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A UN MINUTO DALLA FINE (DI QUESTO LIBRO)
Il celeste non è uniforme.
Non è neanche esattamente celeste, a dirla tutta. È più che altro un mix di colori, come la tavolozza di un pittore che sta sperimentando nuove varianti, nel vano tentativo di trovare una sfumatura precisa del cielo in certe sere di fine estate. Qualcosa a metà strada tra il celeste e il grigio, qualcosa che non ha un nome preciso. Ma che sta lì, gigantesco.
In mezzo ci sono come delle pagliuzze di verde, quasi impercettibili, tanto che non si riesce bene a capire se siano reali o semplicemente un difetto del megaschermo, pixel impazziti tra milioni di pixel sani.
Non si riesce a capire… In ogni caso, dubito che in questo preciso momento qualcun altro si stia ponendo il mio stesso dubbio sul reale colore degli occhi di Vasco Rossi e sull’efficienza del sistema di maxischermi che stanno supportando l’ultima data del suo live 2007, qui allo Stadio del Conero di Ancona.
Gli altri oltre quarantamila presenti, immagino, saranno più presi dal concerto in sé, dalla «Santa Messa del Rock» che Vasco sta celebrando per i suoi fedeli, accorsi in massa, come a un’udienza del mercoledì.
Lui, unico capace, insieme al Santo Padre, di radunare folle sterminate: il popolo del Blasco, nel suo caso, i Papaboys, nell’altro.
Ma se io mi perdo dietro congetture del genere la causa non è da imputare a Vasco, né al fatto che questo è ormai l’ennesimo suo concerto a cui assisto. La routine è un concetto che non esiste quando si tratta di rock’n’roll, tanto più se il rocker in questione è il signor Vasco Rossi da Zocca, l’unica vera rockstar nata e cresciuta sul suolo italiano.
No, il concerto è di quelli che non ti scordi, in cui sudi, ti dibatti seguendo il ritmo e canti in coro. Se sono distratto dal colore degli occhi di Vasco è per motivi diversi, tutti validi.
Primo, i maxischermi sono in effetti giganteschi e, credo, sono stati messi lì, ai lati, apposta per essere guardati dal pubblico, specie da quello che, come me, non è esattamente sotto il palco (l’età si fa sentire, ahimè, e non sono più fatto per conquistarmi a suon di spintoni le prime file…). Oggi ce ne sono addirittura dieci, sparsi per tutto il palco in metallo scuro, intricato come una foresta metropolitana. Quindi li guardo, e se un cameraman decide di fare una zoomata su uno degli occhi celesti di Vasco è normale, almeno credo, che io ci faccia caso, tanto per non rendere vano il suo lavoro.
Secondo, nonostante il rock sia il rock, una forma di comunicazione tra le più immediate esistenti in natura, inferiore forse solo al sesso, io sono qui per lavoro, e non voglio farmi distrarre da particolari insignificanti come la musica (si fa per dire). Voglio, ancora una volta, lasciarmi andare alla scaletta e ai suoni che la band riesce come poche altre a cavare fuori dagli strumenti, è ovvio, ma al tempo stesso voglio avere sempre costantemente sotto gli occhi quello che accade altrove, tra la gente che assiste al concerto. Un po’ come l’atteggiamento di chi, nel fare sesso, vuole lasciarsi andare alla passione, ma al tempo stesso concentrarsi sui singoli istanti, notando i particolari, voyeur di se stesso.
Terzo, ho letto poche settimane prima di venire qui ad Ancona che Vasco, dovendosi identificare in un fumetto, lo farebbe con Bob Rock, della premiata ditta Il Gruppo TNT di Alan Ford, creature mitiche di Max Bunker e Magnus, creature mitiche a loro volta.
Non so se avete presente: il tipo piccoletto e col nasone ingombrante, perennemente vestito con mantella impermeabile in tartan a cappello abbinato, come un novello Sherlock Holmes, al fianco di Alan Ford, e sempre incazzato come una bestia per il suo aspetto non proprio da Adone (sorte toccata, appunto, al bell’Alan).
