SE RIUSCIAMO A SCRIVERE MUSICA
CHE SIA UNA DIRETTA EMANAZIONE DELLA VITA, DELLA NOSTRA CAPACITÀ DI SOFFRIRE, DELL’AVER SUBÌTO
I GRAFFI DELL’ESISTENZA,
DEL NOSTRO ESSERCI ROTOLATI NELLA REALTÀ, ALLORA QUELLA MUSICA ENTRERÀ SICURAMENTE
IN SINTONIA CON LE EMOZIONI
E LE ASPIRAZIONI DELLE PERSONE.
E PROVOCHERÀ CAMBIAMENTI
CHE NESSUNO POTRÀ FERMARE.
“Se lei osserva bene, l’ombelico ‘guarda’ un po’ a sinistra.”
Ha ragione, non ci avevo mai fatto caso.
“A dire il vero, tutto il bacino è un po’ ruotato, vede?”
Il dottore mi parla con tono sereno e vagamente didattico, mentre scruta il mio corpo con occhio clinico.
“Guardi ancora. Anzi, mi dica: vede qualcosa ai gomiti?”
No, non mi sembra di notare nulla.
Sono in piedi, davanti uno specchio, con indosso solo gli slip. Il dottor P. mi ha chiesto di stare dritto senza forzare i muscoli, mantenendo una postura rilassata e simmetrica. Mi gira attorno, attento e concentrato, e ogni tanto interrompe il silenzio per farmi notare piccoli dettagli significativi. Elementi in apparenza invisibili, che ai suoi occhi però sono indizi fondamentali sulla mia situazione.
“Cos’hanno i gomiti?” chiedo esitante.
“Guardi bene, quello sinistro è più vicino ai fianchi rispetto a quello destro di almeno mezzo centimetro. Anche gli alluci non sono simmetrici, non hanno la stessa angolatura.”
Segue la mia musica da tanto tempo ma di certo non si aspettava che sarei finito nel suo studio come paziente. A stento riesce a nascondere una certa euforia, e al tempo stesso è preoccupato di non urtare la mia sensibilità, mentre analizza ogni centimetro del mio corpo, fino all’ultimo tendine.
A dire la verità non mi sento osservato, non provo alcun fastidio a essere sotto la lente di ingrandimento del suo “sguardo scientifico”.
È l’occasione per smettere di pensare e lasciare che qualcun altro si prenda cura di me.
Di sfuggita mi osservo allo specchio. La mia pelle è bianca, priva di peli. Sono alto, magro e non ho muscoli definiti, tanto che è difficile capire la mia età: ho il fisico di un adolescente cresciuto, ma c’è un po’ di adipe sull’addome, e agli angoli della bocca e degli occhi il tempo ha già lasciato la sua impronta.
“Anche la postura va corretta” continua lui, “ha la tendenza a piegarsi in avanti.” Mi aspettavo il solito commento sul mio modo di suonare, sempre curvo sulla tastiera, quasi a voler entrare nel pianoforte, e invece dice: “Si vede che lei non respira bene”.
Resto pensieroso. Chi se l’aspettava che avrebbe tirato fuori la respirazione? Il dottore inizia a piacermi e comincio a sperare che possa finalmente risolvere il mio problema.
Il torcicollo mi è comparso dieci giorni fa, dopo un concerto con orchestra. Ero sceso dal palco stremato e dolorante.
Alcuni professori d’orchestra sanno “portarti su”, entrano cioè talmente in sintonia con la musica che dirigerli è un gioco da ragazzi. Percepiscono il movimento anche di un singolo dito, traducono in note persino lo sguardo. La musica diventa un’onda pura di energia che investe tutti.
Io dirigo loro e loro dirigono me. Questa energia attraversa fluidamente il mio corpo, mi rigenera, anche fisicamente, e alla fine non avverto neppure un minimo di stanchezza.
