Il denaro in testa
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Il denaro in testa

  1. 224 pagine
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Il denaro in testa

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Vittorino Andreoli per la prima volta pone sul lettino dello psichiatra i temi dell'economia e mette a nudo la società moderna, ossessionata dal denaro, terrorizzata dallo spettro della povertà. Quando i soldi si insinuano nella vita delle persone instillando dubbi, minando ogni sicurezza, mettendo in crisi le altre certezze; quando i soldi si trasformano in un virus che produce i sintomi della malattia, l'economia non basta. La psicologia ci aiuta a spiegare e a comprendere la natura illusoria del denaro – la falsa promessa che tutto si possa comprare, anche gli affetti – per ricondurlo invece alla sua condizione di semplice strumento, il cui uso irrazionale e scriteriato può arrivare a trasformare le esigenze in dipendenza, i desideri in angoscia. Quello che Andreoli ci propone non è una nuova teoria economica né una facile soluzione consolatoria, ma una riflessione su come anche l'etica sia potuta diventare oggetto di contrattazione, un percorso per riappropriarsi del vero significato della vita, delle relazioni interpersonali e del vivere civile.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858623183
Il denaro in testa

Economia e psicologia

Il prezzo del mondo

Sono impaurito, avverto un pericolo a cui non riesco a dare consistenza. Un pericolo sine materia, uno spettro della mia mente, indefinito e pieno di mistero, e sto soltanto iniziando a scrivere un libro.
Mi guardo attorno come se mi dovesse capitare qualcosa. Come nell’Aspettando Godot di Samuel Beckett: si attende da un momento all’altro qualcuno che, però, non arriva, che forse nemmeno esiste, ma che l’attesa rende reale. E gli si dà un volto che giunge ad assumere le sembianze di un mostro.
Forse tutto si lega al personaggio centrale di questo mio lavoro, al denaro.
Tema caro agli economisti, ma non a me. Uno strumento che serve ad attribuire valore alle cose, come se si dovesse dare il nome a un nuovo nato per identificarlo. Il denaro, e la sua quantità, definiscono addirittura le cose.
Se un oggetto non ha un prezzo, non vale nulla. E se non vale nulla, non è nulla. Lo zero è il segnale del suo non avere senso.
Un personaggio, dunque, che mi attrae e al contempo mi spaventa. È la misura di tutte le cose, è la cifra che le identifica e che dà loro un senso. Attribuire un valore è il rito del battesimo, che pone le cose in essere, che le rende esistenti.
Il denaro mette in moto la produzione e dà vita al commercio; è all’origine del mondo delle imprese, che assegnano un prezzo agli oggetti che producono, trasformandoli dunque in denaro. In questo senso è un simbolo, una metafora del valore delle cose.
Il mondo è un insieme di pietre che si muovono nello spazio illimitato. Se si guarda a un macigno che si è staccato da una montagna, non si è presi da alcuna emozione. Quella stessa pietra può al massimo diventare oggetto di un pensiero o di una suggestione, se si scopre che proviene da un ghiacciaio millenario. Se, però, le si dà un prezzo, assume una dimensione del tutto particolare, viene avvolta di valore, non è più una pietra qualsiasi. È come se contenesse in sé la Pietà di Michelangelo.
Il prezzo, quando rappresenta una quantità di denaro, trasforma le cose e attribuisce loro un nuovo significato, una nuova vita. Si può affermare che il significato non è intrinseco alle cose, ma dipende da un’attribuzione che proviene dall’uomo: lo stesso masso che per noi è pregiato e bianchissimo, per un uccello non è diverso da una qualsiasi pietra scura; è l’uomo ad attribuire a quella pietra un’identità, di cui è privo qualsiasi altro masso.
Ciò che conta non è la bellezza, la forma, il colore, ma il corrispettivo economico: se io cedo quella pietra, ottengo in cambio la quantità di denaro che le è stata attribuita.
Attraverso il prezzo una cosa cambia persino di significato, come se fosse diventata un oggetto del tutto speciale.
Ha lo stesso effetto di una parola magica, capace di produrre una metamorfosi: suggerisce rispetto, non lascia più freddi come prima di quel battesimo.
Il denaro mi mette ansia, mi angustia, per gli usi impropri che se ne possono fare. Non rientra, poi, tra i miei interessi personali, o almeno non tra quelli professionali. Io sono uno psichiatra che si occupa di disturbi della mente, di uomini rotti, di sofferenza umana.
Nei trattati sul denaro non si parla di matti, che sono i personaggi della mia storia personale e della disciplina di cui faccio parte, la psichiatria.
Il denaro invece è un personaggio al centro di un campo specifico, l’economia, che è altro rispetto alla follia. Raccoglie e gestisce la ricchezza di individui e paesi. Una ricchezza esteriore ovviamente, perché il denaro serve per avere cose, per acquistarle. È un mezzo non un fine, verrebbe da dire, allo stesso modo di altri strumenti con cui si possono compiere tante operazioni.
Ha un potere d’acquisto con cui comprare ciò che non si possiede, sostituisce il baratto o altre forme di scambio, mezzi con cui per millenni si sono ottenuti gli stessi effetti. È uno strumento neutro con cui fare molte cose.
Come il fuoco, che serve a cuocere il cibo oppure a bruciare una capanna. O come un coltello, con cui si può tagliare della carne oppure sgozzare un vitello e persino un uomo.
Qualunque sia l’effetto, non si può attribuire alcuna responsabilità al mezzo usato. Questo vale anche per la bomba atomica lanciata nel 1945 su Hiroshima e Nagasaki: la colpa di quel disastro non è della bomba in sé, ma di quelli che l’hanno costruita e che l’hanno usata.

