Cittadini a metà
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Cittadini a metà

Come hanno rubato i diritti degli italiani

  1. 250 pagine
  2. Italian
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Cittadini a metà

Come hanno rubato i diritti degli italiani

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Davanti alla legge — ma anche alla scuola, al lavoro, alla pensione, alla politica, alla nascita e alla morte, all'infanzia e alla vecchiaia — non siamo tutti uguali. In Italia i divari salariali tra uomini e donne sono più elevati che nella maggior parte dei Paesi europei, e le donne sono di fatto escluse dai ruoli di potere: nei ministeri sono la metà dei dipendenti, ma solo un sesto dei dirigenti e nei consigli di amministrazione delle grandi aziende del Paese sono solo una su cento. I giovani scontano a caro prezzo la flessibilità di un mercato del lavoro privo di un adeguato sistema di protezione sociale. La crisi ha colpito le fasce economicamente più deboli e l'altissima pressione fiscale non è compensata da una redistribuzione efficace. Anzi, siamo ai primi posti nella graduatoria dei Paesi dove la sperequazione tra ricchi e poveri è maggiore. Questa cristallizzazione delle disuguaglianze fa scivolare indietro il nostro Paese. Uno Stato che ha delegato il welfare alla solidarietà familiare e le scelte sui grandi temi della vita e della morte alla Chiesa cattolica, che non investe nei piccoli e non protegge i vecchi non autosufficienti, non riconosce le coppie di fatto e fatica a riconoscere diritti agli immigrati, è frutto di una democrazia debole e di una cultura politica e civile dove maschilismo, familismo e razzismo formano spesso una miscela esplosiva. Eppure, in questi anni duri, i cittadini a metà hanno continuato a esprimere la lorovoglia di dissentire, di contare, di condividere diritti e responsabilità. È, la loro, una disponibilità preziosa che va riconosciuta e coltivata perché porta in sé la forza di reagire, e il respiro per affrontare le sfide politiche, economiche, etiche e sociali che ci attendono.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
ISBN
9788858623800
Categoria
Sociology
Cittadini a metà

Cittadini dimezzati

Da che parte si può incominciare a discutere quando «la tua studentessa migliore, laureata con 110 e lode, fa la commessa ed è pure contenta perché le pagano i contributi e non è finita in un call center?» si chiede accorata la sociologa napoletana Enrica Morlicchio sul blog Perlasociologia.
Il problema centrale della democrazia italiana non è tanto la forte disuguaglianza nei risultati, nei punti di arrivo, quanto il peso che hanno su questi ultimi, quindi sui destini individuali, le disuguaglianze socialmente strutturate nelle condizioni di partenza, nelle risorse – materiali, culturali, di riconoscimento – necessarie non solo per sviluppare appieno le proprie capacità, ma per fare in modo che queste vengano riconosciute. L’origine sociale, inclusa quella territoriale, infatti, nel nostro più che in altri Paesi democratici e sviluppati, condiziona fortemente, per utilizzare il linguaggio di Amartya Sen,1 le possibilità di scegliere il tipo di vita che si vuole vivere
Le disuguaglianze sociali fondamentali sono, infatti, di due tipi. Esse riguardano da un lato l’accesso alle risorse materiali, dall’altro il potere di influire sulle condizioni di vita proprie e altrui e di ottenere riconoscimento. Le prime sono di tipo distributivo, le seconde di tipo relazionale e culturale. Tutte e due i tipi di disuguaglianza concorrono a disegnare una stratificazione sociale delle chance di vita che poco dipende dalle caratteristiche individuali e molto invece dallo status sociale attribuito al gruppo cui si appartiene, e alla cui appartenenza si viene appiattiti: perché donne, immigrati, di religione non dominante o senza religione, di colore diverso, di orientamento sessuale non standard e così via. Quando queste disuguaglianze sono cristallizzate al punto da costituire un serio impedimento alla possibilità di singoli e gruppi di sviluppare progetti di vita che vadano al di là dei confini segnati dalle posizioni di partenza, e di provare a realizzarli, siamo di fronte a una democrazia bloccata e a una gerarchizzazione delle possibilità di cittadinanza, con cittadini di serie A e di serie B.
