Dentro le cose, verso il mistero
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Dentro le cose, verso il mistero

La mia vita come un albero

  1. 400 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Dentro le cose, verso il mistero

La mia vita come un albero

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Informazioni sul libro

Nel chiassoso disordine della nostra vita quotidiana a volte ci imbattiamo in vere e proprie aperture di senso, spazi rivelatori che restituiscono un frammento, per quanto infinitesimale, dell'irripetibile creazione originaria. Anche oggi, dietro le innumerevoli distrazioni in cui siamo immersi, il mistero rimane intatto per chi sa predisporsi all'ascolto. Massimo Camisasca, confermandosi straordinario promotore culturale e guida spirituale, ci conduce attraverso un percorso di crescita che, come nella vita di un albero, trae il proprio nutrimento da valori radicali ed essenziali – il significato primordiale dei colori, delle parole, dei volti e dei sentimenti umani – e si sviluppa aprendosi a uno sguardo luminoso e stupefatto, per arrivare ad abbracciare completamente, oltre la dimensione del bello e, quindi, della verità e del bene, la possibilità di un progetto di vita.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
ISBN
9788858623480
DENTRO LE COSE,
VERSO IL MISTEROA coloro che amo
e che sono lontani

Prefazione

di Aldo Cazzullo
Don Massimo Camisasca è una delle persone più affascinanti che abbia conosciuto nella mia vita. Una delle cose di lui che mi colpì di più, quando lo incontrai per la prima volta, fu il connubio tra semplicità e profondità.
Don Massimo sa dire, e spesso dice, cose di una profondità definitiva e talora persino imbarazzante, ma con una naturalezza di espressione e un nitore di parola tali che i concetti più complessi e impegnativi passano all’interlocutore senza quasi che se ne accorga.
Mi pare che Camisasca sia riuscito a restituire il suo dono anche in questo libro. Leggendo Dentro le cose, verso il mistero si ha l’impressione di essere seduti davanti a don Massimo, di ascoltarlo parlare, e di godere della sua straordinaria capacità di trattare le cose ultime come se fossero quotidiane, di tracciare pensieri astratti con una concretezza tale che sembra di poterli toccare.
Credo che questo libro potrebbe intitolarsi come il capolavoro di san Bonaventura di Bagnoregio, storico capo dell’ordine dei francescani: Itinerarium mentis in Deum, il viaggio della mente verso Dio. Non a caso le prime parole del libro sono: «Eccomi di nuovo in viaggio». Camisasca racconta come avvicina il mistero divino attraverso le varie espressioni della creatività umana – la parola, la letteratura, la pittura, la musica, la filosofia – e del creato: la natura, il silenzio, gli animali. Bellissime le pagine in cui distingue la Parola, dono di Dio agli uomini ed essenza di Dio stesso (il Logos con cui comincia il Vangelo di Giovanni avrebbe ben potuto tradursi con «ragione», ma san Gerolamo scelse Verbum, «parola» appunto), dal silenzio delle altre creature animate: «Forse sta proprio in questo silenzio la ragione per cui alcuni popoli antichi percepivano la presenza del divino negli animali». Allo stesso modo, i Greci pensarono il loro massimo poeta, Omero («colui che non vede»), come il cieco che con gli occhi della mente vede cose a noi negate; esattamente come l’indovino che, da Calcante a Tiresia, è sempre cieco.
Come arrivare alla conoscenza non attraverso complicati ragionamenti, ma attraverso l’arte, l’intuizione, la bellezza, l’armonia naturale e quella creata dall’uomo? È questo il centro del libro di Camisasca. La sua però non è una riflessione puramente estetica. È un transito dall’estetica alla morale, dalla superficie – bellissima la descrizione del volto di don Giussani e di come sia cambiato con il tempo – all’essenza delle cose.