Ma in quel concerto non era andata così:
i professori d’orchestra si erano mostrati ostili nei miei confronti già dalle prime prove. In particolare gli archi alla mia sinistra non mi guardavano e non si ascoltavano, col risultato di non essere in sincrono tra loro.
Il concerto era stato molto pesante: il disinteresse dei musicisti mi costringeva a un duro sforzo per imprimere all’esecuzione un’intenzione assente nel loro cuore.
Dare energia e non riceverla, percepire un blocco, per me è devastante.
Il colpo di grazia era arrivato qualche giorno dopo, durante un’intervista in diretta radiofonica, dove avevo dovuto suonare Secret Love su un pianoforte scordato. Che lo strumento fosse vecchio si capiva già dalla marca scrostata davanti ai tasti, di una sfumatura dorata ormai spenta. Anche il pedale era rumoroso. Mentre eseguivo quel brano delicato e intenso su uno strumento così aspro, avevo sentito il mio corpo che continuava a ritrarsi infastidito. Suonavo per il pubblico in ascolto in diretta, ma il suono che mi arrivava all’orecchio non somigliava affatto a quello che stavo cercando. Al termine della trasmissione mi ero ritrovato con la schiena bloccata da un dolore lancinante alla spalla destra. “Avrò fatto qualche movimento sbagliato” mi ero detto, “forse è stato un colpo di freddo, o l’aria condizionata.”
Niente di tutto ciò: era stato un amore non corrisposto, e ora un medico che neppure mi conosce ha avuto la stessa intuizione.
“Il torcicollo è solo l’ultima fase, anzi è quasi una difesa del corpo” mi spiega il dottor P. “Un problema fisico che è nato perché nella vita di tutti i giorni l’energia non fluisce liberamente e in modo armonioso. Spesso i pazienti vengono da me preoccupati per il dolore che avvertono tra le scapole, ma quello è semplicemente una tessera del mosaico, un campanello d’allarme che segnala ben altri problemi.”
Mi guardo intorno, stupito e ammirato: che differenza con il dottore che ho incontrato due giorni fa a Milano. A cominciare dal loro studio. Qui, un ambulatorio come quelli di una volta: una stanza spoglia con dentro solo un lettino, una scrivania e qualche sedia, e appesi al muro la laurea, la specializzazione in osteopatia e i poster plastificati che riproducono gli apparati scheletrico, muscolare e circolatorio. Per terra una stufetta accesa mentre una radio trasmette musica classica a basso volume. È uno stanco pomeriggio romano, di quelli in cui la luce scende bianca e polverosa.
A Milano l’ambiente era completamente diverso: nello studio elegante e raffinatissimo, al posto dei diplomi campeggiavano le foto di personaggi famosi – sportivi, soubrette e presentatori – “rimessi in sesto” dagli abili massaggi del personale. Tutti, dai dottori alle segretarie, erano tirati a lucido. Sembravano usciti da una rivista patinata. Forse per questo l’atmosfera era fredda e distaccata, in qualche modo artificiale.
“È stato sicuramente un colpo d’aria” mi aveva detto il ‘dottore dei vip’. “Si stenda a pancia in giù. L’avverto che le farà molto male.”
Avevo sopportato a denti stretti, convinto da tutte quelle foto che il trattamento mi avrebbe comunque risistemato. Un’ora più tardi non riuscivo quasi ad alzarmi dal lettino e mi vergognavo ad ammettere che mi sentivo peggio
di prima.
Magari alla soubrette che mi sorrideva dalla parete era andata meglio che a me, o almeno aveva colto l’occasione per poter mettere la propria foto nello studio delle star.
Visibilità: la parola d’ordine di questo nostro tempo.
A me invece non interessa affatto. Ciò che conta è la musica, per il resto conduco una vita normalissima e non credo neppure che sia così invidiabile. Anzi, a volte vorrei essere invisibile.
Sono il numero uno di un bel niente! Non sono neanche “bravo” nel senso didattico del termine. Ha ragione chi afferma che esistono centinai...