A Gerusalemme
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A Gerusalemme

  1. 216 pagine
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A Gerusalemme

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Capitale simbolica del mondo, amata di un amore possessivo e totalizzante da ciascuna delle tre grandi religioni monoteistiche, bella come un paesaggio e complessa come un organismo vivente, Gerusalemme si può capire solo con una guida che abbia dedicato la vita a capirne gli spazi e la storia. Fiamma Nirenstein, parlamentare e giornalista esperta di problemi mediorientali, ci accompagna nei quartieri della Città Vecchia, per i mercati e le piazze, fra mendicanti profeti, donne velate, turisti e commercianti; e oltre le mura, tra i nuovi edifici simbolo della ricostruzione, per i negozi, i teatri, i musei e i caffè degli intellettuali, illuminando i contrasti della moderna e cosmopolita capitale d'Israele. Alla storia di distruzione e rinascita della città si intreccia quella della famiglia dell'autrice, dalla lezione del padre, un "ebreo pioniere" giunto a Gerusalemme dalla Polonia degli anni Trenta insieme alla Giovane Guardia Socialista, alle avventure dei suoi affetti familiari in una città così suggestiva e difficile al contempo, oltre alle riflessioni sulla storia e sul suo mestiere di inviata: le conseguenze della Guerra dei Sei Giorni, l'incubo dell'Intifada, l'attacco a Israele durante la Guerra del Golfo il futuro della città più contesa del mondo. Il suo affascinante racconto è la testimonianza della passione per la città in cui ha vissuto: una città dove il canto dei mu'ezzin si mescola alle preghiere delle scuole religiose ebraiche, dove si tocca con mano l'ansia di chi va al ristorante e tiene un occhio fisso alla porta, ma anche la forza e la coerenza di chi comunque non ha mai smesso di camminare per la città, in pace e in guerra.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
ISBN
9788858623671
Argomento
History
Categoria
World History
A piccoli passi ho conquistato Gerusalemme. Non credevo che toccasse anche a me, che l’onda della storia del popolo ebraico trascinasse anche me su quel lido fatale, fra le sue pietre e i suoi cedri, fra il Muro del Pianto e il Quartiere Tedesco.
Gerusalemme fa girare la testa di chiunque. Fra la roccia e gli alberi neri, nel bruciare del sole del deserto o nel vento fresco che la sera accelera il sangue nelle vene, nella trimillenaria santità e nella permanente elettricità del conflitto. Per alcune parti ha la bellezza delle città che come Firenze contendono pietra per pietra il loro spazio a una natura abbarbicata, ammiccante, onnipresente, che segnala la sua primogenitura senza pudore. Alcuni angoli non riescono a scuotere via la polvere, la spazzatura accumulatasi sulla sua innata miseria; lungo Rekhov Yaffo che taglia tutto il centro si incontrano mendicanti profetici che a quaranta gradi di temperatura avanzano come zombie in lunghi cappotti di lana e cappelli di pelliccia della Polonia del XVI secolo. Ma le nuove costruzioni nella maggior parte e con alcune scandalose eccezioni brillano di intelligenza architettonica, di audacia nel trasferire al presente l’ispirazione del passato: la pietra e gli archi di Erode il Grande diventano malls e alberghi e negozi a Mamillah; la Moshavah Germanit, il Quartiere Tedesco che un tempo era la base dei Templari fuori le mura, tutta restaurata e rinnovata è un cestino di fiori; lo sbilenco e ambizioso ponte a tiranti all’ingresso della città suggerisce una perplessità, un punto interrogativo senza risposta. Le fanciulle che siedono nei caffè, curate nei particolari dell’abbigliamento sexy insieme alle amiche infagottate nei panni dell’esercito, parlano una lingua sofisticata e strascicata, che si capisce poco e che intendono soltanto i ragazzi. Ordinano yogurt con granola al Caffè Cafit, che, saltato per aria durante la seconda Intifada, adesso brilla tutto ristrutturato.
Ma la persistente miseria del quartiere sporco e squallido sotto il mercato di Makhaneh Yehudah, dove striscia nella polvere la scelta del rifiuto della modernità, parla in yiddish e in arabo della difficoltà del sionismo dopo duemila anni di diaspora.
