I giorni di Antigone
eBook - ePub

I giorni di Antigone

Quaderno di cinque anni

  1. 203 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

I giorni di Antigone

Quaderno di cinque anni

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

È possibile dare alle parole la stessa forza di un gesto? Da questa sfida sono nati negli anni gli articoli di Dacia Maraini apparsi sul Corriere della Sera e sul Messaggero, qui raccolti in volume: osservare la realtà con coraggio, dissentendo quando è necessario e vivendo in modo empatico gli eventi vicini e lontani che toccano l'umanità. Lo stesso coraggio, la stessa empatia, la stessa civile pietà con cui Antigone, l'eroina tragica a cui l'autrice esplicitamente si richiama, ha sfidato la legge e il potere maschile per dare sepoltura al fratello. L'attualità degli ultimi anni riaffiora in questo libro, che raccoglie le riflessioni a caldo di una grande scrittrice su accadimenti politici, fatti di interesse nazionale e internazionale, piccole e grandi ingiustizie quotidiane, storie di donne, di soprusi, di discriminazione. Ma anche testimonianze del nostro Paese spaccato in due, che sembra rassegnarsi alla progressiva devastazione del suo patrimonio naturale e culturale. Un diario dei nostri giorni, che contro la tentazione del cinismo non si stanca di rilanciare il valore tutto femminile della partecipazione e la fiducia in un cambiamento possibile. Un libro che interroga il presente immaginando il futuro.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a I giorni di Antigone di Dacia Maraini in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a History e Italian History. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858601198
Argomento
History

I
Mondo, politica

Nucleare, la morte silenziosa

«Ci avevano detto che nei Paesi sviluppati le centrali nucleari erano sicure. Ci avevano detto che ormai i nuovi impianti sono a prova di guasto. Ha visto cosa è successo in Giappone? Va bene che siamo lontani ma i venti viaggiano, le maree viaggiano e ci vuole poco a inquinare anche zone lontane. Poveri giapponesi, che hanno avuto la bomba atomica e ora, in tempo di pace si trovano a combattere con altre bombe altrettanto pericolose e mortali. Come le chiameremo? bombe di pace anziché bombe di guerra? È questa la pace che ci propongono per il futuro? una pace fatta di morte silenziosa, lenta e mostruosa?» mi scrive Maria Cecchi da Arezzo.
Grazie per la bella lettera, cara Maria. Sono d’accordo con lei: siamo di fronte alle insidie di una guerra non dichiarata che però fa vittime come una guerra vera. E non parlo solo dei casi clamorosi come quello giapponese di questi giorni, ma di tutti i piccoli incidenti che accompagnano il trasporto del plutonio, che vengono regolarmente segnalati dagli ambientalisti nelle riviste specializzate e che pochi giornali nazionali e internazionali riportano. In più aggiungiamo la produzione quotidiana di tonnellate di materiale inquinato che viene chiuso dentro recipienti più o meno sicuri e sepolto in fondo al mare e nel ventre delle miniere. Sono mine pericolosissime che stiamo piazzando nel futuro dei nostri figli e nipoti. Questi recipienti si logoreranno, si spaccheranno e produrranno danni gravissimi per tutti. Sempre che qualche terremoto o maremoto non li faccia schiudere prima del tempo di logoramento naturale.
Questo i governanti dei Paesi più sviluppati lo sanno già. Tanto è vero che in tutto il mondo avanzato la costruzione delle centrali nucleari si è fermata. E si sta studiando come chiuderle senza creare eccessivi danni all’ambiente. Anche quando sono sicure le centrali producono tante di quelle scorie atomiche da distruggere il mondo intero. Sono bombe ad orologeria che stiamo innescando nel futuro dell’umanità e mi chiedo se questo sia saggio o anche solo prudente.
(da “Il Messaggero”, 4 ottobre 1999)

