Nomos e profezia: essere ebreo, essere cristiano. Due lezioni su Deuteronomio 13 e 18*
Stefano Alberto. La premessa a questo incontro è che si tratta del terzo appuntamento, è il terzo anno che possiamo godere del provocante magistero di Joseph Weiler, che ci aiuta ad affrontare la lettura di un ebreo osservante della Bibbia. Molti di voi ricorderanno i due precedenti appuntamenti: tre anni fa il racconto di Genesi, il peccato originale e la straordinaria vicenda umana di Giacobbe, l’anno scorso la grande sorpresa di quelle che lui ha definito, un po’ provocatoriamente, ma non arbitrariamente, le patriarche, il ruolo delle grandi donne, le mogli dei patriarchi. Quest’anno tutto è ancora più provocante, in un certo senso arduo e in un altro affascinante. Quello che è in gioco, ce ne siamo accorti proprio incontrando l’esperienza dei fratelli ebrei, fratelli maggiori, incontrando in particolare la straordinaria umanità e sapienza di Joseph Weiler, non è il tentativo di andare d’accordo, non è il tentativo di un facile ecumenismo fatto di sentimentalismo e di una malintesa bontà. Questo dialogo serrato che non nasconde le contrapposizioni – nella coscienza di un disegno unico, di una unità misteriosa – si colloca pienamente all’interno della tematica del Meeting di quest’anno E l’esistenza diventa una immensa certezza. Diceva il cardinal Ratzinger, qualche anno fa, introducendo il documento della Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella bibbia cristiana, che se i cristiani si congedassero dall’Antico Testamento la conseguenza sarebbe quella di dissolvere lo stesso cristianesimo. Quello che occorre è un rinnovato rispetto per l’interpretazione giudaica dell’Antico Testamento. Oggi è troppo facile cedere a quella che è un po’ la mentalità venutasi a formare dai tempi dell’Illuminismo, che ha ben descritto Lessing, e che il rabbino che ha dialogato con il cardinal Ratzinger/Papa Benedetto XVI1 descrive come questo indifferentismo, si può convivere se il dialogo, il dibattito, viene ridotto a umanitarismo, questo è il portato che anima tanti tentativi apparentemente pacificatori dentro la vita della società.
Invece l’occasione che abbiamo oggi è quella di un dibattito serrato e non su una tematica narrativa, come potevano essere la storia delle origini, le vicende dei patriarchi, ma proprio su un punto decisivo quali sono i capitoli di Deuteronomio 18 e Deuteronomio 13; ma questo dibattito vuole conservare la vivacità non di due lezioni indipendenti, ma di un confronto reale. Per questo abbiamo pensato di invitare insieme al professor Weiler, che non ha bisogno di ulteriori presentazioni, anche il professor Ignacio Carbajosa, che è sacerdote della diocesi di Madrid, nel 2006 ottiene il dottorato di Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma, assistente alla cattedra di Antico Testamento a San Damaso e dall’anno scorso professore associato, nonché direttore della prestigiosa rivista della medesima facoltà «Estudios Biblicos». Tra l’altro è uscito da pochissimi mesi in spagnolo (e sono in preparazione la versione sia italiana che quella inglese), un libro, secondo me fondamentale, che tenta di innestare anche nell’Antico Testamento il metodo della esegesi teologica – quella che trovate nei due libri di Benedetto XVI – Dalla fede nasce la esegesi.
All’inizio il professor Carbajosa ci farà vedere la centralità di Deuteronomio 18, poi il professor Weiler ci introdurrà a una lettura molto particolare di Deuteronomio 13, poi tra di loro ci sarà una interlocuzione, il professor Weiler interverrà su Deuteronomio 18 e il professor Carbajosa su Deuteronomio 13, con la possibilità di intervenire dal pubblico se qualcuno avverte l’urgenza di chiarimenti e di approfondimenti.
Deuteronomio 18
di Ignacio Carbajosa Pérez
«Quando sarai entrato nel Paese che il Signore tuo Dio sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini delle nazioni che vi abitano. Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il suo figlio o la sua figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o l’augurio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti» (Dt 18,9-11).