Don Massimo confida di non amare le mostre, i musei. Preferisce scegliere uno o due quadri e passare ore davanti a quelli: l’arte greca, incentrata sulla mitologia – «cose che sono sempre e non accadono mai» – e sulla bellezza senza ombre; l’arte romana, concepita per eternare la vittoria militare e politica; l’arte cristiana, «che non ha paura di raffigurare un pastore»; l’arte moderna, Rouault e il suo «Cristo clown», Bacon e i suoi visi tumefatti come l’Ecce Homo, come il «volto sputacchiato» visto dal profeta Isaia, in una delle pagine in cui la Chiesa individua un legame tra Vecchio e Nuovo Testamento.
Dovessi indicare i tre valori di riferimento di queste pagine e della visione del mondo di don Massimo, direi la fraternità, la paternità, la Chiesa.
«Di che reggimento siete / fratelli?» Dei tanti versi di Ungaretti (accanto a Pascoli, il suo poeta prediletto), Camisasca sceglie e cita più volte quello in cui i fanti della Grande Guerra riconoscono negli altri uomini in divisa la propria condizione, l’orrore condiviso di fronte alla guerra, il desiderio di sopravvivere, la promessa di mutua solidarietà. Un’emozione che l’uomo comune vive nelle trincee di un conflitto spaventoso, ma che la sensibilità filosofica di Lévinas ravvede nell’incontro con ogni uomo: mostrare il proprio volto al prossimo significa – per Lévinas come per Camisasca – mettersi a nudo, assicurare all’interlocutore che non soltanto non lo si ucciderà, ma non lo si lascerà morire solo. E non è un caso che, oltre ai numerosi libri (tra cui va ricordata almeno la storia di Comunione e Liberazione in tre volumi), la grande opera della vita di don Massimo Camisasca sia la Fraternità San Carlo Borromeo, un’istituzione attiva ormai in tutti i continenti, nata con lo scopo di consentire ai sacerdoti che lo desiderano di vivere insieme, di costituire una grande famiglia, una fraternità appunto.
Ma a un fondatore, prima della fraternità, si addice la paternità. Don Massimo ha accompagnato all’età adulta e al sacerdozio centinaia di giovani, che l’hanno amato come un padre, e che lui ha considerato come figli: nel senso metaforico con cui, secondo Giovanni Testori, cercavano un padre i sei personaggi in cerca d’autore concepiti da Pirandello.
Della classicità don Massimo salva, non a caso, in primo luogo l’immagine di Enea in fuga da Troia, con il padre Anchise sulle spalle e il figlio Ascanio per mano. L’eroe abbandona l’Asia per venire in Europa e fondare Roma. La storia dell’Occidente comincia con l’esaltazione di una duplice paternità, quella del vecchio Anchise, il capostipite, e quella di Enea, che si prende cura della prole, della discendenza.
Ma con l’avvento del mondo cristiano si afferma un’altra forma di paternità e di maternità: quella esercitata dal Papa e dalla Chiesa. La devozione, il senso di appartenenza, direi l’affetto di Camisasca verso il Papa e la Chiesa, sono il sostrato di ogni pagina di questo libro, non solo di quella in cui si esalta il volto da sportivo e da attore di Wojtyła («È un leone! È un leone!» ripete euforico don Giussani a Camisasca, uscendo dal primo colloquio con il pontefice).1
Alla Chiesa, Camisasca perdona molto, se non tutto (anche di aver tenuto lontana la gente dalla Bibbia dopo la Riforma protestante). Ma del resto non potrebbe essere altrimenti: nella Chiesa don Massimo ha trascorso la vita, alla Chiesa continua a dedicare la sua opera di fratello e di padre; e quindi non potevano che esservi la Chiesa, il Papa, il rapporto con Dio al centro di quella che è una vera autobiografia. Che culmina con un capovolgimento, proprio nella relazione con la divinità, con il Padre.
Siamo abituati a considerare l’amore di Dio per noi, a sentirci amati. Camisasca ci ricorda l’importanza di amare Dio, pur senza conoscerlo direttamente. Dio, che gli ebrei non potevano neppure nominare, avverte Mosè che non potrà vedere il suo volto, se vuol restare in vita. Ma è possibile vedere o intuire Dio attraverso la natura e le opere che gli uomini più dotati del suo dono ci hanno lasciato nel corso dei secoli.
È questa la lezione di Dentro le cose, verso il mistero.
1 Massimo Camisasca, Comunione e Liberazione. Il riconoscimento (1976-1984), San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, p. 37.