Dalla parte dei bambini nell’inferno di Manila

In un filmato l’orrore dell’infanzia violata e i miracoli dei Medici senza frontiere. Bambini sfruttati, bambini picchiati, bambini stuprati, bambini seviziati, è una litania di storie che ci lasciano senza fiato. È vero che qualche volta questi stessi bambini si trasformano in mostri dal coltello feroce, ma certamente le responsabilità prime toccano agli adulti, a chi non ha saputo educare e infondere sentimenti di rispetto e di tenerezza verso l’altro. C’è qualcosa di mostruoso in una società che non sa più comunicare la gioia di vivere ai suoi figli, che trasforma ogni rapporto umano in mercato dei corpi, che spinge a un erotismo di consumo, senza regole e riguardi per la persona umana.
Ma come mai, in tempi di telematica e di psicoanalisi, riusciamo a esprimere tanta brutalità contro i bambini? Nei Paesi poveri li sfruttano, li vendono, li abbandonano. Nei Paesi ricchi li comprano, li seviziano, li stuprano. E sono bravi padri di famiglia che acquistano e abusano, sono brave madri che fingono di non sapere e non conoscere.
Ho visto in anteprima un documentario girato per RaiTre da Luca Cambi e Francesco Patierno sui Medici senza frontiere e il lavoro che stanno facendo, davvero straordinario, a Manila. La macchina da presa si intrufola con coraggio dentro le case, si mette all’inseguimento dei clienti per le strade, si addentra nelle celle delle carceri minorili, senza mai cedere al sensazionalismo, con sguardo doloroso e partecipe.
Si tratta di un documento terribile che ci mostra come tanti bambini, cresciuti in famiglie disastrate, finiscano per scappare di casa. Un padre dalla faccia giovane e gentile dice: «Mia figlia (2 anni) si era messa in bocca qualcosa che non doveva. Ho preso della benzina, l’ho cosparsa e le ho dato fuoco, è così che io educo i miei figli e nessuno può interferire». Tutto questo mentre si vedono le mani delicate di una dottoressa che pulisce le ferite della bambina salvata per caso da una morte atroce. Gli occhi della piccina sono spalancati e atoni, non esprimono né dolore né paura, solo una immota apatia.
I bambini che girano per strada dopo le 22,30 a Manila vengono per legge arrestati e portati in carcere. Ma cos’è questo carcere? Ce lo mostrano i due autori del filmato: celle fatiscenti senza servizi dove il bambino è costretto a stare in piedi in mezzo ai suoi bisogni.
Alle proteste dei Msf il governo di Manila risponde che non ha soldi per curare e dare ospitalità ai bambini di strada. La somma decisa per i servizi sociali però va diminuendo di anno in anno. Erano 40 milioni di dollari fino a due anni fa, nel 2000 è stata quasi dimezzata (25 milioni di dollari l’anno).
