Capitolo 1
Opportunità
Mentre camminavo verso Harvard Square, un pomeriggio di un weekend nel dicembre del 1974, non avevo la minima idea che la mia vita stava per cambiare. Nevicava e faceva freddo, e io ero un ventunenne che non sapeva che cosa fare del proprio futuro. La mia ragazza se n’era andata qualche settimana prima per tornare a Seattle, la nostra città natale, a quasi 5.000 chilometri di distanza. Mi mancavano tre semestri per laurearmi alla Washington State University, da cui mi ero preso due pause negli ultimi due anni. Avevo un impiego in Honeywell che non mi avrebbe portato da nessuna parte, un appartamento scadente, e una Chrysler New Yorker del ’64 che perdeva olio. Se non fosse saltato fuori qualcosa di nuovo durante l’estate, me ne sarei tornato a casa anch’io per laurearmi.
L’unica costante nella mia vita in quel periodo era uno studente di Harvard di nome Bill Gates, mio compagno d’avventure fin da quando ci eravamo conosciuti alla Lakeside School, quando lui frequentava la terza media e io la seconda superiore. Insieme avevamo imparato a decifrare codici informatici. E insieme avevamo fondato un’azienda, poi fallita, e collaborato a vari progetti di programmazione quando eravamo ancora adolescenti. Era stato Bill a convincermi ad andare in Massachusetts con l’idea di abbandonare gli studi e lavorare in un’azienda tecnologica insieme a lui. Poi lui aveva fatto retromarcia tornando al college. Proprio come me, sembrava irrequieto e pronto a cambiar vita.
Bill e io continuavamo a guardarci in giro in cerca di qualche affare commerciale. Pensavamo che prima o poi avremmo sviluppato qualche software, un ambito in cui sapevamo di avere un certo talento. Tra un panino e una pizza ai peperoni alla Casa della Pizza di Harvard, fantasticavamo sul nostro futuro imprenditoriale. Un giorno chiesi a Bill: “Se tutto va bene, quanto grande potrebbe diventare la nostra azienda?”.
Bill rispose: “Penso che potremmo arrivare a trentacinque programmatori”. Mi sembrò un obiettivo realmente ambizioso.
Da quando era nata la tecnologia dei circuiti integrati, negli anni Cinquanta, alcuni visionari avevano prefigurato l’introduzione di computer sempre più potenti ed economici. Nel 1965 Gordon Moore, un giovane ricercatore in Fisica, aveva formulato sulla rivista Electronics una previsione specifica: il numero di transistor contenuti in un circuito integrato sarebbe raddoppiato ogni anno senza alcun aumento per il costo dei chip. Dopo aver cofondato Intel, nel 1968, Moore aveva elevato la velocità del tasso di raddoppio da uno a due anni; una velocità comunque straordinaria. Ben presto emersero trend analoghi per quanto riguardava velocità di elaborazione e capacità di memoria dei computer. Quella di Moore era stata un’osservazione semplice ma profonda, che rimane valida tutt’oggi. Dati i continui progressi nella tecnologia dei microprocessori, i computer continueranno a diventare notevolmente più veloci ed economici.
Lo slancio descritto dalla “Legge di Moore” fu più evidente nel 1969, pochi mesi dopo aver conosciuto Bill. (Avevo sedici anni e stavo imparando a programmare su un computer mainframe). Un’azienda giapponese, Busicom, chiese a Intel di progettare chip per una calcolatrice tascabile in grado di battere la concorrenza sul prezzo. Busicom ipotizzava un circuito integrato a dodici chip. Ma Ted Hoff, uno degli ingegneri elettronici di Intel, ebbe un’idea audace: limitare i costi inserendo le componenti di un computer pienamente funzionante in un unico chip, che avrebbe preso il nome di “microprocessore”.
Prima che questi nuovi chip facessero la loro comparsa, erano necessarie decine o centinaia di circuiti integrati per svolgere una funzione limitata, come azionare semafori, pompe di benzina o stampanti. I cosiddetti minicomputer – quei calcolatori grandi più o meno come un forno a microonde che fecero da ponte tra i mainframe e i successivi microcomputer – seguivano la stessa formula: un chip, una funzione. L’invenzione di Hoff, invece, era molto più versatile. Come osservò Gordon Moore, “Adesso possiamo fabbricare un solo chip e venderlo per svariate migliaia di applicazioni diverse”. Nel novembre del 1971, Gordon Moore e Robert Noyce, coinventore del circuito integrato, lanciarono il microchip Intel 4004 al prezzo di 200 dollari. La campagna pubblicitaria su Electronic News proclamò l’inizio di “una nuova era dell’elettronica integrata”.