Magari siamo troppo abituati a sentire un brano come questo, in cui il Signore, Dio di Israele, avverte, o almeno così ci sembra, il suo popolo rispetto al pericolo dell’idolatria. Ma proviamo a guardare più da vicino questo ammonimento, tentando di non proiettare su questo testo il nostro pesante moralismo, pieno di divieti, e invece cerchiamo di immedesimarci con quelli che ascoltavano queste parole, fuggendo allora da ogni tipo di anacronismo.
Il primo ammonimento ci sembra del tutto giustificato. Oggi, come allora, saremmo al punto di dire: immolare i propri figli facendoli passare per il fuoco. Terribile! Invece questa era un’abitudine del vicino popolo dei Fenici (nell’attuale Libano, con le due grandi città commerciali, Tiro e Sidone), un popolo di marinai che ha lasciato i segni della sua cultura lungo le coste del Mediterraneo (arrivando perfino alla lontana Hispania, dove fondarono Gadir – Cádiz, Ebusus – Ibiza e la mia città di nascita, Qiryat Hadasha [Qart-Hadast], in latino Carthago-Nova, cioè, Cartagena). Qua in Italia, nell’isola siciliana di Mozia, un altro insediamento dei Fenici dal secolo VIII a.C., si possono contemplare ancora oggi i piccoli altari usati per sacrificare i bambini e i piccolissimi sepolcri dove erano sepolti.
Quello che a noi sembra un abominio, aveva tentato anche una parte del popolo di Israele ai tempi del profeta Geremia, e il Signore contro di loro lancia quest’avvertimento: «Perché i figli di Giuda hanno commesso ciò che è male ai miei occhi, oracolo del Signore. Hanno posto i loro abomini nel tempio che prende il nome da me, per contaminarlo. Hanno costruito l’altare di Tofet, nella valle di Ben-Hinnòn, per bruciare nel fuoco i figli e le figlie, cosa che io non ho mai comandato e che non mi è mai venuta in mente» (Ger 7,30-31).
Il commento che fa Dio a quest’abitudine: «cosa che io non ho mai comandato e che non mi è mai venuta in mente», esprime bene la malvagità intrinseca di queste azioni, che non trovano giustificazione nella religiosità naturale dell’umanità. Risulta, dunque, logico, e quasi scontato diremmo, l’avvertimento contro queste abitudini che il Signore fa al suo popolo prima di farlo entrare in una terra contaminata da questi abomini.
Invece non si possono assolutamente dare per scontati gli ammonimenti che seguono. Anzi, guardando il contesto religioso e culturale dell’epoca nel Vicino Oriente, allo storico sorge subito una grande perplessità. «Non si trovi in mezzo a te […] chi esercita la divinazione o il sortilegio o l’augurio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti» (Dt 18,9-11). Ma come?! Ci troviamo davanti a un elenco abbastanza esaustivo delle espressioni della creatività religiosa dell’uomo mesopotamico. Sono queste le modalità con cui l’uomo tenta di entrare nel rapporto col divino, con cui tenta di penetrare nell’Ignoto, con cui prova ad aprire una via per conoscere il futuro, il destino.
Allora, come si può chiedere a un popolo di far cessare il suo tentativo di entrare nel mistero del reale, di scrutare il destino delle cose tramite gli strumenti soliti che ha sviluppato la creatività umana, come la divinazione, il sortilegio, il presagio, la magia, gli incantesimi, o la consultazione di negromanti, indovini o morti? Potremmo addirittura dire che questo tentativo appartiene alla natura umana, anzi, alla dinamica razionale che contraddistingue quel livello della natura chiamato uomo.
Qualche settimana fa ho incontrato in Val d’Ossola una coppia di noti archeologi, i Buccellati, che mi hanno raccontato delle loro scoperte nello scavo della città mesopotamica di Urkesh, al nord della Siria, culla della civiltà degli Urriti (nel terzo millennio a.C.). Lì era stato scoperto un pozzo con più di otto metri di profondità, con le pareti ricoperte di pietra. Non si trattava di un pozzo d’acqua, che lascia dei segni chiari per gli archeologi. E neppure era stato utilizzato per la sepoltura umana: non c’erano tracce di ossa umane. Invece erano stati ritrovati resti di un certo tipo di animali, in concreto animali non impuri per gli Urriti. Questa sarebbe un’indicazione chiara che quel pozzo aveva a che fare con dei sacrifici animali. Ma come mai sacrifici animali all’interno di un pozzo e non su altari, all’aperto, sotto gli alberi o sulle colline, o nel tempio?
