Libertini italiani
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Letteratura e idee tra XVII e XVIII secolo

  1. 600 pagine
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Letteratura e idee tra XVII e XVIII secolo

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Provocazione scientifica, ribellione politico-sociale e indisciplina morale sono le caratteristiche salienti di un movimento che si pone esplicitamente, e spesso pericolosamente, in conflitto con la realtà oppressiva e convenzionale di ogni sistema di credenze, di ogni assetto normale o normativo. Così la relativizzazione del reale, la spiegazione dei moti dell'universo e un'idea non trascendente dell'anima-corpo degli uomini entreranno a far parte della storia delle idee e si trasformeranno in forme narrative nuove, inclusa quella descrizione di un eros impetuoso e insopprimibile che è caratteristica di molta letteratura libertina. Anche in Italia, attraverso l'esperienza di autori come Paolo Sarpi e Cesare Vanini, Giacomo Casanova e Ferdinando Galiani, le cui pagine salienti sono raccolte e commentate, tra le altre, in questo volume, si consuma così una delle più capillari azioni di desacralizzazione che l'Europa abbia mai conosciuto. A cura di Edoardo Beniscelli

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858623237
LIBERTINI ITALIANI

AVVERTENZA AL TESTO

Per quanto riguarda i brani antologici di opere edite di recente, con criteri ritenuti validi, ci si è basati su di esse. Nei molti casi in cui si è fatto ricorso a edizioni cinque-settecentesche, si è operato un moderato aggiornamento grafico. In particolare, i criteri di trascrizione sono i seguenti: distinzione di u e v secondo l’uso moderno; eliminazione della h etimologica o pseudoetimologica, sia iniziale che interna; normalizzazione in ii dei finali di plurali in ij; la grafia latineggiante ti o tti seguita da vocale resa con zi o zii (con rare eccezioni: riguardanti in particolare Giordano Bruno, dove si è lasciato «spacii» in luogo di «spazii», per rispettare le scelte degli editori moderni, in relazione a passi particolarmente noti); disciplina della congiunzione et, corretta in e o ed; uniformazione delle preposizioni articolate de in de’ (tranne, ovviamente, i casi in cui de vale di), e ne in ne’; cauto riordino della punteggiatura; scioglimento delle abbreviazioni; riordino dell’uso dei corsivi. Nei casi delle edizioni recenti, solo raramente si sono operati minimi interventi restaurativi, allo scopo di presentare una maggiore uniformità testuale della scelta complessiva. Dato il carattere antologico dell’opera, non si è ritenuto di dover condurre un puntuale lavoro di filologia testuale sulle edizioni cinque-settecentesche; nelle note relative ai singoli brani sono indicati i volumi di riferimento.