Introduzione

Eccomi di nuovo in viaggio. Ma questa volta senza valigie, senza orari di treni e di aerei, senza alberghi e camere dove riposare. Viaggiare è come morire e poi rinascere. Morire nella fatica della lontananza, e poi rinascere nella vicinanza, rinascere a nuovi orizzonti, prospettive, conoscenze.
Quando penso alla mia vita mi vengono in mente i viaggi di notte, sotto la pioggia, in automobile. Non so perché. Queste tre caratteristiche – il buio, il cattivo tempo e l’automezzo – sono per me il segno del disagio, ma anche dell’avventura, della necessità di uscire da me stesso e di andare incontro agli uomini, di attraversare le difficoltà per dirigermi verso la luce.
Ho un ricordo nitidissimo di una notte di maggio del 1968. Era stata inaugurata da soli quattro anni la metropolitana di Milano. I vagoni rossi erano nuovi, fiammanti. Seduto, leggevo Nous autres, gens des rues, di Madeleine Delbrêl.1 Ho avuto l’impressione, allora, che tutta la mia vita sarebbe stata un viaggio.
Ma questa volta il viaggio è interiore. È un percorso nella memoria. E nello stesso tempo è un cammino verso le cose, per catturare almeno un frammento del mistero che nascondono, ma anche che rivelano a chi ha la pazienza di guardarle e di interrogarle, ma soprattutto di ascoltare le loro risposte.
È un’avventura in compagnia dei tanti amici che ho conosciuto perlopiù solo attraverso le loro opere: libri, quadri, brani musicali…
Non è bello partire da soli. Per questo ho sempre cercato qualcuno che lo facesse con me. Perché ciò che ci attrae non è solo vedere, ma soprattutto vedere assieme. E poi raccontare. E nel racconto integrare memorie, emozioni, sensazioni, pensieri. Ha scritto Aharon Appelfeld:
Lo scrittore, se è un vero scrittore, trae da dentro di sé ciò di cui scrive, e perlopiù scrive di se stesso: le sue parole hanno significato solo se è fedele a se stesso, alla propria voce e ritmo.2
1 Madeleine Delbrêl, Nous autres, gens des rues, Seuil, Parigi 1966 [trad. it. Noi delle strade, Gribaudi, Torino 1969; nuova edizione Gribaudi, Milano 2002]. Laica francese, nata nel 1904, Madeleine Delbrêl dall’età di ventinove anni e fino alla morte, sopraggiunta nel 1964, si dedicò alla diffusione del Vangelo nei quartieri periferici di Parigi assistendo operai e famiglie in difficoltà. Dal 1994 è in corso la sua causa di beatificazione.
2 Aharon Appelfeld, Storia di una vita, Giuntina, Firenze 2001, p. 114.
Parte prima
Radici

