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Tito a Trieste
Nel nostro programma, era previsto un viaggio a Trieste e a Gorizia. Arrivammo a Trieste un sabato mattina di fine marzo. Tutto ci sembrò perfetto. Cielo azzurro, mare calmo, niente bora. La città era splendida, una regina che si specchiava nell’Adriatico.
Livia sospirò: «Dovremmo essere qui in vacanza. Invece andiamo in posti meravigliosi soltanto per lavorare. E soprattutto per ascoltare storie orribili».
Le replicai con affetto: «È stata lei a propormi questo libro. Dunque non si lamenti».
Avevo prenotato due stanze al Grand Hotel Duchi di Aosta, su piazza dell’Unità d’Italia. Dopo aver sistemato i bagagli, dissi a Livia: «Conosco un piccolo ristorante a pochi passi dall’albergo. È la Città di Cherso: ottima cucina e tranquillità assoluta. Potremo parlare dell’incontro che ci aspetta nel pomeriggio».
Ordinammo due piatti di pesce e nell’attesa Livia osservò: «Mi ha già spiegato perché dovremo occuparci di Trieste, di Gorizia e di Fiume. Ma non so chi vedremo in città».
«È un insegnante di storia in pensione che ho conosciuto l’anno scorso. Sempre dopo una presentazione del Revisionista» le spiegai. «Mi ha cercato lui, mentre il pubblico lasciava la sala. Mi ha consegnato il suo biglietto da visita, dicendomi: “Se vorrà sapere che cosa è accaduto a Trieste nei quaranta giorni dell’occupazione comunista jugoslava, venga a trovarmi. Sono in grado di offrirle un racconto onesto perché è da molti anni che quella storia sta dentro la mia vita”. Gli ho telefonato da Roma qualche giorno fa. E lui è pronto a riceverci».
«Che altro sa di questo insegnante?» domandò Livia.
«Non molto, ma quanto ci serve. Ha la mia stessa età, dunque nel 1945 aveva dieci anni. È stato a lungo professore di storia nei licei. Ho chiesto di lui a qualche mio amico di Trieste. Mi hanno spiegato che ha un’ottima fama. È un laico, lontano dai partiti. È stato repubblicano nel vecchio Pri di Ugo La Malfa. L’aspetto è quello di un uomo più giovane della sua età: un signore alto, magro, una corta barba bianca, un modo di fare cordiale e al tempo stesso riservato. Vive da solo perché è rimasto vedovo da poco. Ha un paio di figli grandi, uno è medico, l’altro dirigente d’azienda. Non so altro di lui. Ma penso che sarà un buon testimone per il nostro libro.»
Il Professore, lo chiamerò così, abitava in un palazzo vicino al nostro hotel. Appartamento grande, gremito di libri. Gli presentai Livia e lui ci fece sedere nello studio, attorno a un tavolo ingombro di carte.
Volle parlare per primo e disse: «Innanzitutto devo spiegarle perché l’arrivo degli slavi a Trieste sta dentro la mia vita. Come lei sa, nell’aprile 1945 avevo dieci anni. E da ragazzino mi ero costruito un idolo: mio cugino Antonio, figlio di una sorella di mia madre. Antonio aveva dodici anni più di me ed era stato partigiano in Piemonte perché all’armistizio si trovava da militare a Torino. Nell’autunno 1943, raggiunse una banda in val di Lanzo, poi diventata una Brigata Garibaldi. Lì fece il proprio dovere nella Resistenza sino al gennaio 1945».
Il Professore continuò: «Era un inverno terribile e la sua brigata scese in pianura, nella zona fra le Langhe e Asti. Ma anche lì incontrò molte difficoltà nel trovare riparo e cibo. Il comandante disse ai suoi uomini che, se lo volevano, potevano ritornare a casa. Antonio decise di rientrare a Trieste e ci arrivò, dopo molte traversie.
«Per qualche tempo rimase nascosto in un paese sul Carso, poi si arruolò in una banda del Partito d’Azione. Alla fine dell’aprile 1945 scese a Trieste e partecipò ai combattimenti contro i tedeschi che non volevano arrendersi e aspettavano l’arrivo dei reparti neozelandesi del generale Bernard Freyberg.
«Come lei saprà, invece dell’8ª Armata britannica, entrarono a Trieste i partigiani jugoslavi della 4ª Armata dalmata. E il 2 maggio iniziò un’occupazione violenta, gonfia di orrori e di sangue. I comunisti cominciarono ad arrestare molti triestini. Era l’inizio della pulizia etnica, con l’obiettivo di spargere il terrore fra gli italiani che respingevano le mire di Tito su Trieste e la Venezia Giulia.
«Lo storico Raoul Pupo l’ha definita un’epurazione preventiva, per eliminare tutti gli oppositori potenziali al nuovo regime comunista. L’8 maggio venne arrestato anche Antonio. Era un antifascista, un partigiano, aveva combattuto contro i tedeschi e la Repubblica sociale, ma venne considerato un fascista da far sparire.»
«Chi lo arrestò?»
«Una squadra della Difesa popolare, il corpo dei miliziani comunisti, la nuova polizia di Tito. Da quel momento, di Antonio non si seppe più nulla. La sua famiglia e la mia cominciarono a cercarlo con la forza della disperazione. Era stato subito fucilato? Scaraventato in una foiba? Deportato nell’inferno dei lager sloveni? Antonio scomparve nel buio della notte di Tito…»
Dissi al Professore: «Adesso comprendo perché un anno fa mi aveva confidato che l’occupazione slava di Trieste stava dentro la sua esistenza».
