte meno di quanto accadrebbe in una società meritocratica, mentre i figli di operai destinati a ereditare il lavoro del padre sono circa sei volte di più di quello che sarebbe lecito attendersi se il destino di ognuno di noi dipendesse dalle proprie capacità.
Nel feudalesimo e nell’Ancien Régime i figli dei nobili restavano per sempre nobili, i figli dei cardinali diventavano cardinali, e i figli dei contadini facevano i contadini. Oggi non è cambiato niente: professioni e ricchezze si trasmettono con il dna. Esiste qualcosa di meno meritato del dna? Esiste qualcosa di più frustrante di pensare che il nostro destino ci scorra nel sangue?
La finestra sul (proprio) cortile
Una società in cui nessuno si aspetta nulla dal futuro, in cui in pochi hanno la speranza di vedere migliorare il proprio livello di vita è una società immobile, che non trova ragioni per cui crescere. Un Paese abitato da gente che non ha motivazioni è un Paese senza cuore, senza anima. Una comunità che si abitua alle ingiustizie e ai privilegi è una comunità povera, non solo spiritualmente, ma anche economicamente.
Quando parliamo dell’Italia parliamo di 60 milioni circa di persone, 60 milioni di cervelli che il più delle volte si confrontano sempre e solo con quello che vedono; imparano la vita osservando la propria famiglia, il proprio condominio, il proprio posto di lavoro, la propria città. La realtà che ognuno di noi ha davanti ai propri occhi è quella che forma il nostro modo di pensare, le nostre convinzioni, le nostre paure, il nostro coraggio.
Un figlio che non trova lavoro è per un padre un fallimento enorme, globale, il fallimento del sistema nel suo complesso, così come un’ingiustizia subita da un figlio, da una moglie, da un fratello è la più grande ingiustizia possibile. Chi perde la propria piccola battaglia odia tutto il Paese, chi perde una piccola speranza perde tutta la speranza del mondo.
Ci sono casi di cronaca italiana che non hanno avuto grosso risalto sulla stampa nazionale ma che, per chi li ha vissuti sulla propria pelle, hanno compromesso la credibilità dell’intero sistema Italia probabilmente in maniera definitiva. Prendiamo Francavilla Fontana, paesino della provincia di Brindisi: qualche anno fa un concorso comunale mise in palio 27 posti, e 22 di questi finirono assegnati a parenti e amici dei politici locali. «I giornali» scriveva «la Repubblica»2 «hanno dovuto catalogare i vincitori per linea parentale. Fidanzate, poi mogli, poi figli, cugini, nipoti.» Il posto da vigile urbano era andato alla fidanzata del figlio di un dirigente politico, mentre la futura nuora di un assessore era stata selezionata per il posto da istruttore amministrativo. Anche il fidanzato della figlia del ragioniere capo del Comune aveva vinto il concorso, e aveva stracciato la concorrenza anche il fidanzato della nipote di un senatore. Più brava degli altri era stata la moglie del capo dei vigili urbani, così come un impiego di livello si era assicurata la moglie del consigliere comunale del secondo partito di maggioranza. Ottimi anche i piazzamenti del figlio di un capogruppo comunale, del figlio di uno storico militante del partito di maggioranza relativa, dei due nipoti del senatore di cui sopra, oltre a quello della figlia della sorella della vicesegretaria comunale.
«I figli, notoriamente piezz’e core» raccontava il quotidiano «compongono la parte più nutrita del nuovo organigramma municipale»: il posto da geometra era andato al figlio del vicesindaco, alla figlia di un geometra prossimo alla pensione sarebbe andato il posto del padre, mentre diventava vigile urbano il figlio di un impiegato comunale.
Cosa insegna Francavilla? Intanto che il potere elargisce il lavoro. Ma anche che non serve far parte di un gruppo di potere per accedere a una raccomandazione, basta riuscire a intercettare un componente del gruppo. La fattispecie è quella del miracolo, della cooptazione ad nutum, del gesto grazioso di chi può, della liberalità da parte del potente che ti «tira su» e ti fa salire sul carro della vita.
La discrezionalità del potente è assoluta: come nelle favole, è il nobile che può forgiare il tuo destino, decidendo di raccoglierti per la strada e di portarti a corte. È il sottosegretario che bacia il rospo, e lo trasforma in principe.