Furono in pochi ad accorgersi del 4004, ma quell’anno io ero una matricola universitaria e avevo tempo di leggere qualunque giornale e rivista mi capitasse a tiro. Era un periodo fertile per i computer; quasi ogni mese uscivano nuovi modelli. Quando lessi per la prima volta del 4004, ebbi una tipica reazione da ingegnere: Che cosa si può combinare di bello con questo aggeggio?
A prima vista il nuovo chip di Intel sembrava il cuore di un ottimo calcolatore. Continuando a leggere, però, mi resi conto che aveva tutte le componenti di una vera unità centrale di elaborazione (CPU, central processing unit), il cervello di ogni calcolatore elettronico. Il 4004 non era affatto un giocattolo. A differenza dei circuiti integrati con una funzione specifica, questo chip poteva eseguire un programma a partire da una memoria esterna. Nonostante tutti i limiti della sua progettazione, il primo microprocessore al mondo era più o meno un computer montato su un chip, proprio come dichiaravano gli annunci pubblicitari. Fu la prima anticipazione dell’epoca in cui i computer sarebbero stati alla portata di tutti.
Quattro mesi dopo, mentre continuavo a tenermi informato sui chip, mi imbattei nell’inevitabile passo successivo. Nel marzo del 1972, Electronics annunciò il microprocessore Intel 8008. Grazie alla sua struttura a 8 bit poteva gestire problemi molto più complessi del 4004 e supportava fino a sedicimila (16K) byte di memoria, abbastanza per un programma di normali dimensioni. Il mondo del business lo considerò solo come un componente a basso costo per controllare semafori o nastri trasportatori. (Con lo stesso spirito, Bill e io, già imprenditori di un certo successo, l’avremmo usato per l’analisi del flusso del traffico). Ma sapevo che questo microprocessore di seconda generazione avrebbe potuto fare ben altro, se solo ne avesse avuto l’opportunità.
Le mie idee migliori sono sempre partite dall’immaginare sviluppi rivoluzionari. In questo caso, l’evoluzione dei primi microprocessori Intel. Mi sono sempre posto alcune semplici domande: in quale direzione sta andando la ricerca d’avanguardia? Che cosa dovrebbe esistere, ma non esiste ancora? Come potrei creare qualcosa per contribuire a soddisfare questa necessità, e chi potrei coinvolgere in questa impresa?
Ogni volta che ho avuto un’illuminazione, è scaturita dal combinare uno o più elementi per potenziare una nuova tecnologia e mettere a disposizione di un pubblico potenzialmente vasto applicazioni rivoluzionarie. Pochi mesi dopo l’annuncio dell’8008 ne ebbi per l’appunto una. E se un microprocessore fosse in grado di supportare un linguaggio di programmazione di alto livello, uno strumento essenziale per programmare un computer multiuso?
Mi fu chiaro fin dall’inizio che questo sarebbe stato il BASIC (Beginner’s All-Purpose Symbolic Instruction Code, codice di istruzioni simboliche di uso generale per principianti), il linguaggio relativamente semplice che Bill e io avevamo appreso alla Lakeside durante la nostra prima esperienza con i computer. Il nuovo minicomputer di Digital Equipment Corporation (DEC), il PDP-11, eseguiva già il più complesso linguaggio FORTRAN con una memoria di appena 16K. Anche se una macchina dotata del microprocessore 8008 sarebbe stata ben più lenta, pensavo che comunque avrebbe potuto svolgere la maggior parte delle stesse funzioni del PDP-11 a un costo inferiore. La gente comune avrebbe potuto acquistare un computer per l’ufficio, e persino per la casa, per la prima volta nella storia. Un 8008 con linguaggio BASIC avrebbe spalancato le porte di una grande varietà di applicazioni a una clientela illimitata.
Così domandai a Bill: “Perché non sviluppiamo un BASIC per l’8008?”.
Mi guardò perplesso e rispose: “Perché sarebbe lentissimo e patetico. E il BASIC si prenderebbe quasi tutta la memoria. Non c’è abbastanza potenza, sarebbe tempo sprecato”. Dopo averci riflettuto un momento, conclusi che probabilmente aveva ragione. Poi Bill disse: “Quando sfornano un chip più veloce, dimmelo”.
Bill e io avevamo già trovato un sistema tutto nostro. Io ero “l’uomo delle idee”, quello che concepiva nuove trovate lavorando di fantasia. Bill ascoltava e criticava, dopodiché selezionava le idee migliori e contribuiva a trasformarle in realtà. La nostra collaborazione era conflittuale per natura, ma produttiva ed efficace.