Bene, a vederlo lì, sul megapalco (nel caso di questi raduni rock tutto diventa mega o maxi, provare per credere…), Vasco tutto sembra fuorché Bob Rock. Sì, il personaggio della premiata ditta Bunker-Magnus è fumantino e viscerale, e Vasco ha il suo bel carattere, però Bob Rock è prevalentemente uno «sfigato», non gliene va mai bene una, sta sempre lì a calpestare il suo cappello per la rabbia, con i disegnini delle imprecazioni a stazionare fisse dentro i suoi balloon. Vasco, invece, in questo preciso momento è un vero leader, un vincente a capo di una «generazione di perdenti senza più né santi né eroi» (lui Vasco è sicuramente cambiato, e lo vedremo nel corso del libro, ma il suo popolo, generazione dopo generazione, rimane sempre quello). Tutte le persone presenti pendono dalle sue labbra. Sono davvero un esercito pronto a seguirlo anche in capo al mondo, al limite anche a gettarsi da una scogliera, come una valanga impazzita di lemming. A vedere quei giganteschi occhi celesti (quel colore là, insomma…), correre da una parte all’altra del maxischermo, come alla ricerca di un’improbabile via di fuga, quasi sempre in basso a sinistra, fa venire in mente un altro personaggio dei fumetti, Wolverine.
Ecco, Vasco in questo preciso momento, mentre Maurizio Solieri e Stef Burns cominciano il familiare giro di chitarra di Vita spericolata, tutto chorus e delay, sembra il mutante Logan, meglio noto come Wolverine. E lo sembra nonostante le evidenti differenze fisiche tra il rocker di Zocca e l’attore
Hugh Jackman, colui che ha dato corpo al Wolverine hollywoodiano. Lo sembra nonostante la statura non esattamente da supereroe, la pancetta che si nota sotto la maglietta nera e il giubbotto di pelle rosso, contrapposti agli addominali da tartaruga e alle braccia da Pastamatic del supereroe canadese. Lo sembra nonostante i capelli ormai radi perennemente coperti dall’inseparabile cappello verde di Vasco contrapposti all’ispida chioma, corredata da basettone, di Wolverine. Lo sembra perché anche Vasco, come l’X-Man per antonomasia, è una vera forza della natura. Di più, è una forza sovrannaturale, da fumetto Marvel. E al tempo stesso è anche un mutante, un essere umano fuori dagli schemi: uno non proprio normale, direbbero gli altri. Uno che fa paura, l’ha sempre fatta. Un mutante dal cuore umano, pronto a dare tutto se stesso per i suoi simili, incompresi e spesso tenuti a bordo campo dal resto del mondo.
Vasco in questo momento non è solo Wolverine, ma anche uno strano mix tra il professor Xavier, incarnazione del Bene, e di Magneto, il suo antagonista, il mutato intenzionato a dar guerra agli umani pur di salvare la sua gente contro la cura che potrebbe ricondurli tutti alla normalità.
Vasco: un’intera enciclopedia dei personaggi a fumetti, insomma.
E di fronte a lui oltre quarantamila persone – ultime di circa seicentocinquantamila accorse durante tutte le tappe del tour – che si muovono come un solo corpo e cantano all’unisono ogni sua canzone.
Alle loro spalle, immobile, il monte Conero, splendida cornice per archiviare, almeno per ora, una tournée fortunatissima, anche se partita non proprio nel migliore dei modi. Ricorderete, infatti, che la prima tappa del tour, se si esclude la data zero di Latina, doveva essere la serata conclusiva della decima edizione dell’Heineken Jammin’ Festival, per la prima volta di scena presso il Parco San Giuliano di Mestre, invece che a Imola, all’Autodromo Enzo e Dino Ferrari. Poi, nel pomeriggio di venerdì 15 giugno, quando stavano per salire sul palco i Pearl Jam, una violenta tromba d’aria si è abbattuta sulla zona, facendo crollare rovinosamente le torri delle luci. Fortuna che tutto si è risolto con una trentina di feriti, senza vittime: perché in questi casi, la storia del rock lo insegna, eventi del genere possono trasformarsi in vere e proprie catastrofi.
Ovviamente il Festival è stato interrotto, per l’impossibilità della Milano Concerti, organizzatrice dell’evento, di garantire le norme di sicurezza. E quindi la quarta partecipazione di Vasco Rossi al Festival rock italiano per antonomasia è saltata, costringendo decine e decine di migliaia di spettatori già col biglietto in tasca a pazientare, in attesa di una delle date del tour, oppure a rinunciare del tutto.
Per il resto, la tournée è stata quello che tutti si aspettano da Vasco: un continuo bagno di folla, con il «tutto esaurito» praticamente ovunque.
Perché ormai viene dato come una cosa scontata, ma l’idea che un artista itali...