Le ricerche degli piscologi sociali hanno mostrato che chi appartiene ai gruppi sociali più svantaggiati ha non solo progetti di vita più ridotti, ma un orizzonte temporale su cui proiettarli più breve di quello cui si riferiscono viceversa coloro che sono più fortunati. Come sostiene l’antropologo Appadurai,2 dal punto di osservazione dei gruppi sociali più poveri nei Paesi in via di sviluppo, la capacità di aspirare, ovvero di sperare in, e lavorare per, un futuro migliore, è la risorsa insieme più a rischio e più preziosa per chi è economicamente e socialmente deprivato. È una capacità individuale, le cui condizioni tuttavia sono socialmente strutturate. In Italia queste condizioni caratterizzano molte zone economicamente e socialmente arretrate del Mezzogiorno. Il susseguirsi di fallimenti dello sviluppo e il perdurare di un’assenza dello Stato a favore di logiche politiche clientelari hanno non solo impedito la riduzione della povertà e delle forti disuguaglianze, ma anche ridotto le capacità di sperare attivamente e realisticamente in un futuro migliore. Ci sono quindi buone ragioni per sostenere che nascere nel Mezzogiorno oggi, specie se da una famiglia in condizioni di povertà o con modeste risorse economiche, vincola fortemente i destini individuali delle persone, riducendone di conseguenza i diritti e la capacità di cittadinanza rispetto a chi nasce in altre parti del Paese e in altre condizioni.
Non è tuttavia solo la povertà a produrre destini bloccati e cittadinanze imperfette. Come ha documentato anche un rapporto Ocse del 2008,3 l’Italia è uno dei Paesi sviluppati in cui non solo la disuguaglianza economica è più elevata, ma l’origine familiare conta di più per le chance di vita individuali, in primis sul piano del reddito e della ricchezza. Anche a parità di titolo di studio, ovvero anche se genitori in condizioni economiche modeste investono, a prezzo di sacrifici, per portare i figli allo stesso titolo di studio di chi ha alle spalle genitori più abbienti, la ricchezza e la posizione sociale della famiglia d’origine sono i fattori decisivi per determinare il livello di reddito e ricchezza dei figli. Si tratta di un indicatore di una democrazia e una cittadinanza molto imperfette, nella misura in cui non realizzano la promessa di una corsa ad armi pari, senza handicap insuperabili. È la conseguenza dell’eccesso di affidamento alla redistribuzione intrafamiliare a fronte di una scarsa, oltre che squilibrata, redistribuzione sociale. Se l’intensità della redistribuzione intergenerazionale della disuguaglianza – di per sé un limite forte di ogni democrazia – non è un fenomeno nuovo, essa diventa insieme più drammatica e problematica per i destini individuali e per la stessa democrazia in un contesto, quale quello italiano attuale, caratterizzato da uno sviluppo bloccato. Anche i modesti «ascensori sociali» disponibili un tempo si sono ridotti se non sono spariti del tutto, riducendo le opportunità per le generazioni più giovani. E le politiche pubbliche sembrano accentuare ulteriormente le responsabilità di solidarietà familiare. In effetti, i giovani italiani sono tra i meno protetti entro la Comunità europea se si guarda al sistema di welfare, che lascia in larga misura alla solidarietà familiare il compito di agire come rete di protezione anche economica. In Italia, infatti, come ha documentato ormai una sostanziosa pubblicistica,4 le chance per i giovani sono molto scarse e sono diminuite rispetto alle generazioni precedenti, mentre la classe dirigente è tra le più vecchie e inamovibili. In questo Paese la famiglia è continuamente evocata come panacea di ogni problema sociale; ma è difficilissimo per le nuove generazioni farsene una se lo desiderano e le politiche sociali a favore delle famiglie sono tra le meno generose in Europa. Si lanciano invettive contro i bamboccioni ma si accetta che i giovani abbiano i salari di ingresso più bassi, e livelli di precarietà nel mercato del lavoro tra i più alti entro l’Unione europea.