Mercati e banche

Il personaggio denaro ha avuto bisogno di un teatro particolare, creato apposta per lui: il mercato. Uno spazio su misura, come i teatri elisabettiani per le opere di Shakespeare o le scene giapponesi per il teatro Nō, con le sue maschere in apparenza immobili, ma capaci di raccontare tantissime storie, talvolta persino di far piangere.
Il mercato è il luogo in cui si commerciano i prodotti. Dove gli acquirenti e i venditori si incontrano grazie al denaro, mezzo per scambiare ogni mercanzia. Un tempo questo incontro avveniva in mercati collocati fisicamente nell’area di produzione delle merci: Samarcanda per i broccati e le sete; l’Italia per i prodotti alimentari, gli oli, il frumento; i paesi del Nord Europa per i legnami. Con il tempo, però, gli scambi si sono diffusi in spazi via via più ampi: il Mercato comune in Europa, o il Commonwealth per i commerci tra la Gran Bretagna e le ex colonie.
A ben guardare all’origine delle grandi esplorazioni, dal Quattrocento in poi, c’era il desiderio di scoprire luoghi in cui acquisire mercanzie pregiate da portare in Europa: così sono nate le vie della seta, del tabacco, del tè, ma anche dell’oppio.
Navigare era il modo migliore per raggiungere mercati nuovi e ottenere merci a prezzi favorevoli. Trasportare questi prodotti in Europa era di per sé un affare, data la differenza tra prezzo d’acquisto e di rivendita. Gli scambi internazionali sempre più intensi richiedevano, però, monete capaci di dare certezza del loro valore. Per questo era indispensabile che le monete fossero coniate da Stati potenti, che in qualche modo fungessero da garanti.
Parlando di queste dinamiche passate, ci si accorge di descrivere situazioni ancora attuali. È una dimostrazione di come la logica degli affari e dei commerci abbia avuto fin dall’origine un livello di sofisticazione che si è mantenuto nel tempo, con poche modifiche successive.
Se si confrontano nell’arco di due millenni lo sviluppo della scienza e quello del commercio, ci si rende conto che la scienza ha compiuto passi da gigante, sconvolgendo la storia dell’uomo, come nel campo delle malattie. Ciò non è accaduto per il denaro e i mercati.
Da secoli il mercato è il caposaldo del commercio, e il denaro è lo strumento che garantisce l’efficienza dei mercati, permettendo di concludere vendite e acquisti con grande velocità.
È ipotizzabile che in origine lo scambio si limitasse ai prodotti della terra, naturali si potrebbe dire. Poi si sono aggiunti i manufatti realizzati dagli artigiani, e più tardi dall’industria, sviluppo coerente di una produzione su larga scala. Un fenomeno storico che è facile immaginare perché lo si è potuto osservare più di recente in alcuni paesi in via di sviluppo.
L’Africa rappresenta un buon esempio. L’artigianato del legno e dei tessuti era nato grazie all’attività di singoli individui, particolarmente dotati, nei diversi villaggi. Ora attraverso una serie di iniziative di tipo imprenditoriale si è passati a una produzione che permette di realizzare più pezzi, ma di minore qualità, e a venderli a un prezzo più contenuto. Un processo che nello sviluppo economico ha portato alla differenza tra prodotti standard e prodotti griffati che, pur rispondendo alle stesse funzioni, sono fatti a mano con cura della forma, del dettaglio, e quindi in grado di rispondere anche alle esigenze di eleganza e di bellezza.
La produzione di qualità rientra nelle moderne logiche commerciali. Da una parte i mercati si sono ampliati e tendono a una dimensione globale, proponendo merci uguali per tutti. Dall’altra mantengono produzioni di nicchia, che proprio in virtù della loro qualità comportano prezzi elevati: beni di lusso, acquistabili solo da una fetta esclusiva e limitata di compratori.