Molto tempo prima di trasferirmi in Massachusetts avevo formulato alcune ipotesi sul chip di nuova generazione che sarebbe dovuto apparire a breve. Ero certo che qualcuno l’avrebbe usato per creare un computer. Qualcosa di simile a un minicomputer, ma così economico da rivoluzionare il mercato. Scrivendo a Intel in cerca di un fornitore locale dell’8008 per i nostri sistemi di controllo dei semafori, chiesi lumi sui progetti aziendali futuri. Il 10 luglio 1972 un manager di nome Hank Smith rispose:
Non abbiamo intenzione di introdurre alcun chip che renda obsoleto l’8008. La nostra strategia sarà introdurre una nuova linea di dispositivi che coprano la fascia più alta del mercato (il livello in cui l’8008 esce di scena e lascia spazio ai minicomputer) […] L’introduzione di questa nuova linea è fissata per la metà del 1974.
Non avevo modo di sapere che Federico Faggin, il grande progettista di chip, stava già facendo pressione sul management di Intel affinché avviasse i lavori sul nuovo Intel 8080, che sarebbe poi stato annunciato su Electronics nella primavera del 1974. Questo nuovo microprocessore avrebbe supportato il quadruplo della memoria rispetto al suo predecessore. Sarebbe stato tre volte più potente e molto più semplice da programmare. Hank Smith si sbagliava; l’8008 sarebbe diventato obsoleto in poco tempo. Come avrebbe osservato Faggin, “In verità fu l’8080 a dar vita al mercato dei microprocessori. Il 4004 e l’8008 ne diedero solo un’idea, ma l’8080 la trasformò in realtà”.
Un punto sembrava fuor di dubbio: l’8080 soddisfaceva i criteri di un microprocessore adatto al BASIC. Non appena lessi la notizia dissi a Bill: “Questo è il chip di cui parlavamo”. Gli illustrai le virtù dell’8080, senza tralasciare il prezzo conveniente (360 dollari). Bill convenne che aveva la capacità sufficiente e il prezzo giusto. Ma sviluppare un nuovo BASIC partendo da zero sarebbe stato un grosso lavoro, qualcosa che non avevamo mai fatto prima, oltre al fatto che non esisteva ancora alcun computer che lo eseguisse. Il che significava che non c’era un mercato. “Hai ragione”, disse Bill, “è una buona idea. Fammi sapere quando esisterà una macchina adatta”.
Continuai a insistere con Bill perché ci ripensasse e mi aiutasse a sviluppare un BASIC per l’8080 prima che lo facesse qualcun altro. “Fondiamo un’impresa”, gli dicevo. “Se aspettiamo sarà troppo tardi e perderemo il treno!”. Il 23 ottobre 1974 scrissi sul mio diario: “Lunedì sera ho visto Bill, forse svilupperemo un compilatore BASIC/Sistema operativo per l’8080”. Questo, però, era solo un pio desiderio. Bill non era pronto, e io non potevo procedere senza di lui. L’unico motivo per cui mi ero trasferito a Boston era stata l’intenzione di fare insieme qualcosa di speciale.
Entrambi sapevamo che c’erano grandi cambiamenti all’orizzonte. Tuttavia non sapevamo quale forma avrebbero assunto fino a quel gelido giorno di dicembre a Harvard Square.
L’edicola internazionale Out of Town News si trovava in mezzo alla piazza. Era vicina alla libreria Harvard, che spulciavo ogni tanto in cerca di qualche volume, e di fronte alla gelateria Brigham’s, dove Bill e io andavamo a prenderci un milkshake al cioccolato. Passavo una volta al mese per dare un’occhiata a riviste come Radio Electronics e Popular Science. Compravo tutte quelle che mi colpivano, scorrendo le copertine che pubblicizzavano ricetrasmettitori radiofonici “fatti in casa”.
Come la maggior parte delle riviste, Popular Electronics era postdatata di una o due settimane. Andai a caccia del nuovo numero di gennaio, e rimasi senza fiato. Il titolo recitava:
PROGETTO RIVOLUZIONARIO!
Il primo kit per minicomputer che fa concorrenza ai modelli commerciali…
“ALTAIR 8800” FA RISPARMIARE OLTRE 1.000 DOLLARI
Sullo sfondo di quella scritta a caratteri cubitali compariva una scatola grigia con varie file di spie luminose e interruttori sul pannello frontale, esattamente come mi ero immaginato*. Visto il target di lettori della rivista, squattrinato e appassionato al fai-da-te, ero certo che contenesse un solo microprocessore; una sfilza di chip tradizionali sarebbe costata troppo. Restava una domanda: quel microprocessore era il limitato Intel 8008 o il “turbo” 8080? Sospettai – e sperai – che fosse l’8080.
Presi una copia della rivista e cominciai a sfogliarla, sempre più ansioso di notizie. Trovai l’articolo a pagina 33, con un’altra foto dell’Altair e un titolo più smaccatamente commerciale:
ALTAIR 8800
Il più potente minicomputer mai presentato.
Si può assemblare a meno di 400 dollari.