I

TRA ANTICHI E MODERNI:
LA NATURA E L’AGIRE DELL’UOMO

Paolo Sarpi, entrato molto giovane nell’ordine religioso dei Servi, appassionato di studi scientifici che coltiva presso l’Ateneo di Padova, storiografo della Repubblica di Venezia nei difficili anni del dissidio con lo Stato Pontificio, non solo su problemi di giurisdizione territoriale e politico-religiosa ma anche su aspetti relativi alla libertà della cultura e dell’educazione, è noto soprattutto come l’autore della Istoria dell’Interdetto, pubblicata postuma, a Ginevra, nel 1624, e della Istoria del Concilio Tridentino, comparsa a Londra, sotto pseudonimo, nel 1619. Il fatto che si ritenga legittimo iniziare da lui il percorso all’interno della letteratura anticonformista lo si deve certo alla sua vita di oppositore al potere papale, ma ben di più ai precoci Pensieri filosofico-scientifici, medico-morali, e sulla religione, editi per la prima volta da Gaetano Cozzi nel 1969. Nei Pensieri, e in modo particolare in quelli che stabiliscono una stretta corrispondenza tra la disposizione del corpo e la disposizione dell’«anima» – tra medicina ed etica del comportamento, insomma, con la «dieta» dell’una che si riflette su quella dell’altra –, si rilevano alcuni elementi di novità. Intanto, e implicitamente, la sfera comportamentale del paradigmatico «io» che si analizza viene ricollocata alle dirette dipendenze della fisicità, secondo una rilettura postgalenica degli umori costitutivi e delle passioni da quelli derivate che aveva intrigato molti medici della modernità cinque-secentesca (alla fine del secolo XVII ne ricostruirà la storia Leonardo di Capua), ma che, su autorizzazione di Galeno stesso, si era indirizzata anche a esaminare i problemi cruciali della «malattia» e della «salute» dell’anima-corpo, per dir così, visti sotto specie etico-antropologica. Questa inclinazione pone subito il problema delle fonti. I nomi che emergono dalla verifica testuale sono essenzialmente quelli di Seneca e di Montaigne, con la fondamentale appendice dello scritto De la sagesse di Pierre Charron. Il Seneca delle Epistulae ad Lucilium, in particolare, e il Montaigne degli Essais, quasi a formare un macrotesto classico-moderno estremamente flessibile al suo interno. Nominare il Seneca delle lettere all’amico significa rifarsi, per frammenti, alla tradizione filosofica di Socrate, Democrito, Epicuro, Epitteto. E dire Montaigne, in Italia, e a fine Cinquecento, significa anche di più. Gli Essais, iniziati nel 1571 e ancora aperti nel 1588, costituiscono infatti il grande serbatoio della nuova cultura scettica e relativistica. La morale non si fonda su norme universali, ma si costituisce sulla storia delle singole esperienze, sulla varietà e molteplicità delle opinioni. Nella vita, dice Sarpi, ci si muove destreggiandosi come colui che, attraversando la folla, «non può camminar dritto». «Dieta» del corpo per «fortificare» l’anima, sostiene Sarpi. Ma il volersi «fortificare» rimanda anche a una accezione stoica della vita, e parzialmente stoica, ad esempio, è l’idea di sagesse di Charron. In proposito bisogna intendersi, e il padre servita ci aiuta in questo. Specialmente quando precisa ciò che egli rifiuta dello stoicismo. «Sopra il tutto fuggi quel rigore che si chiama virtù, ma è vizio pestifero quella rettitudine catoniana.» No dunque all’attitudine eroica, così frequente nelle fantasie di molta letteratura tragica coeva; se nella folla non si può camminare seguendo una linea retta, neppure si può camminare impettiti. Catone non può essere modello sommo, ma può essere citato, ad esempio, quando sostiene che «più ha da imparare il savio dal mato ch’il mato dal savio». La stessa scelta stilistica di Sarpi risente di questa erraticità: forma breve, autorevole inserimento all’interno della tradizione italiana della scrittura aforistica che Gino Ruozzi ha messo in forte evidenza, persino qualche recupero della tradizione cinquecentesca del «paradosso». Resta un’ultima questione. Fino a che punto gli Essais di Montaigne – che in Italia aveva viaggiato e visto – erano conosciuti dai nostri letterati di fine Cinque e inizio Seicento? Non poi molto, e Sarpi è una importante se non unica eccezione. È perciò che il debito intellettuale e letterario contratto da Sarpi nei confronti del pensiero di Montaigne si rovescia però nel credito verso la cultura francese. Se Montaigne è maestro dei libertini francesi, il capitolo della autonoma fortuna sarpiana verso gli stessi è comunque cospicuo.
Se Sarpi dialoga con Montaigne, non altrettanto può dirsi di Alessandro Tassoni. I primi sondaggi di un materiale imponente quali sono i Pensieri che il letterato modenese (1565-1635), autore del celebre poema eroicomico La secchia rapita, viene aggregando nel corso di una vita sembrano infatti smentire una loro diretta filiazione dagli Essais. Ma due osservazioni vanno almeno introdotte. La prima riguarda il fatto che i dieci volumi dello zibaldone tassoniano vanno al più presto indagati in profondità, non solo perché costituiscono un’opera nella quale l’autore confidava quanto soprattutto perché sono costruiti su un fitto dialogo, per citazioni non sempre esibite, con gli antichi e i moderni. Strettamente connessa a questa, la seconda osservazione verte sulll’angolazione complessiva dei Pensieri, al centro dei quali resta comunque la tematica naturale e fisiologica che circonda e spiega – destrutturando molti dogmi – il fenomeno-uomo. È vero che, mentre Sarpi si affida all’aforisma estemporaneo e acuto, Tassoni cerca di mettere ordine al disordine delle sue brevi riflessioni, di