Persino il nome di Gerusalemme è strano e spiazzante. In italiano, invaso da tutte quelle emme e con la finale in e, ha un suono arcaico, barbarico, quasi buffo come il nome Matusalemme: Gerusalemme è un proverbio, è una parabola, è una preghiera, un pellegrinaggio obbligatorio, si va a Gerusalemme almeno una volta nella vita senza ridere e senza piangere, molti dopo aver chiesto tremuli: «È tanto pericoloso? Che dici, porto i bambini?».
Gerusalemme ti confonde. Nelle varie lingue comincia ogni volta con una lettera diversa, in ebraico con la i, da noi con la g, in spagnolo con la h aspirata, in inglese con la j… Ma poi ovunque si snoda rimbalzando sulla lingua, non si ferma in bocca, sale fino alla fronte e si trasforma in un pensiero personale e astratto. Sì, ti conosco Gerusalemme, so di te alcune cose… Ognuno ha un’immagine che salta su a sentir pronunciare questo nome, ognuno si inventa una Gerusalemme astratta, ne fa un suo specchio. Ognuno formula una fantasia nel pensare Gerusalemme, e la fa subito sua. Beata te, dicono gli amici. Oh, rispondono al telefono, ti trovi a Gerusalemme, che meraviglia… Che meraviglia? In genere non lo credono affatto, anzi semmai sono un po’ perplessi, oppure gelosi. Pronto? Ma come, Gerusalemme? È la loro ansia spirituale che parla.
La meraviglia è legata non a un ricordo, non alla bellezza, ma a una propria aspirazione al bene, non importa se qualche pezzo di Gerusalemme sta saltando per aria proprio in quel momento e la città è piena di sangue. Non importa neanche se invece è quieta come Roma o New York non lo sono state mai né mai lo saranno. Gerusalemme è un pensiero, e si stenta a farla divenire una città. Magari per la paura non ci si viene, si rimanda il viaggio, ma la si desidera. La Gerusalemme celeste vince su quella terrestre nell’immaginazione di chiunque, sia esso un colombiano di Bogotá, un romano di Trastevere, un americano del Texas.
Tutti sanno Gerusalemme, ciascuno a modo suo, proprio come ciascuno sa il suo Dio. Gerusalemme nell’antichità, ancora ai tempi dei cananei, quando si chiamava Salem e il re David la guardava da lontano e meditava di prendersela, era già, chissà perché, un luogo centrale del mondo, il nucleo su cui esso poggia, il pistillo del fiore del creato; quante carte dell’antichità la mostrano così, come il centro di un fiore i cui petali sono i continenti.
Balagan
Mi ci sono voluti anni per capire dove ero, da quando Teddy Kollek, il vecchio e poderoso sindaco di Gerusalemme, mi ricevette per un’intervista. Sedemmo su sedie scrostate di fronte a una scrivania disordinata nell’ufficio che guardava le mura della Città Vecchia, nell’edificio Bauhaus dalla facciata rotonda; il leone viennese che ha tenuto la città per il collo per quasi trent’anni si era degnato di vedere la giovane giornalista italiana. Era un seduttore, un intellettuale austriaco pioniere con la camicia bianca aperta sul collo, non molto interessato all’oggetto della seduzione in sé, ma preciso nella mira: «Lei è fiorentina» mi disse, «qualche tempo fa ho accompagnato il sindaco di Firenze Bogianckino alla Tayyelet», la terrazza panoramica ispirata a Piazzale Michelangelo che guarda la cerchia delle mura, la Moschea di al-Aqsa, il deserto della Giudea. «Il vostro sindaco mi inondava di complimenti e io allora gli ho detto: “Mi guardi negli occhi. Lei viene da Firenze, vuole mettere Michelangelo e Giotto a confronto con questo balagan?”.» Usò una parola mai sentita prima. Bello: balagan, gran confusione, lo guardai a occhi sbarrati, conquistai il termine. Più avanti mi ha fatto un effetto altrettanto risonante la parola pustema, una ragazza bruttina e antipatica, un’altra parola il cui suono era già una traduzione. Anche freha è una parola così, chiunque capisce che si tratta di una ragazza molto truccata che si butta in fuori, con minigonne eccessive e qualche complesso che la rendono alla fine simpatica, mentre la povera pustema è perduta per sempre.