Quel pozzo doveva essere interpretato come il luogo dove gli spiriti del mondo sotterraneo erano convocati e a loro venivano offerti sacrifici di animali. È stato un brano biblico, mi dicevano i miei amici archeologi, a offrire quest’ipotesi di lavoro. Morto il profeta Samuele, perfino il primo re di Israele, Saul, ebbe bisogno di ricorrere a una negromante per evocare lo spirito del profeta, in una situazione drammatica in cui aveva bisogno di sapere come si sarebbero evolute certe situazioni. E lo spirito di Samuele saliva dal profondo: «La donna disse a Saul: “Vedo un essere divino che sale dalla terra”. Le domandò: “Che aspetto ha?”. Rispose: “È un uomo anziano che sale ed è avvolto in un mantello”. Saul comprese che era veramente Samuele e si inginocchiò con la faccia a terra e si prostrò. Allora Samuele disse a Saul: “Perché mi hai disturbato e costretto a salire?”. Saul rispose: “Sono in grande difficoltà. I Filistei mi muovono guerra e Dio si è allontanato da me; non mi ha più risposto né per mezzo dei profeti, né per mezzo dei sogni; perciò ti ho evocato, perché tu mi manifesti quello che devo fare”» (1Sam 28,13-15).
Rituali simili a questo si trovano anche nelle fonti scritte urrite posteriori all’epoca della costruzione della città di Urkesh.
Se, dunque, questo tentativo di entrare nell’Ignoto appartiene alla dinamica umana, razionale, come mai il Signore, nel testo che stiamo trattando, pretende di far vivere Israele senza queste finestre sul divino? La risposta la troviamo, posta in bocca a Mosè, nei seguenti versetti: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto» (Dt 18,15).
Ecco che sarà lo stesso Dio a indicare un uomo, un uomo scelto tra gli uomini di Israele. La volontà di Dio diventa, per iniziativa dello stesso Dio, parola d’uomo. Parola d’uomo che è parola di Dio nella bocca del profeta. Non si tratta più del tentativo di aprire finestre verso la divinità, tentativo tanto grande quanto debole, insicuro. Ecco l’alba di un nuovo cammino: la parola divina, da secoli ricercata, intuita, immaginata, proiettata, diventa parola d’uomo. Entra dunque, nella storia, nelle circostanze personali del profeta. E inaugura una nuova dinamica: ascoltare, obbedire.
In realtà questa dinamica era già stata instaurata con Mosè, e prima ancora, nella vocazione di Abramo, l’uomo politeista della Mesopotamia che ascoltò la voce del Signore, obbedì e si mise in cammino, dando via così alla storia di un rapporto, presieduto dalla dinamica promessa-compimento. È così che nacque in Israele una concezione lineare del tempo, cioè una storia, che si contrappone alla concezione ciclica del tempo, a immagine della natura e i suoi cicli, dei popoli vicini. È per questo che Eric Voegelin può affermare che: «senza Israele non ci sarebbe stata storia ma solo un eterno ripetersi di società in forma cosmologica».2 Infatti, «solo Israele si costituì raccontando la propria genesi in quanto popolo come un evento dal significato speciale nella storia, mentre le altre società medioorientali si costituirono in analogia con l’ordine cosmico».3
Se Abramo è il grande padre che diede origine, a partire dalla sua fiducia, al popolo di Israele, Mosè è stato la grande guida, il condottiero, prima ancora che legislatore, scelto da Dio, tra gli uomini del suo popolo, per farlo uscire dalla schiavitù. È lui il primo profeta. Infatti, è stato lo stesso popolo a chiedere a Dio un intercessore per non sentire direttamente la voce terribile del Signore nella Teofania sul monte Sinai: «Avrai così quanto hai chiesto al Signore tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore mio Dio e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene; io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò”» (Dt 18,16-18).