redazione in redazione. Ed è soprattutto vero che sulla scorta delle summae rinascimentali di filosofia naturale in origine sta Aristotele. Ma il maestro di ogni sapere – la cui lezione giungeva a Tassoni attraverso l’insegnamento di Cesare Cremonini e Francesco Patrizi – può essere «contraddetto». Ciò significa accantonare in molti casi l’auctoritas e riorientare il discorso alla luce “eterodossa” di Bernardino Telesio, Pietro Ramo, Girolamo Cardano, l’autore del pluricitato trattato De subtilitate, dal quale si può dissentire (come anche Vanini farà) ma di cui non si può fare a meno. Quando, dopo aver discusso degli elementi naturali e di cielo e astri, Tassoni torna allo studio degli umori corporali – sangue, flemma, bile –, dicendo così, nel fondamentale sesto libro, della natura delle passioni umane, ecco che compaiono non poche annotazioni di rilievo. I sensi stanno alla base di ogni operazione intellettiva. Essi sono certi, è l’intelletto che si inganna per il surplus immaginativo, favorendo gli errori. Tanto più sono delicati e dunque acuti, tanto più «gli ingegni» sono «instabili». Puliatti concludeva così lo studio sui Pensieri: «relativismo ed orizzontalismo si raccordano perfettamente […] al senso di provvisorietà di ogni conquista, all’apertura delle frontiere, all’instaurazione di equilibri instabili, e al rifiuto del definitivo e, in sostanza, al piacere della “curiosità” e della “novità” intese sia come peregrinità sia come avanscoperta». Si può solo precisare come la curiositas verso il nuovo, e la stessa «acutezza dell’ingegno [che versa] intorno alle cose malagevoli da penetrare e intorno alle novità» – diceva Tassoni –, siano altro rispetto all’accezione retorico-barocca dei termini. Anche per questo i Pensieri vanno valutati: recto di un verso che partecipa – con la Secchia, con le Considerazioni su Petrarca: e in buon anticipo sui tempi – alla formulazione delle nuove poetiche. Che poi i temi confluiti nello zibaldone siano in qualche caso gli stessi che Tassoni aveva discusso all’interno dell’Accademia romana degli Umoristi, di cui sarà anche guida – una sessione “accademica” riguarderà l’argomento già aristotelico e poi cardaniano, ma comunque “eversore”, del «riso» – è ulteriore motivo di interesse.
Di tutt’altra tempra, si sa, fu Giulio Cesare Vanini. Frequentatore dello Studio patavino, filosofo in proprio, sensibile alla lezione storiografica sarpiana, frate errabondo tra Napoli, l’Inghilterra e la Francia, secondo percorsi tormentati e infausti che ricordano quelli di Giordano Bruno, fino alla morte sul rogo, decretata ed eseguita a Tolosa. Prototipo dei molti «esprits forts» che verranno, il suo profilo è ben stagliato nell’ormai classico volume La ricerca dei libertini di Giorgio Spini: Vel Deus, vel Vanini, appunto. Nel terzo libro del De admirandis naturae, [I meravigliosi segreti della natura] anch’egli affronta i temi del grande «libro» naturale, giungendo a parlare degli «affetti dell’uomo» dopo aver detto, come in quegli anni Tassoni, del cielo e dell’aria, dell’acqua e della terra. Ma la radicalità con cui Vanini declina le questioni è inedita. Delle cause fisiche del riso e del pianto parla, sulla scorta delle fonti mediche di Jean Fernel, Girolamo Fracastoro, Giulio Cesare Scaligero, sovente preferito a Cardano. La concezione fisiologica degli «spiriti» – sembra perfino di rivedere le antiche immagini cavalcantiane, auspice la lettura “estrema” dell’aristotelismo –, che squassano gli stessi umori generativi al punto da adombrare in certi casi la morte, origina, nelle pagine vaniniane, una rappresentazione che il Settecento postcartesiano avrebbe definito sombre, vale a dire oscura, atrabiliare, quale quella dell’«ira» e della «tristizia». Con improvvise affermazioni, a cui non basta la cautela del porgere per togliere loro la dirompente carica materialistica: «Io se non fossi figlio e discepolo di cristiani direi che gli uomini sono spinti al delitto non per istigazione dei demoni, ma dagli umori viziati»; ovvero, in attenuazione solo apparente: «non dirò che è da gran sciocchi opporre ciò che spirituale a ciò che è materiale, dal momento che ‘spirituale’ deriva da ‘spirare’ e la respirazione non è priva di materia».
La tecnica propria della scrittura di Vanini, che consiste nel camuffare le proprie tesi con preterizioni di varia specie – o spesso nel celarle all’interno di un’argomentazione che in partenza sembra difendere le ragioni opposte alle sue –, trova compimento nelle pagine dell’Amphitheatrum Aeternae Providentiae [Anfiteatro dell’Eterna Provvidenza], opera in cui si esaminano questioni generali come la necessità o la libertà dell’umano agire, dietro alle quali per un verso si iscrive l’indagine sulla fisiologia delle passioni umane e per l’altro si intravvede, in ordine almeno effettuale se non teoretico, la cruciale querelle sull’esistenza di Dio. I procedimenti, a carattere dimostrativo, sono complicati, anche perché poggiano su schemi confutatori e perché, pur essendo Vanini un pensatore coraggioso, non è filosofo originale quanto invece affastellatore di passi altrui. Come spiega Francesco Paolo Raimondi nella monografia introduttiva all’edizione delle Opere, egli assume le affermazioni deterministiche del De fato di Pomponazzi (tutto è regolato da forze che impediscono all’uomo il libero arbitrio) e le indirizza verso un approdo manifestamente ateista. Se Dio non ha certezza dell’evento futuro in quanto tale, come Pomponazzi sosteneva, all...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Introduzione
  5. Libertini Italiani
  6. Note