Teddy Kollek si erse sul busto per vedere dall’alto in basso che effetto facevano la sua falsa modestia e il suo raro fascino viennese di pioniere macho e intellettuale. Lui era un personaggio famoso, un fondatore socialista, e va bene. Io non sapevo che era un santo, un’icona per gli ebrei e per gli arabi della città, che in presenza sua non litigavano quasi mai, avendone paura. Solo più tardi saremmo diventati amici e sarebbe venuto a trovarmi a casa mia a Gilo insieme con Bernard Lewis, due grandi vecchioni che ti onoravano anche solo accostando le labbra ai tuoi bicchieri dove si erano fatti servire un copioso whisky, Bernard con un pochino d’acqua e niente ghiaccio. Una volta anche Nasser Eddin Nashashibi, vero principe palestinese, venne a cena con loro. Essere insieme li metteva di ottimo umore, ciascuno contemplava nell’altro l’alto significato della propria vita avventurosa.
Mi aveva fatto effetto la parola balagan. Confusione con rumore di scivolata e cocci e rullo di tamburi comico. La ragazza fiorentina col blocco e la penna che sono sempre stata rise contenta del complimento alla sua città di nascita, pronta alla prossima domanda. Poi, ci ho ripensato molte volte. Dentro di me gli davo proprio ragione.
Bellezza segreta
Gerusalemme non mi pareva tanto bella. Non certo la Città Vecchia, coi quartieri affollati di turisti che compravano ricordini religiosi, gli edifici confessionali costruiti con arcaica ambizione padronale, la pietra ovunque, in grandi blocchi gialli e rosa come le Dolomiti, ma senza la civiltà educata della mia pietra serena grigia levigata o scanalata, quasi pettinata. Io avevo bisogno di quel grigio. Da piccola l’antichità di Firenze mi si era imposta come una seconda anima, vigile accanto a quella moderna che sta attenta ad attraversare la strada, che si affanna dietro le notizie e impara a usare il computer. Qui era stato bruciato Savonarola, l’arte aveva il suono delle carole infantili: Ammannato Ammannato quanto marmo hai sprecato; cos’è la cosa più buona del mondo?, chiese Dante Alighieri passando accanto a Giotto che dipingeva; l’ovo sodo, rispose il giovane pittore, e un anno dopo Dante ripassando gli chiese senza preamboli: co’ icché? Co’ i’ssale, rispose il pittore senza alzare gli occhi. La meraviglia del genio fiorentino, Giotto, Duccio, Vasari, Michelangelo, Donatello, le formelle del Ghiberti, non avevano bisogno di citazioni e studi: non ho io il merito di avere evocato la loro continua presenza, mi accompagnava per mano fin dalla mattina. Per esempio, un giorno prima di andare a scuola scoprii dentro il Duomo il mio ragazzo che andava per mano con la compagna di classe più cara, detta Chela, a guardare le opere d’arte. Scoperta di un nobile tradimento, dolore sentimentale e artistico. Lorenzo e poi Cosimo, i Medici mi hanno fatto sempre compagnia, lo studiolo magico di Francesco, e i sepolcri che parlano di Ugo Foscolo ogni volta che cammino guardando le tombe in Santa Croce sono più belli del Santo Sepolcro.
L’antica città non mi è venuta incontro, i suoi quattro quartieri della Città Vecchia non mi si proposero come mondi da capire, ma come un luna park turistico e commerciale. Questo è il rischio in Città Vecchia: imbrancarsi mentalmente con le truppe appena scese dai pullman.
Solo andandoci la mattina molto presto ho cominciato a sentire il sapore dei secoli passati, l’odore della storia di quel rettangolo circondato da mura di difesa più volte tragicamente sfondate, diviso in zone diseguali. Ho superato nel tempo l’ubriacatura dello shuq, la smania di comprare e incamerare i vasi iracheni con i pesciolini dipinti, i sandali di cammello, i vetri blu di Hebron, i datteri della Siria, le pite calde con lo za‘tar… Si può camminare per Gerusalemme anche senza volersene portare via un pezzo, avvertire il tempo millenario nascosto dalla folla, sotto la folla, scorgere il filo su cui ha rischiosamente danzato come una ballerina, vicino alla totale sparizione, sempre risorgendo dai suoi cumuli di pietre rosate.