Devo riconoscere che si tratta di logiche comprensibili anche per chi non fa né il venditore né il produttore. A dimostrare forse che condividiamo queste logiche perché siamo tutti consumatori. Con il denaro acquistiamo merci di diversa natura che rispondono alle nostre necessità, quelle che oggi chiamiamo bisogni. Da quelli primari, essenziali alla sopravvivenza (alimentazione, difesa e continuazione della specie), siamo giunti ai bisogni secondari: dalla sopravvivenza siamo passati alla qualità della vita; dalla salute al benessere. Sono nati persino i bisogni terziari, indotti e dunque superflui, ma simbolo di appartenenza sociale o in grado di soddisfare il gusto estetico.
Questo rapido excursus – ampliato nel primo testo in Appendice, «Il fascino della storia» – rimanda a una disciplina e a professioni che non sembrano avere a prima vista nulla a che fare con la dimensione di uno psichiatra, interessato alla salute della mente e dei comportamenti dell’uomo. A me pare tuttavia che comincino a emergere degli elementi capaci di spiegare questa mia fascinazione.
I bisogni condizionano i comportamenti: il possesso di un oggetto visto nella vetrina di una boutique dà soddisfazione, gratifica; al contrario, l’impossibilità di acquistare un bene genera frustrazione. Se la gratificazione è la sensazione di ben d’essere che si prova nel possedere un oggetto, la frustrazione suscita invece un senso di mal d’essere, di esclusione rispetto a chi ha acquistato e può consumare l’oggetto desiderato.
In una visione psicologica la gratificazione, di qualsiasi genere, equivale a piacere, mentre la frustrazione a dolore. In un caso si soddisfano i desideri e ci si sente protagonisti, nell’altro si avverte la mancanza di ciò che si vorrebbe e si prova dolore, non necessariamente fisico ma certamente esistenziale. Questa sofferenza non proviene da un organo o da una parte del corpo, ma si riferisce a una percezione dell’Io, della persona nella sua complessità, un mal di vivere, e non di un apparato anatomico, della testa o del ventre.
D’altra parte mi ha sorpreso scoprire che le banche sono nate all’interno dei templi antichi, come se conservassero qualcosa di sacro. Una declinazione che rimane nella definizione di cattedrali del tempo presente, come si sono chiamate almeno fino a qualche anno fa: un accostamento che mi sembrava dissacrante.
Fino al 2008, prima della recente crisi che le banche stesse hanno largamente contribuito a creare, erano percepite come i luoghi della nuova sacralità e si mostravano con la magnificenza tipica delle cattedrali, luoghi del Signore Iddio e non degli uomini. Si distinguevano anche dai palazzi più belli, simbolo di ricchezza e potenza soltanto terrena. Gli impiegati degli istituti di credito erano come sacerdoti e dovevano indossare la divisa sacra, giacca e cravatta. Godevano di una fama rassicurante e appartenevano a un’élite privilegiata.
Chiunque ne facesse parte era baciato dalla fortuna, da quel destino che ha il sapore della divinità.
Con l’economia sono sorte molte discipline, teoriche e operative, come la finanza e le scienze contabili. Si sono aggiunte figure professionali divenute ora popolari, di cui tutti hanno bisogno e a cui tutti ricorrono: il commercialista, il fiscalista, il consulente finanziario ed economico, l’avvocato specializzato in contratti nazionali o internazionali.
È nata anche una disciplina di straordinaria importanza, che si occupa dello spostamento delle merci in maniera rapida: la logistica. Ma poiché le merci si muovono in tutto il mondo, occorre usare l’inglese, la lingua dei mercati e dell’economia, e allora si parla di global logistics.
A proposito di banche sono nati anche luoghi paradisiaci, in cui è possibile depositare i propri denari in maniera più vantaggiosa, risparmiando in tasse sugli affari e sui redditi. Allora ecco la comparsa del fiscalista.
Insomma, tante professioni nuove legate all’economia. Ma in nessuna lista, per quanto lunga, si trova lo psichiatra. Per questo mi sento triste, perché ho la sensazione che il denaro giochi invece un ruolo importante nella mente dell’uomo, che sia penetrato nella psicologia e nelle caratteristiche della personalità umana, persino nell’inconscio.