Il caso dei giovani segnala che ci possono essere forti disuguaglianze nell’accesso al pieno riconoscimento come soggetti dotati di diritti, dignità, capacità, anche a prescindere dalle risorse economiche. Nel caso di chi è oggi giovane ciò dipende da un sistema di diritti e di distribuzione delle risorse collettive che non solo si affida principalmente alla famiglia, ma premia le generazioni più vecchie, senza essere in grado di adeguarsi alle nuove condizioni del mercato del lavoro e della collocazione, periferica, dell’Italia sul mercato internazionale. A ciò si aggiunge anche un sistema politico fortemente gerontocratico a tutti i livelli, che blocca di fatto la partecipazione ai processi decisionali di chi ha meno di quarant’anni. In altri casi, non legati all’età, le disuguaglianze di accesso al pieno riconoscimento dipendono dal peso rilevante che nel nostro Paese hanno, per la collocazione e il riconoscimento sociale degli individui, talune caratteristiche personali o di gruppo: che si tratti dell’esperienza migratoria o dell’esperienza etnica, dell’appartenenza di sesso o dell’orientamento sessuale, fino all’appartenenza religiosa.
Così gli immigrati, specie dai Paesi in via di sviluppo, spesso non si vedono riconosciuti pari valore e pari chance degli autoctoni negli scambi sociali e viceversa sono spesso oggetto di stereotipi che ne cancellano l’individualità. Dire «musulmano» o «marocchino», per esempio, apre nell’immaginario individuale e collettivo circuiti mentali che spesso bloccano il riconoscimento, senza sfumature, distinguo, riflessività. Neppure il riconoscimento della necessità di accogliere lavoratori migranti si traduce sempre in riconoscimento della legittimità dei migranti a formarsi una famiglia, ad avere accesso agli spazi pubblici, ad avere luoghi dignitosi di culto e così via, come testimoniano alcune ordinanze comunali. Persino i diritti internazionalmente sanciti dei minori alla propria famiglia possono venir sacrificati se un genitore è migrante non in regola con il permesso di soggiorno e quindi viene espulso. E le stesse persone e partiti politici che pretendono l’imposizione del crocifisso negli spazi pubblici come segno insieme di identità religiosa e identità nazionale faticano a riconoscere la legittimità del velo come segno identitario. I rom sono ancora un caso diverso. Che siano stranieri o italiani, vengono accomunati in uno statuto di diversità radicale e tendenzialmente sub-umana, che non permette la messa in moto di meccanismi virtuosi di modifica di atteggiamenti e comportamenti. Le condizioni intollerabili dal punto di vista degli standard minimi di igiene e sicurezza di molti campi rom fanno scandalo solo quando un episodio di cronaca nera o la morte di un bambino costringono, per un breve momento, a vedere ciò che succede. Ma ogni soluzione non occasionale rischia di scontrarsi con l’ostilità non solo delle persone che devono accettare la vicinanza degli insediamenti rom, ma delle stesse amministrazioni, fino a provocare la rottura di patti faticosamente negoziati. È successo a Milano quando, su richiesta dell’allora ministro dell’Interno Maroni, il sindaco Moratti bloccò l’assegnazione, a suo tempo concordata, di case popolari a famiglie rom, sollecitando, neppure tanto velatamente, un vero e proprio conflitto tra poveri.