Si può camminare a lungo dentro la città, attraversandola senza voltare mai. La strada dalla Porta di Damasco a quella di Sion taglia tutta la Città Vecchia da est a ovest, e quella dalla Porta di Giaffa a quella dei Leoni, da nord a sud. Per entrare si può scegliere fra sette porte molto diverse l’una dall’altra nello scenario che segue l’ingresso, una scelta fatale che impone decisione (come fra le melarance di una favola). Altre quattro porte sono chiuse per quei motivi brutali e talora di puro scongiuro esoterico che seguirono le rivoluzioni di potere: per esempio è stata murata la Porta d’Oro per impedire al Messia, quando verrà per gli ebrei, di accedere alla città da quella parte, come è scritto nella profezia.
Entrando dalla Porta di Giaffa, quella più frequentata dai turisti, subito si affonda nello shuq arabo e in fondo nel buio ci si può addentrare nel quartiere musulmano e infilarsi in stradine fitte di turisti e di palestinesi che chiamano in tutte le lingue, e invitano a entrare, e trattano il prezzo, felici e padronali nell’avere a che fare con tanti stranieri. Io tiro sempre diritto, salvo abbia uno scopo ben preciso.
Negli slarghi dove si trovano bar e ristoranti, giovani palestinesi giocano a shesh besh accanto ai vecchi seduti ai tavolini, oppure in sale interne si allenano al biliardo e infilano monetine nelle slot machine. Ma a sinistra si lasciano i musulmani e si incontrano i cristiani, e si raggiunge in breve il Santo Sepolcro, e tutti i luoghi di culto e di vita cristiana.
Quella bizzarra costruzione, al di là del suo venerabile contenuto, la pietra della deposizione, a me è sempre apparsa un accrocco di sassi, parte del quale di nobile fattura. Sassi più volte rivoluzionate, ammucchiate, fatte a pezzi, rimesse in sesto, disperatamente protese, oltre la bella piazza in discesa, a superare le tempeste della storia, come la distruzione da parte del califfo al-Hakim nel 1009. I lifting si vedono come in una bella attrice, le continue ricostruzioni dopo l’avvento di Goffredo di Buglione nel 1099, quando si denominò difensore del Santo Sepolcro, sono tutte in mostra, rese più evidenti dai make up delle tante fedi cristiane ammonticchiate dentro il santuario in eterna contesa.
Tuttavia, da quel che si vede, brutto o bello che sia, emana una fede e una passione indicibili, brilla la lastra di pietra lucidata dalle lacrime e le carezze e non è disturbata dalla lotta continua fra cattolici, armeni, copti, greco-ortodossi, insomma quella ventina di Chiese i cui membri periodicamente se le danno, in senso proprio, a botte e bastonate.
A sinistra della strada che parte dalla Porta di Giaffa il Quartiere Armeno è silenzioso, conserva i tratti del rifugio dalle persecuzioni dei turchi, il museo di uno sterminio che eliminò – secondo varie e controverse stime – circa due milioni di persone, compresi donne e bambini trucidati. Ma la mostra è così modesta da far subito capire quanto la memoria sia per gli armeni una dura battaglia contrastata dalla proibizione turca. Antichissime case piccole e quadrate, architravi del tempo in cui gli uomini erano alti un metro e cinquanta si susseguono dietro un muraglione che dalla Porta di Giaffa accompagna fino al Quartiere Ebraico. Non posso dimenticare una testata formidabile di mio marito che camminava per il quartiere alla ricerca di inquadrature per la sua macchina da presa.