«A Manila ci sono duecentomila bambini di strada a rischio continuo di abusi e malattie» spiegano i giovani Medici senza frontiere. Cosa si può fare per loro? In Brasile risolvono il problema sparando. Quando un bambino diventa troppo ingombrante e fastidioso prendono la mira e fanno fuoco. Una grana in meno. A Manila li chiudono dentro una prigione fatiscente e li lasciano marcire finché, diventati più grandi, non tornano sulla strada, ormai perfettamente inseriti nella delinquenza organizzata. «Il 60 per cento dei minori» dicono i medici «racconta di avere subìto torture e violenze durante gli interrogatori e la detenzione.»
Un prete, Shay Culler, che sistematicamente denuncia i casi di sevizie e di pedofilia, è costretto a vivere nascosto. Nel film lo sentiamo parlare dei bambini che ha salvato dai turisti voraci e dalla «colla», la droga dei poveri che pericolosamente sostituisce stupefacenti più sofisticati e cari come l’eroina e l’oppio. Si tratta di un solvente per scarpe che inspirato «permette di sopportare fame, sete e paura causando però danni neurologici gravi. I bambini la comprano con pochi spiccioli, meno di quanti ne occorrano per una ciotola di riso, e risolvono così le loro giornate».
Una cosa bella che sono riusciti a fare i Medici senza frontiere è stato di trasformare alcuni di questi ragazzi di strada in educatori. Giovani filippini che hanno percorso tutta la via crucis del terrore: violenze in famiglia, abbandono, fuga, solitudine, delinquenza cittadina, droga. Quando sono fortunati, l’incontro con l’organizzazione dei Medici senza frontiere riesce a trasformarli in persone equilibrate e desiderose di aiutare chi sta male. Altri, più sfortunati, sono destinati a rimanere in quelle celle aspettando un fantomatico processo che non arriva mai.
«Quando piove, in una sola ora l’acqua sale di cinquanta centimetri allagando le celle-pollaio che diventano invivibili. I ragazzi camminano in mezzo ai loro rifiuti.» Solo di recente i Msf hanno avuto il permesso di costruire per loro una grande palafitta di legno e paglia che li ripara dall’acqua.
«Le Filippine hanno firmato e ratificato nel 1990 la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia che prevede un sistema giudiziario minorile separato con le dovute garanzie durante i procedimenti e nel trattamento dei “piccoli criminali”» dicono gli autori del documentario «ma ancora oggi la legge che vige in quel Paese giudica allo stesso modo adulti e minori.»
Vorremmo vedere più filmati di questo genere. La televisione dovrebbe servire a fare conoscere, fare sapere, per cercare rimedi anche internazionali ai mali del mondo. Mentre veniamo sempre più assaliti da uno schermo aggressivo, vociante e frivolo che ci inonda di immagini ammiccanti e convenzionalmente «seduttive», le quali non riescono nemmeno più a divertire, ma sono solo desolanti e prevedibili fino alla nausea.
(da “Corriere della Sera”, 28 febbraio 2001)