Un mio collega lo aveva anche teorizzato: «Ai politici bisogna fargli pena» diceva. «Ti devi mostrare tapino tapino, così che possano mostrare la propria virtù aiutandoti a salire in sella sul loro cavallo. Per arrivare alla spinta giusta» concludeva «non devi essere potente, devi saper arrivare a un potente.» Tecniche di circonvenzione di potente: può sembrare assurdo, ma è così. Abitare nello stesso pianerottolo di un ministro può essere molto più utile che militare nel suo stesso partito; ha più possibilità di acchiappare una raccomandazione il vicino di casa al mare di un politico che non il povero portaborse che (magari in nero) lavora da un lustro alle sue dipendenze.
Il giovane che impara a farsi strada è quello che impara a non farsi notare, a non spaventare i potenti, a rassicurarli che non sarà lui a crear loro problemi. Il sistema insegna ai neofiti a piegare il capo davanti a chi ha il potere.
A questo punto non ci resta che rispondere alla domanda: ma in Italia, il potere, chi ce l’ha?
2
L’Italia del potere
La nostra classe dirigente
«La classe dirigente italiana risulta essere: lenta nel ricambio, scarsamente internazionale, maschilista e forte, soprattutto, nell’autolegittimarsi attraverso il consenso piuttosto che attraverso i meriti. In sostanza l’esatto contrario di come dovrebbe essere una classe dirigente di un Paese moderno.» Il giudizio, netto e perentorio, è di Pier Luigi Celli,1 direttore della Luiss, che con la sua università ha pubblicato il primo rapporto sulla classe dirigente italiana, uno studio corposo e approfondito che traccia un quadro piuttosto fosco della realtà nazionale. «Le élite si formano secondo diversi modelli» continua. «Il modello dominante è quello della corte, la cui regola è l’ossequio; un altro è quello del clan, la cui regola è la fedeltà. Poi c’è la tribù, fondata sul rispetto, e infine la scuola, in cui chi è arrivato al vertice insegna agli altri. Ma questi due ultimi modelli da noi sono poco diffusi.»
Il meccanismo di formazione (e ricambio) della nostra classe dirigente «è un meccanismo inceppato sin dalla scuola che si è sempre più liceizzata, e quindi tende a non sviluppare competenza, ma a accumulare conoscenze spesso disordinate. Una volta le università erano di meno e più selettive. Esistevano delle scuole di formazione aziendale ben strutturate come Olivetti, Eni, Fiat. Una volta c’erano i grandi apparati ideologici che formavano la classe dirigente, c’erano ad esempio le organizzazioni che facevano capo alla Chiesa, o c’erano i partiti politici, come ad esempio il Pci. Esistevano grandi apparati formativi, ed era impossibile fare carriera senza aver frequentato questi corsi. Ma le classi dirigenti» continua il direttore generale della Luiss «non nascono dal nulla. Nascono in certi contesti e hanno bisogno di formarsi e fare esperienza: oggi il sistema che produce conoscenza è piuttosto disarticolato, non esiste più una realtà che consente di fare esperienza duratura nel tempo». Si ha una gran voglia di arrivare subito, ma poi ci si scontra con strutture chiuse, che non lasciano spazio alle aspettative dei più giovani: il risultato è quello di sedimentare grandi frustrazioni.
Bisogna però fare una precisazione riguardo all’età degli italiani: sono convinto che un giovane possa essere un giovane cretino, oppure un giovane in gamba, così come un uomo maturo può essere un uomo maturo in gamba, oppure un cretino. Nella nostra inchiesta insisteremo sul fatto che in Italia l’età media delle varie classi dirigenti è piuttosto elevata, e questo non è un bene, perché per affrontare le tante sfide che si trova davanti il Paese serve il contributo di tutti, giovani, adulti e anziani. Il problema vero, però, è un altro: l’età media dell’insieme delle nostre classi dirigenti (élite politica, élite economica, élite culturale…) è all’incirca sui 60 anni, mentre una decina di anni fa stava sui 50. Il punto non è che sono anziani, il punto è che sono gli stessi di dieci anni fa, invecchiati, per l’appunto, di dieci anni. La media statistica invecchia insieme a loro, perché sono sempre gli stessi: diventano sempre più anziani con il potere addosso, in una società immobile, che non cambia mai guida.