La natura

Quando penso a qualcosa di primordiale, di assolutamente originale, mi vengono alla mente i colori. All’inizio c’è la luce, cioè il bianco e l’oro. I colori sono le prime parole della natura, le parole che possono leggere anche gli analfabeti, anche coloro che non sanno vedere un quadro, ascoltare una musica, affrontare un libro. Essi, dai boschi, dai cieli, dal mare, ricevono un insegnamento fondamentale per la loro vita, soprattutto dal verde e dall’azzurro. Il rosso e il giallo vengono dopo.
Arthur Rimbaud ha collegato le vocali con i colori. La U è gli oceani verdi, i prati dove pascolano le greggi, e anche la pace dei volti. Il blu è la O, la vocale definitiva, l’omega. Il raggio di luce violetto negli occhi della persona che si ama.1
Quando non esisteva nulla, esistevano questi due immensi libri, aperti davanti a ogni uomo che sarebbe venuto al mondo: le foreste e gli oceani. Nella mia vita cerco continuamente di tornare a questo insegnamento primordiale, a questa voce che ha parlato prima di ogni altra.
Oggi essa è perlopiù sepolta, sia perché non la si sa più ascoltare, sia perché giunge a noi contraffatta. La natura è rovinata: è distrutta dagli uomini, riempita dei suoi cementi, dei suoi scarti, usata. Per questo la sua voce giunge a noi debolmente.
Eppure, è vero anche l’opposto: è difficile spegnere la bellezza della natura. Abito nella periferia di Roma. Fuori da casa mia comincia la campagna, con i suoi mille sentieri, i suoi prati, i suoi alberi, gli itinerari verso i laghi. La campagna laziale è benevola di luci con differenti tonalità. Sempre, anche se la sua stagione più profonda è l’autunno. Mentre il momento più rivelatore della giornata è il tramonto.
Ricordo una mostra del grande pittore bielorusso Marc Chagall. Aveva come titolo «I fiori sono la vita stessa nella sua smagliante felicità», una frase scritta dall’artista nel 1931. Con queste parole Chagall ha detto qualcosa di cui sono sommamente convinto: la vita ha una sua espressione privilegiata nella natura.
Quando cammino per le strade, quando mi trovo su un treno o su un’automobile, quando mi concedo un po’ di riposo e mi metto a passeggiare, mi viene in mente questa riflessione: nel mondo si addensano due tipi di realtà, quelle fatte da Dio, che chiamo originarie, e quelle fatte dall’uomo, che chiamo costruite. Le realtà originarie, frutto di un’evoluzione e di una trasformazione millenaria, sono chiamate nell’epoca moderna «la natura». Nel Medioevo erano «la creazione».
Dall’età moderna in poi si è guardato non tanto all’origine del mondo animale, vegetale e minerale, ma alla sua perenne e continua trasformazione. Naturus è ciò che sta per nascere, ciò che evolve continuamente. Le montagne sono solcate dai venti e dalle piogge, gli oceani erodono le terre, i terremoti aprono solchi dentro le profondità degli abissi… Queste trasformazioni, che a noi appaiono gigantesche, cosa rappresentano di fronte al continuo cambiamento dell’universo?
Eppure, nello stesso tempo, una voce permane: la natura mi interroga, mi fa compagnia, mi indica una strada per la vita. Questa realtà, che ho chiamato originaria, per gli uomini del Medioevo era nata dalle mani di Dio e parlava di lui. Essa ha una sua bellezza profonda: quella che ha visto Chagall, quella su cui non smetto mai di rivolgere gli occhi.
È il desiderio di tornare allo sguardo dell’infanzia, che scopre le cose nel momento in cui nascono, in cui cominciano a crescere, manifestando già allora la loro luminosità.
La mia infanzia è stata segnata dai colori, dalle cose essenziali. C’erano i fiori e le piante, il lago e la terra, le prime parole che mi davano felicità.
Jean Guitton in un suo scritto affermava che il colore è l’immagine della Resurrezione, l’immagine di un mondo che non conosciamo ancora. Diceva di credere nella profezia del colore.2
Durante i primi sette anni della mia vita ho vissuto nella campagna lombarda. La vegetazione è stata la mia prima compagnia. Le mucche e i cavalli, gli asini e le capre, i cani, i gatti e le galline abitavano con me. Ero ben consapevole della loro differenza dalla mia persona, ma anche della loro vicinanza e della loro necessità. La mia casa era vicina al lago Maggiore. Il lago cambia colore non solo tutti i giorni, ma tante volte al giorno. Forse devo proprio a queste prime esperienze la scoperta del valore archetipico dei colori della natura.
Oltre alle cose originarie, dunque, ci sono le cose ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Dentro le cose, verso il mistero. La mia vita come un albero
  4. Conclusioni
  5. Ringraziamenti
  6. Letture