Mosè è il primo profeta nella cui bocca il Signore ha posto le Sue parole e i Suoi comandamenti. Tramite lui Israele ha ricevuto il grande dono della Legge. E quando sta per morire, assicura al popolo la continuazione della promessa che il Signore fece allo stesso Mosè: Dio farà sorgere dei profeti che porteranno nelle loro labbra la parola divina. Soltanto in virtù di questa dinamica (quella di ascoltare e seguire le parole del profeta) il popolo potrà allontanare la tentazione di tornare alla creatività religiosa dei popoli vicini. Così si stabilisce il rapporto inscindibile tra Torà e profezia. «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto.» C’è un «dinamismo intrinseco alla stessa Torà sviluppato ulteriormente dai profeti».4 È la profezia, garantita da Dio, che interpreta le parole della Torà e guida il popolo nelle vicende quotidiane.
Arrivati a questo punto – sarebbe giusto domandarsi – questo «ascoltare» una voce concreta e, dunque, «obbedire», esaudisce quell’ultimo desiderium naturale videndi Deum («desiderio naturale di vedere Dio») che ci costituisce? Per dirlo in un altro modo, quella dinamica naturale e razionale di entrare nel mistero del reale, trova il suo compimento nell’ascoltare la voce divina in una voce umana? O in un altro modo ancora, quell’ultimo desiderio radicale di vedere Dio, diguardarlo in faccia, può trovare una forma più concreta di quella di ascoltare e seguire la voce del profeta che è voce di Dio? Queste domande non sono per niente fuorvianti o estranee al testo che ci occupa. Infatti, se guardiamo più da vicino, vediamo come già lo stesso libro del Deuteronomio lascia trasparire un limite in quell’istituzione, la profezia, che dovrebbe rappresentare (e rappresenta) un passo in avanti nella storia religiosa dell’umanità. Sembra paradossale che, dopo la promessa di una continuità di quella voce divina nelle labbra umane dei profeti, il libro del Deuteronomio si chiuda con quest’affermazione fatta subito dopo la morte di Mosè: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè – lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia» (Dt 34,10).
Bisogna rendersi conto che questo commento risale al momento in cui Giosuè, considerato un profeta, era già stato nominato da Mosè come suo successore. E se teniamo presente che la redazione del Deuteronomio, lasciando da parte le controversie accademiche, non è anteriore al VII secolo a.C., risulta che tutto ciò si afferma nonostante si conoscano i grandi profeti di Israele e Giuda (almeno Amos, Osea, Isaia, Michea e Geremia).
Questo vuol dire che la grande promessa di suscitare un profeta «pari a me» non si è ancora adempiuta, né con la scelta di Giosuè e nemmeno con l’istituzione della profezia e l’arrivo dei grandi profeti, da Samuele a Geremia. Allora, che promessa è stata fatta al Sinai, dopo che il popolo ha chiesto un intercessore? O meglio ancora, qual è la promessa ancora non adempiuta? Sembra che abbiamo a che fare con l’annuncio di un nuovo Mosè, uno che parla con il Signore «faccia a faccia».
Benedetto XVI, commentando questo brano nella prima parte del suo libro Gesù di Nazaret, afferma: «Israele può sperare un nuovo Mosè, che non è ancora apparso, ma che emergerà nel tempo opportuno. E la vera caratteristica di questo “profeta” sarà che parlerà con Dio faccia a faccia, come un amico tratta con l’amico. Il suo tratto distintivo sarà l’accesso immediato a Dio, così da poter comunicare la volontà e la parola di Dio di prima mano, senza falsificarle. Ed è questo che salva, che Israele e l’umanità stanno aspettando».5
Ed è lo stesso Ratzinger a collegare il brano che stiamo trattando con un altro testo del libro dell’Esodo in cui Mosè chiede di vedere la Gloria di Dio, il volto divino (cfr. Es 33,18-23). La risposta alla sua richiesta sembra seccante: «Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es 33,23). E, infatti, Dio passa con la sua Gloria mentre Mosè è nascosto nella cavità di una rupe, coperto dalla mano di Dio. Riesce solo a vedere le Sue spalle, una volta che Dio ritira la Sua mano. E continua così il Papa: «Questo testo misterioso ha avuto un ruolo essenziale nella storia della mistica ebraica e cristiana. A partire da esso si cercò di stabilire fin do...