La mancanza di riconoscimento pieno e di accesso a tutti i percorsi e chance di vita è stata storicamente l’esperienza delle donne: escluse dal potere sociale, ma spesso anche dall’accesso alle risorse culturali e simboliche, incluse quelle che consentono l’elaborazione di forme di (auto)rappresentazione autonoma. Si tratta di un’esperienza solo in parte superata, come testimoniano le vicende italiane anche recenti. Benché le donne dai cinquant’anni in giù siano ormai mediamente più istruite dei loro coetanei, continuano infatti ad avere più difficoltà a essere riconosciute come aventi pari competenze sia nell’ingresso nel mercato del lavoro, prima ancora di assumere responsabilità familiari, sia lungo tutto il percorso lavorativo. E sono sistematicamente neppure prese in considerazione ogni volta che si tratta di individuare una persona per una posizione di prestigio e di potere decisionale, che si tratti di un ministero di peso o della Corte Costituzionale, di una Authority o di una posizione in un consiglio di amministrazione, o alla direzione di un giornale. Di più, benché la maggior parte tra loro abbia un carico di lavoro pagato e non pagato complessivamente di molto superiore a quello degli uomini, dei loro compagni, non solo, proprio per questo, guadagnano di meno e accumulano una ricchezza pensionistica inferiore, ma sono anche spesso indicate come le parassite della spesa pubblica a motivo dell’età pensionistica più bassa e della concentrazione di vedove tra i fruitori della pensione di reversibilità. Infine, le donne, in Italia più ancora che in altri Paesi, hanno di fatto, ma per certi versi anche per legge (si pensi a talune norme invasive del corpo e della salute contenute dalla legge sulla fecondazione assistita), un diritto all’habeas corpus più ridotto di quello degli uomini. Più che in altri Paesi occidentali sviluppati, infatti, sono esposte più degli uomini alla violenza in famiglia e fuori e, allo stesso tempo, sono esposte alla accusa di «essersela cercata» a motivo della loro «incapacità» a contenere il desiderio e l’aggressività maschile, o a difendersene. Il tutto in un contesto di comunicazione pubblica (oltre che di pratiche da parte di uomini pubblici) che usa in modo estremo il corpo femminile e la sua rappresentazione. Modelli arcaici di femminilità e mascolinità sembrano aggiornati solo per quanto riguarda la caduta di ogni tabù nella esibizione e rappresentazione del corpo femminile – e delle donne esclusivamente come corpo – nello spazio e nella comunicazione pubblici, che si tratti di pubblicità o di trasmissioni televisive. Il confine tra messaggio pubblicitario e pornografia più o meno soft è in Italia molto più labile che negli altri Paesi europei. E il consumo di corpi (seminudi) femminili nei media è tra i più estremi – come osserva qualsiasi viaggiatore straniero o qualsiasi italiano abbia una qualche consuetudine con i media all’estero.
La costrizione in stereotipi riduttivi, quando non francamente negativi, che squalifica la rappresentazione di sé e insieme vincola le chance di vita, è stata ed è tuttora anche l’esperienza degli omosessuali, considerati come esseri umani insieme «danneggiati» e dannosi; per questo anche con minori diritti civili e sul piano delle relazioni affettive degli eterosessuali. Per impedire che si arrivi a una qualche forma di riconoscimento dei loro rapporti di coppia in questo Paese è stato fatto cadere un governo (il secondo governo Prodi). E nonostante siano spesso oggetto di violenza proprio per il loro essere omosessuali, il Parlamento ha più volte rifiutato di approvare una norma che consideri l’omofobia una aggravante specifica. Anche nel loro caso, come per le donne, l’habeas corpus continua a essere un diritto debole.
Una causa di cittadinanza imperfetta nel nostro Paese, infine, è anche la debole laicità dello Stato e della cultura politica dominante, senza particolari distinzioni tra orientamenti politici, anche se particolarmente evidente nella cultura, e soprattutto nelle decisioni normative, del centro-destra. Se la pretesa di intervenire nei processi legislativi imponendo il proprio punto di vista non è una caratteristica specifica della Chiesa cattolica italiana (si pensi al potere detenuto a lungo dalla Chiesa cattolica irlandese), certo ha trovato e trova in Italia un terreno fertile. La presenza del Vaticano nel cuore del territorio nazionale, la mancanza di un pluralismo religioso effettivamente paritario, unitamente a una classe politica insieme culturalmente povera e a democraticità debole, ha consentito e consente alla Chiesa cattolica italiana un potere di veto, di ricatto e di influenza sulle materie di suo interesse – dai cosiddetti «valori non negoziabili» al finanziamento alle scuole confessionali e alla loro trasformazione in «scuole paritarie», passando per gli sconti all’Ici e una distribuzione abnorme dell’8 per mille – impossibili altrove. Lo ammise anche un sacerdote giornalista spagnolo in un dibattito televisivo all’epoca del referendum sulla legge sulla fecondazione assistita quando, rispondendo alla domanda se sarebbe stato possibile in Spagna un simile penetrante intervento e mobilitazione della gerarchia religiosa a difesa di una legge, rispose negativamente, aggiungendo che solo in Italia la Chiesa cattolica se lo poteva permettere. Questo potere di veto e di ricatto si potrebbe contrastare solo se, oltre ad attenersi rigorosamente ai principi di laicità dello Stato, vi fosse, anche da parte dei responsabili politici, una elaborazione culturale e di strumenti di formazione e comunicazione pubblica conseguenti e adeguati. Sia la prima – rispetto dei principi costituzionali – che la seconda – una effettiva cultura laica – sembrano tuttavia del tutto estranei alla cassetta degli attrezzi culturali di cui dispone in media la classe politica italiana, a prescindere dalla collocazione.