«È così» mormorò lui. «Dopo la morte di Antonio ho cominciato a odiare i comunisti jugoslavi. E anche quelli italiani che gli avevano tenuto il sacco. Le confesso uno stato d’animo del quale un po’ mi vergogno. Dopo la morte del maresciallo Tito, quando la Jugoslavia si è disfatta ed è cominciata una guerra civile disumana, ci ho goduto. Mi sono detto: adesso tocca a loro, i diavoli si stanno mandando all’inferno, fanno tutto da soli, senza l’aiuto di nessuno. Ho pensato che, dopo mezzo secolo, la storia rendeva giustizia ad Antonio.»
Il Professore rimase in silenzio. Fissava il vuoto, alle prese con fantasmi che soltanto lui scorgeva. Poi si riscosse e si alzò per preparare un caffè a Livia e a me. Quando ritornò nello studio, si rivolse a entrambi: «Ho capito perché volete dedicare una parte del vostro libro a Trieste. Il punto di partenza mi trova d’accordo. Se i comunisti italiani avessero trionfato nella guerra civile, e non avessero avuto di fronte gli americani e gli inglesi, avrebbero fatto ovunque quello che i loro compagni titini hanno fatto qui. Venezia, Verona, Milano, Torino, Genova, Bologna sarebbero diventate dei cimiteri come Trieste e Gorizia. Migliaia di deportati, migliaia di scomparsi, delitti, confische di beni, torture, il predominio della polizia politica, l’autorità assoluta del Partito comunista italiano…»
«Insomma, ci è andata bene!» esclamò Livia, turbata.
Lui annuì con un cenno del capo: «Già, vi siete salvati da un’altra guerra. Proprio per questo mi sembra giusto che vogliate ricordare quello che abbiamo sofferto noi. Tuttavia posso darvi un consiglio da vecchio insegnante di storia?».
«Siamo venuti da lei anche per questo» replicai.
«Bene. Il consiglio è di non pretendere di raccontare nei dettagli i quaranta giorni dell’occupazione jugoslava di Trieste. È un tema che è già stato sviscerato in decine di libri, di saggi, di articoli, di memorie, di scritti polemici. Ne conoscerete molti anche voi. Allora, ecco il mio suggerimento: limitatevi a rievocare soltanto due momenti di quella tragedia. Uno è il lavoro sanguinario compiuto a Trieste dall’Ozna, il servizio segreto di sicurezza e di intelligence di Tito. L’altro è il grande orrore di Villa Segrè, il top della crudeltà comunista in questa città.»
«L’Ozna è una sigla che in italiano significa Sezione per la protezione del popolo» ci spiegò il Professore. «Per dirla con parole semplici, era il servizio segreto dell’esercito popolare di liberazione jugoslavo. Temprato nella guerra contro i tedeschi e gli italiani.
«Ne facevano parte soltanto militanti comunisti con attitudini particolari: specialisti in operazioni di spionaggio e controspionaggio, ma specialmente esperti in eliminazioni, singole o di massa. Tutti capaci di muoversi con spietatezza, nei confronti di chiunque venisse ritenuto pericoloso per il nuovo regime di Tito.»
Dissi al Professore: «Mi ero già occupato dell’Ozna quando stavo scrivendo Prigionieri del silenzio, la storia di un comunista italiano fuggito in Jugoslavia nel dopoguerra e poi finito nel lager infernale di Goli Otok, l’isola Calva. Vi spiegavo che la struttura dell’Ozna, la sua mentalità e la sua crudeltà corrispondevano in pieno al modello insuperabile dei servizi segreti sovietici».
«Era davvero così» convenne lui. «L’Ozna aveva una fama pessima per chi non voleva sottomettersi agli jugoslavi. Ma godeva di una fama ottima presso Tito e i suoi gerarchi. Alla fine del 1945, il Maresciallo decise di mantenerla in vita, anche se la guerra era conclusa. Anzi, la rafforzò dicendo: “Se l’Ozna mette il terrore nelle ossa di chi non ama la nuova Jugoslavia, la cosa torna a vantaggio del nostro popolo”.
«A quel punto, l’Ozna cambiò nome» ci disse il Professore. «Fu chiamata Udba, che significava Direzione per la sicurezza dello Stato. Ma i suoi sistemi d’indagine e di repressione restarono gli stessi. Se ne resero conto molti comunisti jugoslavi e stranieri che nel 1948 non avevano approvato la rottura fra Stalin e Tito. Costoro vennero subito considerati nemici della Jugoslavia e provarono sulla loro pelle la ferocia dell’Udba.
«Ma facciamo un passo indietro nel tempo e torniamo alle origini dell’Ozna. Tito decise di far nascere un servizio unificato di sicurezza nel maggio 1944. Gli fu di grande aiuto l’Unione sovietica. Nel febbraio di quell’anno arrivò al suo quartier generale una missione di quattordici alti ufficiali dell’Armata rossa. Tra questi c’era un colonnello del Nkvd, il progenitore del Kgb, che ebbe un ruolo chiave nella costruzione dell’apparato dell’Ozna. Alla fine del 1944, un gruppo di ufficiali jugoslavi venne poi inviato a Mosca per essere addestrato nella cosiddetta Accademia Dzerzhinsky, la scuola sovietica per la sicurezza dello Stato.»
Il Professore ci avvisò: «Quello che so l’ho imparato soprattutto da un saggio di William Klinger, pubblicato su “Fiume”, rivista di studi adriatici, nel gennaio-g...