La protesta senza odio
delle “Donne per la Pace”

L’elezione di Sharon sta dando i suoi frutti. Dai luoghi delle contese arrivano notizie inquietanti: «ventidue famiglie palestinesi che vivono a Mawasi, distretto di Gaza, hanno avuto l’ordine di evacuare le loro case per ragioni di sicurezza». Gli abitanti stanno facendo resistenza, dice una lettera di Gush Shalom del gruppo Israeli Peace Block che chiede disperatamente aiuto. Mawasi «è una enclave palestinese fatta di case e fattorie, completamente circondata da insediamenti israeliani del Katf block» spiega Shalom. «Questi coloni stanno cercando da anni di “liberarsi” della presenza dei palestinesi con tutti i sistemi possibili. Quasi un mese fa sono stati visti sulle televisioni israeliane e internazionali dare fuoco ai campi e alle case degli abitanti di Mawasi. Due coloni sono stati arrestati in quell’occasione e rilasciati dietro cauzione.»
Mi sembra importante che una voce simile provenga da parte israeliana. Ma quella di Gush Shalom non è sola. Esiste ed è molto attiva a Tel Aviv una “Coalizione di Donne per la Pace” di cui fanno parte più di cinquecento giovani e anziane che vivono in varie zone di Israele. Sono donne arabe ed ebree che portano avanti un progetto ambizioso e intelligente: inventare una cultura della pace che non venga dai politici ma dalle famiglie, e siano le donne a proporla partendo dal loro corpo. Un corpo che per l’occasione perde la sua visibilità sessuata, così comune e necessaria al mercato, per diventare pura indicazione di nutrimento e affettività.
Ecco come Gila Svirsky descrive una giornata passata per strada a protestare contro il blocco delle zone occupate: «Ci siamo ammassate fuori dal cancello di entrata del Pentagono israeliano, davanti al ministero della Difesa di Tel Aviv. Eravamo diverse centinaia di donne, vestite di nero, e portavamo sul petto un cartello con su scritto “Closure” (blocco) in ebraico, arabo e inglese. Al segnale, un gruppo ha cominciato ad attraversare la strada, molto lentamente, nell’intento di rallentare il traffico. Alcune donne poi si sono sedute in mezzo alla strada e sono rimaste lì con i cartelli tesi in faccia alle auto: un modo per fare capire ai passanti cosa vuol dire rimanere bloccati, nell’impossibilità di raggiungere le proprie città e i propri villaggi.
«A questo punto è arrivata la polizia con le sirene spiegate. Non hanno perso tempo a chiedere chi eravamo e cosa facevamo. Hanno solo arato il terreno e gettato le donne da una parte, come fossero sacchi, cercando di acchiapparne il più possibile. Ma appena i poliziotti le lasciavano libere, le donne tornavano in mezzo alla strada. Io sono rimasta ritta davanti ad una macchina con il mio cartello ben visibile sul petto. Un automobilista mi ha colpita (gentilmente) e ha cercato di spingermi da parte col muso dell’auto. Io non stavo facendo niente di violento ma mi rifiutavo di spostarmi dalla strada. La polizia continuava a tirarci via, ma appena lasciate, le donne tornavano a sedersi per terra. Finché hanno capito che non c’era niente da fare e hanno cominciato a spingerci con movimenti rapidi e brutali, dentro i loro vagoni blindati. Alla stazione di polizia ci hanno interrogate con civiltà, devo ammetterlo, per quanto ci abbiano accusate di tutto ciò di cui potevano accusarci: dimostrazioni illegali, blocco del traffico, resistenza a pubblico ufficiale, attacco ai camion della polizia, e nel mio caso attacco a una macchina civile (povera macchina!). Gradualmente ci hanno rilasciate tutte dietro pagamento di una cauzione. Devo ringraziare le tante donne ebree e musulmane che ci hanno aspettate fuori dal posto di polizia fino quasi alle due di notte, ci hanno accompagnato a pagare le cauzioni e ci hanno confortato con cibo e bevande calde. I giornali di Israele hanno appena accennato all’avvenimento. Ma hanno dovuto ammettere che si tratta di un fatto nuovo: solo donne e senza armi, senza pietre, con cartelli che non avevano parole di odio».
Queste sono le notizie non ufficiali che arrivano da Israele e mi pare importante metterle in rilievo. Perché la pace non si costruisce solo dall’alto attraverso trattati e accordi politici ma anche con la partecipazione della gente comune che contribuisce alla formazione di una coscienza collettiva nuova e responsabile. Certamente il primo passo è un accordo fra popolazioni di diversa religione nel rispetto dell’identità e della storia dell’altro.
Qualcuno dirà che è tutto molto più complicato e difficile. Certamente è vero, ma una soluzione va trovata e non può che arrivare da esperimenti simili a questi. Come dimostrano i continui scambi e le richieste di informazione via Internet, le rivendicazioni di pace ci sono e da tutte e due le parti. Molti, fra musulmani e cristiani pensano che l’accordo anche fra religioni diverse, fra culture diverse, sia possibile e vada coltivato con pazienza. Aggiungo che esiste anche in Italia un gruppo per una intesa pacifica fra Israele e Palestina che fa capo alla parlamentare europea Luisa Morgantini; si chiama “Donne in nero Italy”, e organizza settimanalmente viaggi in Palestina per solidarizzare con le donne della “Coalizione per la Pace”.
(da “Corriere della Sera”, 17 aprile 2001)