La dimensione umana del denaro

Sia pure all’inizio del mio viaggio dentro il denaro, i mercati, le banche, ho la percezione di scoprire qualcosa di umano e non solo un coacervo di tecniche, metodi e operazioni strumentali che stanno fuori della mente e riguardano oggetti. E sento il bisogno, o la curiosità, di soffermarmi sulla finanza, giustificato dalla crisi recente, che proprio alla finanza sembra doversi attribuire.
Ho appreso che esistono un’economia reale e una di fantasia. La prima è quella delle imprese che operano su un ubi consistam chiaro, fatto di oggetti prodotti e venduti, seguendo procedure controllabili: richieste, commesse, programmi di produzione e di consegna. Tutto allo scopo di contenere i costi senza scadere nella qualità, così da favorire il successo del prodotto e garantire un utile all’azienda, dopo aver pagato gli oneri fiscali. Questa è l’economia reale.
Esiste poi un’economia «fittizia» che ricorda le case da gioco, i casinò per intenderci, come quelli di Las Vegas o, senza andare così lontano, di Montecarlo e di Venezia.
Le case da gioco dell’economia si chiamano Borse, con la B maiuscola. Ne esiste una principale in ogni Stato, o meglio in ogni area di grande mercato. A questa si affiancano sezioni minori, legate alle Camere di Commercio, per la compravendita di prodotti locali.
Principio fondante della Borsa è l’azione, termine usato perlopiù al plurale. Dunque le azioni: cartelle simili alle banconote, con una denominazione e un numero di serie, emesse sul mercato finanziario da società quotate.
La quotazione è il valore che il mercato borsistico attribuisce alle azioni ogni giorno, in realtà in ogni momento, esclusivamente in base ai flussi di vendita e di acquisto. Se tutti desiderano avere un’azione, questa aumenta di valore e quindi di prezzo. Se nessuno la vuole, e tutti iniziano a vendere, allora il valore e il prezzo calano.
In questo mercato, il valore non è legato al prodotto in sé o alle sue modalità di produzione. Dipende semplicemente dal gioco delle vendite e degli acquisti, che implicano un’enor-me quantità di elementi.
Per chi è interessato alle azioni della Fiat, sapere chel’azienda ha ottenuto una commessa dallo Stato per la fornitura di auto blu è una notizia rilevante. È un segnale di forza, che induce a comprare, a investire denaro. Poiché le azioni sono molto richieste, salgono di prezzo. Se la domanda di auto invece diminuisce, chi possiede le azioni preferirà venderle per indirizzarsi su altri investimenti.
Ciò che comprende anche uno sprovveduto come me è che il valore può cambiare da un momento all’altro, ma non per variazioni di tipo industriale. La differenza tra prima e dopo sta solo nell’acquisizione di una notizia. Negli esempi citati la notizia riguarda situazioni potenziali, che potrebbero persino essere inventate. Se il maggior azionista di una società sta male e si diffonde la notizia di un suo prossimo decesso, i titoli di quell’azienda possono crollare. Saranno gli stessi azionisti di minoranza a provocare il crollo: immaginando che senza l’azionista di maggioranza, che ha sempre dato una forte identità alle azioni, il valore di mercato cali, venderanno le proprie azioni. Al contrario, un titolo può acquistare valore se si diffonde la notizia di una joint venture con una società in espansione, come un tempo avveniva con il matrimonio tra l’azionista di maggioranza di una società e una donna dal patrimonio consistente.
Per fare crollare la Borsa, basta un forte contrasto insorto tra due nazioni. Gli investitori si immaginano ritorsioni, non la guerra forse, ma un’interruzione nelle forniture energetiche da cui dipende tutto il sistema industriale di un paese. Una simile prospettiva porta la Borsa al disastro, con perdite enormi: tutti vendono le loro azioni, titoli che soltanto il giorno prima avevano ottime quotazioni.
Come è chiaro da questi esempi, nell’altalena della Borsa entrano in gioco fattori che non han...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Il denaro in testa
  4. Appendice: le radici del presente
  5. Indice