Non si tratta di fenomeni del tutto nuovi. Al contrario, in molti casi hanno caratteristiche di lunga durata. Sono diventati tuttavia più visibili e inaccettabili nella misura in cui sono entrati in contraddizione con una società che cambiava, per quanto lentamente e con intensità diversa a livello territoriale e dei gruppi sociali. Soprattutto, nell’ultima decina d’anni i fenomeni di cristallizzazione delle disuguaglianze e di una cittadinanza troppo spesso ridotta si sono per certi versi accentuati, perché è aumentato lo scarto tra la rappresentazione della realtà codificata da norme spesso fortemente costrittive e le pratiche effettive, tra imposizione di modelli culturali omogenei (di famiglia, sessualità, religione) e pluralizzazione degli stessi, tra aspirazioni dei singoli e opportunità loro aperte. Sono anche aumentate le disuguaglianze tra i gruppi sociali, in particolare agli estremi, e tra chi detiene il potere decisionale – a livello politico, economico, religioso – e chi invece deve subirne le decisioni. Questo scarto appare tanto più intollerabile quanto più non riguarda solo risorse e opportunità, ma la stessa adesione alle norme, incluse quelle dell’uguaglianza di fronte alla legge, alla equità, al rispetto reciproco, alla solidarietà tra cittadini. Alla voragine che si è aperta tra gli stipendi dei grandi dirigenti e quelli dei loro dipendenti e tra chi paga le tasse e chi no, tra chi – imprenditore o operaio – si suicida perché non riesce a reggere né a condividere la responsabilità di dare lavoro o mantenere la propria famiglia e chi invece esporta i capitali ed evade le tasse attento solo al proprio individualissimo interesse, si aggiunge quella che si è approfondita tra politici e comuni cittadini, nei redditi e privilegi. Essa è tanto più intollerabile quanto più proprio coloro che pretendono di dettare norme erga omnes auto-legittimano il proprio non rispetto delle stesse. E quanto più, come sta succedendo in questi mesi in cui la crisi economica ha colpito l’Italia senza che nessuno più potesse ignorarla, la classe dirigente fatta di politici, ma anche di grandi manager e imprenditori, non è disposta ad alcun riassetto degli squilibri e dei privilegi di cui gode, mentre si appresta a ridurre le risorse e i diritti di chi non ha potere decisionale.
Questo scarto crea una frattura che può svilupparsi in direzioni diverse e anche opposte. Può produrre quella che i francesi chiamano disaffiliation diffusa, cioè distacco dalla appartenenza sociale: una disidentificazione da appartenenza e interessi comuni (spesso accompagnata da una ipertrofia della appartenenza familiare e localistica), una mancanza di fiducia più o meno accompagnata da cinismo (così fan tutti), una mancanza di freni al proprio particolarismo che può sfociare in violenza, una volgarità e mancanza di rispetto generalizzati nei rapporti interpersonali. Ma può anche suscitare il desiderio di riappropriarsi di un potere di partecipazione, di essere protagonisti e non solo sudditi passivi più o meno rassegnati e/o cinici. Si può essere o meno d’accordo con le singole motivazioni che in questi anni hanno mobilitato gli studenti, le donne di ogni età, i promotori dei referendum sull’acqua e sul nucleare, i noTav e via elencando. Ciò che conta è che tutti questi fenomeni segnalano non solo l’esistenza di dissensi sulle decisioni prese, ma anche la voglia di contare, di farlo assieme ad altri, di prendersi delle responsabilità. È una disponibilità preziosa, da non disperdere e anzi da coltivare negli anni duri che ci stanno davanti, in cui è fortissimo il rischio che le disuguaglianze aumentino e lo spazio della solidarietà venga ridotto, anche, se non soprattutto, per l’insipienza della politica.