La crociata americana per i diritti del feto

San Francisco, aprile 2001. «Siamo appena entrati nell’èra Bush e già il linguaggio sta cambiando» mi fa notare un amico americano. «In che senso?» «Tornano in auge parole che erano sparite dal gergo politico, tipo Patria, Vita, Bandiera, Eroismo, Uomo Superiore, Razza ecc. Prova ad ascoltare i discorsi al Parlamento che trasmettono la mattina sul canale 24. È istruttivo.»
La mattina dopo in albergo mi sintonizzo sul canale 24, e mi trovo subito dentro una discussione parlamentare del tutto inaspettata sulla difesa del feto. Un folto numero di deputati sta facendo le dichiarazioni di voto in favore o contro la nuova proposta di legge numero 503.
«Ogni Vita nuova deve essere protetta dalla criminalità che la vuole vittima prima ancora di nascere» dichiara con energia il repubblicano Jerrold Nadler. «Il bambino non ancora nato spesso diventa preda di un criminale assassinio. Muore ed è come se non fosse mai morto. Il responsabile della sua soppressione non sarà mai punito.»
Viene mostrata la foto patetica di una donna giovane dall’aria affranta che tiene in braccio un neonato morto. Lo speaker spiega che la madre è stata presa a calci dal marito negli ultimi giorni di gravidanza e di conseguenza il figlio è venuto al mondo cadavere. «Il piccolo Zacaria è morto nel ventre di sua madre e il padre che l’ha massacrato si trova oggi libero. L’uomo ha dovuto solo pagare una ammenda per le violenze contro la moglie. Ma ha soppresso un bambino e nessuno può accusarlo di questo perché il feto non è ancora un individuo.»
La discussione, che si indovina tesissima, si mantiene però dentro le regole di una formale cortesia. Nessuno interrompe mai l’altro che parla. Nessuno va oltre i tre minuti concessi dal presidente. Ogni relatore viene introdotto con la frase antiquata e cerimoniosa: «Now we will listen to the gentleman from Pennsylvania», «Now the gentleman from Ohio», ovvero «Adesso ascolteremo il gentiluomo della Pennsylvania, il gentiluomo dell’Ohio» ecc.
Non si parla mai direttamente di aborto ma è chiaro che l’argomento di fondo è proprio quello. Anche se la questione è stata aggirata in un modo subdolo e astutissimo. Qualcuno infatti ha scoperto, frugando fra le statistiche, che la quinta causa di morte fra le donne gravide sta nelle violenze che subiscono dal marito o dal compagno di vita. Prese a pugni, a calci, a sediate, sbattute contro i muri, buttate giù dalle scale, molte donne gravide finiscono per perdere il figlio, quando non ci rimettono la loro stessa vita.
Da qui una facile crociata per la difesa del bambino non ancora nato. Ovvero contro l’omicidio del figlio tramite il corpo della madre. E chi potrebbe trovare da ridire contro una simile denuncia? La fotografia del piccolo Zacaria sta lì a testimoniare una violenza di cui le donne sembrano essere vittime come i figli.
«Se è vero che tante donne muoiono, rimangono deturpate o perdono i figli per violenze famigliari, inaspriamo le leggi contro i picchiatori» dice con ragionevolezza il democratico Jeremy Baldwin. «Voi commuovete il pubblico con la storia del piccolo Zacaria ucciso dal padre e proponete una legge generica che colpirebbe prima di tutto le donne. Se volete davvero proteggere il feto colpite quell’uomo che aggredisce sua moglie, punitelo, mandatelo in prigione, ma che c’entrano tutti gli altri feti?» E aggiunge con buonsenso: «Se ci fossero delle buone leggi contro i maltrattamenti in famiglia, contro le crudeltà sulle donne, se si aiutassero i centri di assistenza alle madri brutalizzate che già esistono e spesso sono costretti a chiudere per mancanza di mezzi, gli aborti scomparirebbero».
Ma i repubblicani propongono la 503 come una novità assoluta: una legge che non colpisce le donne ma solo coloro che incrudelendo contro le donne gravide, causano la morte del nascituro. E bisogna dire che ad ascoltare superficialmente i loro discorsi sembra davvero che vogliano colpire i padri picchiatori.
«Io parlo per coloro che non possono parlare» dichiara drammaticamente il repubblicano Jim Ryun del Kansas. «Nel caso di Zacaria abbiamo due vittime, la madre e il bambino non nato. Solo che lei può accusare il suo aggressore, signori, mentre il piccolo non può farlo, questo si chiama ingiustizia.»
E il repubblicano Spencer Bacchus dell’Alabama incalza rabbioso: «Quando il feto è minacciato noi dobbiamo intervenire. È nostro preciso dovere di cittadini punire quegli uomini che attraverso le madri recano danno ai figli».
La deputata Jay Inslee di Washington accusa apertamente i repubblicani: «In questo modo voi state tentando di togliere alle donne il diritto di decidere! È una manovra calcolata, è un inganno che fate ai vostro pubblico».
Ma un’altra donna, la repubblicana Jo Ann Davis della Virginia ribatte serafica: «Difendendo il bambino nel grembo di sua madre, noi non impediamo alle donne di prendere le loro decisioni. È una azione in positivo la nostra, non in negativo».
Il gentleman Ed Bryant del Tennesee insiste: «Il bambino non nato deve essere riconosciuto come essere umano bisognoso di protezione in caso di aggressione contro il corpo che lo contiene, che l’aggressore sia il padre, o un nemico in...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. La Scala
  3. Frontespizio
  4. Introduzione
  5. I Mondo, politica
  6. II Animali: nostri simili?
  7. III Violenza contro le donne
  8. IV Dialogo con i lettori
  9. Indice