Gli armeni sono fieri, attaccati alla loro fede cristiana e al loro rapporto con Gerusalemme, dove il loro patriarcato esiste dal 638. Spesso vado a trovare il pittore Agop per rinnovare il mio tesoro di ceramiche, conche, piatti che egli cuoce nel forno del retrobottega del suo negozio. Agop ha grandi baffi e fa i migliori dipinti di cervi e fiori tutti lievi e librati in aria tanto che la storia tragica degli armeni non li ha mai potuti sfiorare. Alcune sue opere sono esposte al Museo d’Israele.
Il Quartiere Musulmano, il più grande, arriva fino alla Spianata del Tempio fra labirinti e gallerie, e pertinacemente, accanto, ci arriva anche il Quartiere Ebraico. L’uno insegue l’altro, e lo snobba con sdegno. Nessuna confidenza, prego.
Un punto di strano incontro, fuori mano, è la Tomba di Davide, dove ci sono anche la sala dell’ultima cena di Gesù e persino una moschea. Tutto è vero, guai a metterlo in discussione, e tutto è falso, basta chiedere agli archeologi. Molto a Gerusalemme è fatto così. Ma sul vero e sul falso resta sempre aperta la finestra della fantasia e di una fede che mostra i denti. C’è un buco nella roccia al Golgota dentro il Santo Sepolcro dove tutti infilano la mano perché pensano che sia il foro dove fu piantata la croce. Al Muro del Pianto i musulmani credono che sia stato legato al-Buraq, il cavallo volante di Muhammad. Per gli ebrei il Muro è la posta elettronica del Padre Eterno, anche papa Wojtyla ci mise un biglietto da consegnare a Dio per direttissima.
Gli ebrei, gli armeni, i cattolici, gli etiopi che si vantano di essere i primi cristiani giunti a Gerusalemme, i musulmani, tutti a Gerusalemme guardano le pietre della Città Vecchia e fantasticano; e noi che visitiamo la città deliriamo con loro.
I gruppi etnici e religiosi si insinuano l’uno nell’altro senza che le loro menti si lascino contaminare da umana simpatia, e aumenta la confusione della convivenza nella continua insidia. Ognuno ha segreti che i turisti non sapranno mai, vita vera, concorrenza minuta e grandiosa, a occhio nudo la si può solo intuire, e anche spiare.
Proprio subito dopo l’ufficio turistico all’ingresso della Porta di Giaffa, due tombe una accanto all’altra sembra raccolgano i resti dei due architetti cui Solimano il Magnifico ordinò di ricostruire le mura. E sono più o meno le mura che ancora vediamo, lo stesso percorso con inserti ebraici, romani, persiani. Il perimetro è rimasto quasi eguale ogni volta che le mura – sopra le quali si può camminare lungo i quartieri della città mentre i corvi e le rondini ti sfiorano prendendoti in giro – sono state riedificate sulla traccia di quelle rase al suolo dai romani. Dall’impero di Adriano fino a tutto il periodo turco, che è durato quattrocento anni, le hanno distrutte e ricostruite a causa delle mille guerre e dei terremoti che, poiché Gerusalemme è su una linea di faglia, devastarono più volte la città.
Da Erode (il Grande, non quello di Gesù) a oggi, cioè più o meno dal I secolo a.C., si calpestano le stesse pietre, e le si riconosce e le si accarezza vive come fatte oggi, quelle di Erode sempre grandi, squadrate, piatte, incorniciate a scalpello in segno di riconoscimento della grandezza del folle e grande re.
Il quadrato urbano è piccolo, quattro chilometri in tutto per chi abbia voglia di camminare intorno. Ogni porta ha una sua storia, come quella di Giaffa che fu allargata per lasciare entrare il Kaiser, o come la Porta d’Oro oltre la quale, per misura di sicurezza contro il Messia, fu costruito dai musulmani un cimitero, cosicché un sacerdote – ovvero un kohen, come dovrà essere il Messia – non vi possa transitare: la halakhah, la legge ebraica, non lo permette.