Roma prima
Nell’antica Roma se si voleva accedere a un ruolo istituzionale, bisognava avere alle spalle un preciso percorso formativo, una carriera rigidamente definita. L’ordine di successione degli uffici pubblici si chiamava cursus honorum.
All’epoca della Repubblica romana e nei primi anni dell’Impero, per ottenere un determinato incarico, era necessario aver in precedenza assolto alcuni compiti, in una successione che alla fine garantiva una ragionata (in base ai criteri di allora) miscela di incarichi militari e politici, e che supponeva quindi che si arrivasse a un ruolo solo dopo aver mostrato capacità in un altro. Ogni ufficio aveva un’età minima per l’elezione, ed erano previsti intervalli minimi per accedere a uffici successivi, mentre le leggi proibivano di svolgere due volte alcuni incarichi. Aver tenuto ogni carica all’età più giovane possibile era considerato un grande successo politico.
A Roma non esisteva nulla di simile a quello che oggi sono i partiti politici, e questo legava la selezione alla reputazione personale dei candidati, o a quella della loro famiglia di provenienza: ovviamente quelli che provenivano dalle famiglie più importanti erano favoriti. Il nepotismo era una parte integrante del sistema.
Per accedere al cursus honorum bisognava aver servito dieci anni nella cavalleria romana (gli equites) o nello staff di un generale che in genere era parente o amico della famiglia di provenienza: i dieci anni erano considerati obbligatori per essere qualificati a un incarico politico, anche se nella pratica la regola non era applicata rigidamente. I passaggi successivi del cursus honorum erano elettivi.
Innanzitutto si diventava questore, ad almeno 30 anni, cosa che garantiva l’automatica ammissione tra i membri del Senato. A 36 anni, gli ex questori si potevano candidare per l’elezione a una delle quattro cariche di Edile, che comportava responsabilità amministrative con competenza su quelli che oggi chiameremmo i «lavori pubblici»: gli edili erano solitamente due patrizi e due plebei.
I sei Pretori (sostanzialmente degli amministratori della giustizia, che però potevano anche comandare una legione e avere l’incarico di governare, alla fine del loro mandato, province non assegnate ai Consoli) venivano eletti tra gli uomini di almeno 39 anni.
La carica di Console era infine la più prestigiosa, il vertice di una carriera riuscita. I Consoli (a un certo punto divennero due, in modo che uno controllasse l’altro) erano responsabili delle decisioni politiche della città, comandavano eserciti di grandi dimensioni e governavano, alla fine del loro mandato, province importanti; un secondo mandato come Console poteva essere tentato solo dopo un intervallo di dieci anni.
Roma adesso
Nella Roma, ovvero nell’Italia, di oggi è francamente difficile ricostruire un cursus honorum: non esiste alcun percorso da compiere, nessun criterio che regoli la formazione di un aspirante dirigente, né l’andamento di una carriera pubblica. «Esauriti i grandi laboratori del passato» si domanda Giuseppe De Rita2 «come i centri studi dell’Iri e dell’Eni, la Svimez di Saraceno e la Confindustria di Costa, il sindacato di Pastore o di Di Vittorio, la Banca d’Italia di Menichella, cosa offre oggi il panorama?» Una volta i canali erano istituzionalizzati, si faceva politica formandosi negli apparati politici, si governavano le aziende dopo aver fatto esperienza nelle aziende stesse. Adesso questi canali sono scomparsi, e chi aspira a far parte della classe dirigente non ha le possibilità di crescere di cui ha goduto chi nella classe dirigente c’è già. In pratica tutti hanno voglia di arrivare, ma nessuno sa quale strada imboccare: non studiano con profitto (e più in là parleremo del nostro sistema di studi) e soprattutto non possono imparare dal fare, perché il loro turno non arriva mai, e perché i potenziali maestri non hanno alcun interesse a f...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Introduzione
  5. Prima parte: Il virus
  6. Seconda parte: I controlli
  7. Terza parte: La diagnosi
  8. Quarta parte: La cura
  9. Note
  10. Apparati - Appendice