Sono questi i temi su cui ho più riflettuto «in pubblico» in questi ultimi anni, non solo come studiosa, ma scrivendo sui quotidiani, dapprima come editorialista a «La Stampa» e poi a «Repubblica», oltre che come collaboratrice de «lavoce.info». A loro vanno i miei ringraziamenti. È stato un decennio in cui, per dirla con Tomasi di Lampedusa, tutto sembrava cambiare, ma molte cose invece non cambiavano mai, e anzi si incancrenivano, trovandoci largamente impreparati su tutti i fronti caldi della trasformazione cui, bene o male, i processi demografici e di globalizzazione hanno esposto anche l’Italia e gli italiani: l’invecchiamento della popolazione, i grandi processi migratori, le sfide etiche e alle responsabilità individuali e collettive poste dallo sviluppo del sapere e delle tecnologie mediche, la pressione dei Paesi emergenti, fino alle due ultime crisi economiche e alle loro conseguenze per la tenuta presente e futura di questo Paese.
Le riflessioni – rielaborate e aggiornate rispetto ai testi originali – sono ordinate per i quattro temi attorno ai quali ho letto le vicende italiane di questi anni: l’esperienza delle donne, le vicende delle famiglie, i limiti del welfare, la lacità imperfetta dello Stato.
1 Cfr. A. Sen, L’idea di giustizia, Mondadori, Milano 2010.
2 Cfr. A. Appadurai, “The Capacity to Aspire: Culture and the Terms of Recognition”, in V. Rao, and M. Walton (eds.), Culture and Public Action, Stanford University Press, Palo Alto, California 2004, pp. 59-84.
3 Cfr. Ocse, Growing Unequal?, Oecd, Parigi 2008; cfr. anche M. Franzini, Ricchi e poveri, Università Bocconi, Milano 2010.
4 Si veda da ultimo il volume curato da A. Schizzerotto, U. Trivellato e N. Sartor, Generazioni disuguali, il Mulino, Bologna 2011.
Prima parte
Che fatica essere italiane

Introduzione
Il futuro parte dalle donne

Le donne che nel corso del 2011 si sono spontaneamente e capillarmente organizzate per imporsi come protagoniste visibili e riconosciute nella sfera pubblica non possono, in questo periodo di crisi finanziaria e di sviluppo, esimersi dall’interloquire con l’agenda politica ed economica. Non è certo un momento facile, stante la situazione di risorse scarse che provoca duri conflitti tra i diversi gruppi di interesse.
Non si tratta solo di confrontarsi con il peso delle occasioni mancate, dell’arretramento della cultura politica, dell’esasperante immobilismo di quella imprenditoriale, del permanere di un monopolio maschile quasi intoccato in tutte le sfere decisionali. Occorre anche definire una agenda economica e politica che sia equa (anche) dal punto di vista delle chance e dei costi specifici per le donne, in un contesto caratterizzato da risorse finanziarie ridotte, dove la discussione sembra riguardare esclusivamente quali diritti acquisiti colpire e quali difendere: con poco spazio per una ridefinizione dei diritti stessi e dei loro soggetti.
Per non rischiare di oscillare tra il velleitarismo e la rassegnazione del piccolo cabotaggio occorre immaginare una agenda realistica nella fattibilità, ma intellettualmente e politicamente coraggiosa. Tra i punti di questa agenda mi sembra debbano stare innanzitutto una battaglia contro il monopolio di genere in tutti i posti che contano e un discorso pubblico sui diritti civili. Si tratta di riforme a costo zero dal punto di vista economico, ma molto impegnative e difficili sul piano culturale e politico. Occorre battersi per entrare nelle stanze dei bottoni, ma anche per modificare i criteri formali e soprattutto informali con cui vi si entra. Occorre soprattutto incidere sui meccanismi di definizione delle priorità e degli interessi. Il che co...

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  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Cittadini a metà - Come hanno rubato i diritti degli italiani