La prima frase dell’articolo – scritta da H. Edward Roberts e William Yates di MITS, l’azienda produttrice del computer – era ciò che sognava la coppia Allen-Gates: “L’era del computer in ogni casa – uno dei temi preferiti dagli scrittori di fantascienza – è arrivata!”. Altair rappresentava “un computer a tutti gli effetti, che regge il confronto con i sofisticati minicomputer attualmente in commercio”, ma “nella fascia di prezzo di un televisore a colori”.
Il paragrafo seguente dava la stoccata finale: “Sotto molti aspetti [Altair] rappresenta uno sviluppo rivoluzionario per l’elettronica dal punto di vista progettuale e concettuale […]. La CPU è un nuovo chip a integrazione di larga scala molto più potente dei precedenti processori a circuiti integrati”. Quella CPU era l’8080. Bill è servito!, pensai.
Sborsai 75 cent e percorsi in un baleno cinque o sei isolati di neve sporca fino alla stanza di Bill alla Currier House, il residence studentesco di Harvard. Stava studiando come un matto per gli esami finali. “Ricordi quello che mi hai detto?”, dissi con l’aria da rivincita e il fiato corto. “Di farti sapere quando qualcuno avrebbe sfornato una macchina basata sull’8080?”.
“Sì, ricordo”.
“Beh, eccola”, dissi porgendogli la rivista con un gesto plateale. “Guarda!”.
Mentre leggeva l’articolo iniziò a dondolarsi sulla sedia, come faceva sempre quando era molto concentrato. Vedevo chiaramente che ne era colpito. “È espandibile, proprio come un minicomputer”, mormorò. Venduto a 397 dollari sotto forma di un kit di montaggio, poco più del prezzo di listino del solo chip 8080, il modello base dell’Altair aveva solo 256 byte di memoria, appena sufficienti a programmare l’accensione delle spie luminose. Tuttavia se ne potevano aggiungere altri tramite schede di memoria innestabili. Aggiungendo una scheda input/output e un registratore di audiocassette* o una telescrivente presa a noleggio, si otteneva una macchina funzionante a meno di 2.000 dollari. Il prezzo abbordabile avrebbe cambiato tutto, non solo per gli hobbisti, ma anche per scienziati e professionisti. Era inoltre probabile che l’Altair potesse supportare un linguaggio interattivo come il BASIC, l’idea che avevo in mente da tre anni.
Avevamo di fronte il primo personal computer commerciale.
Bill posò la rivista e stabilimmo la mossa successiva. La buona notizia era che il nostro treno, finalmente, stava partendo dalla stazione. Quella cattiva: non sapevamo se avremmo fatto in tempo a salirci. Anche se l’articolo forniva vaghi riferimenti al BASIC e al FORTRAN, non era chiaro se MITS avesse già a disposizione linguaggi per il microprocessore 8080 o se li stesse sviluppando. In entrambi i casi, saremmo rimasti a piedi.
Sperando nella migliore delle ipotesi, spedimmo una lettera al presidente dell’azienda sulla carta intestata della nostra vecchia azienda di software per il traffico automobilistico, dando a intendere che avevamo un BASIC pronto per il lancio. Non avendo ricevuto alcuna risposta facemmo una telefonata. “Dovresti parlarci tu. Hai qualche anno in più”, disse Bill.
“No, dovresti farlo tu, te la cavi meglio nelle cose di questo tipo”, ribattei. Arrivammo a un compromesso: Bill avrebbe fatto la telefonata, ma si sarebbe spacciato per me. Quando invece giunse il momento di riunirci faccia a faccia con MITS ciascuno di noi pensò: Ci vado io. Io avevo la barba e perlomeno un aspetto da adulto, mentre Bill – che fu sottoposto periodicamente a controlli dei documenti anche a trent’anni e passa – poteva ancora passare per un liceale.
“Ed Roberts”.
“Sono Paul Allen da Boston”, disse Bill. “Abbiamo un BASIC per l’Altair praticamente finito e ci piacerebbe venire a farvelo vedere”. Ammirai la sua spavalderia ma temetti che si fosse spinto troppo in là, dato che non avevamo neppure scritto la prima riga di codice.
Roberts era interessato, ma riceveva una decina di telefonate al giorno da persone che dichiaravano la stessa cosa. Disse a Bill ciò che diceva a tutti: la prima persona che fosse entrata nel suo ufficio di Albuquerque con un BASIC funzionante avrebbe ottenuto un contratto di fornitura per l’Altair. (Come Ed disse in seguito raccontando la storia nel suo stile inimitabile, aveva optato per il BASIC perché “potevi insegnare a qualunque idiota a usarlo in un baleno”). Ci disse che non c’era nulla che potessimo fare per il momento. MITS stava ancora svolgendo la verifica e la correzione dei bug delle schede di memoria di sua produzione che sarebbero servite per eseguire una dimostrazione del BASIC sull’Altair. Sarebbe stata pronta per noi un mese dopo.
L’intera co...