Forse ciò che mi ha a lungo tenuto lontano dall’amare la Città Vecchia è stata la sua disarmonica, labirintica mobilità entro lo stabile perimetro delle mura. Sono fiorentina, non mi piace saltare di palo in frasca. Non mi piace rappresentarmi il conflitto come un’armonia segreta in attesa di un Messia. La tensione mi snerva. Molte distruzioni sono state compiute, le hanno sofferte cristiani, musulmani ed ebrei, e gli ebrei sono stati perseguitati da tutti mentre mi risulta che non abbiano mai perseguitato nessuno. Eppure, ne riparleremo poi, non se ne sono mai andati; e cacciati con la spada, sono tornati sempre a casa come uccelli migranti di ritorno dall’inverno, silenziosi, flessibili, ora forti ora invisibili e a caccia dell’opportunità di toccare le pietre del Muro del Tempio, casa loro.
Il Quartiere Ebraico si è spostato varie volte sempre nel tentativo di stare il più vicino possibile al Muro Occidentale del Tempio distrutto nel 70 d.C. Il pellegrino di Bordeaux, che nel 333 andò alla ricerca delle tracce di Cristo e vide fra i primi la collina del Golgota, scrive anche che c’era una pietra perforata sul Monte del Tempio intorno a cui alcuni poveri ebrei si riunivano in preghiera. Nell’angolo sudoccidentale del Tempio si è trovata una scritta che testimonia che durante il periodo bizantino gli ebrei vi pregavano insieme nonostante la proibizione di entrare a Gerusalemme sotto pena di morte. Per un bel pezzo tentarono di ricostruire il Tempio dov’era, e finché i crociati non conquistarono la città nel 1099, ci fu sul posto una sinagoga, menzionata nei testi della genizah del Cairo. Cacciati e sempre ritornati, gli ebrei hanno visto distruggere le loro case, i loro templi, le loro sinagoghe.
I primi a insediarsi nella Città Vecchia in massa dopo la cacciata dalla Spagna nel 1492 furono i sefarditi, ed è rimasta famosa una loro meravigliosa sinagoga. Ma poi vennero anche gli ashkenaziti dal Nord Europa sotto la guida di un santo khasid, Rabbi Yehudah, che ve li condusse nel 1700 e cominciò a ricostruire le basi della sinagoga della Khurvah, poi ulteriormente fatta e rifatta fino al completamento nell’Ottocento. Oggi la si vede tutta rinnovata dopo che i giordani la fecero saltare per aria nel 1948 quando conquistarono la città. Con essa devastarono tante altre sinagoghe, antiche e antichissime, compresa una sinagoga caraita del X secolo d.C.
La sinagoga della Khurvah è nel mezzo di una piazza piena di gente da cui, per una stradina e sotto un arco, si arriva fino alla scala spettacolare da cui si vede la cupola d’oro della Moschea e si scende come in un volo mistico verso il Muro del Pianto. È a poca distanza dal «cardo», la via principale costruita dagli antichi romani, diritto e perfetto, inutile sogno di raddrizzare gli ebrei, di impossessarsi dell’anima, del legno storto di Gerusalemme per sempre. Tante volte sono scesa nella pancia romana della città, in basso, nell’era di Giuseppe Flavio, che amo nonostante la sua storia di traditore appassionato, nel cuore della determinazione romana a cancellare l’ostinazione superba di Gerusalemme, per camminare sul tracciato diritto dopo tante stradine; ci sono le rovine dei negozi, le colonne, gli edifici pubblici di Roma in Gerusalemme; e poi si risale nella vita pulsante, proprio fra gli ebrei della rocca antica che vivono ancora.
Qui incontri donne con dieci pargoli attaccati alla gonna lunga, il fazzoletto in testa, li sfiori e li costringi, per pudore, a fare un salto più in là, gli uomini vestiti di nero che vanno veloci, forse fuggendo – beati loro – dalla confusione domestica tutta lasciata alle donne verso le yeshivot, le scuole religiose. Sono coraggiosi nella loro determinazione a vivere in un quartiere difficile che vuole esistere nel cuore antico della Bibbia. Oppure, sempre nel Quartiere Ebraico, ti imbatti in laici intellettuali un po’ freak che adorano vivere fuori dal mondo normale, nelle piccole case ornate di fiori vicino alle quali non passa mai un’auto, su cui cala una notte che è tutta silenzio e mu’ezzin poco lontani, ben ricostruite in un quartiere che è sempre un po’ assedia...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. A piccoli passi ho conquistato
  5. Ringraziamenti