Indice
Premessa - La difficile riscoperta del pluralismo
1. I laici, affannati guerrieri
2. Quando si mettono in caricatura da sé
3. Sulla barricate per Eluana e Terri
4. Diluvio del sacro e crisi di nervi dell’antireligioso
5. God is back, nella società post-secolare
6. Laici sul lettino dell’analista
7. Definizioni. Chi sono i laici? E i laicisti?
8. Il liberalismo etnico di Pera e Ferrara
9. Laici muscolari e laici dell’anno
10. L’offerta sociale della fede
e il «dilemma di Böckenförde»
11. Quale liberalismo per l’età post-secolare
12. L’esempio americano, Obama e i «grandi risvegli»
13. Democrazia-religione, una grande scommessa romana
14. Un’agenda da rifare tra laici e fede
Note
Premessa
La difficile riscoperta
del pluralismo
Di più: le religioni sono diventate un test infallibile di pluralismo, sono spesso il vistoso abbigliamento di culture, etnie, storie umane diverse: dimmi come tratti la fede, il culto, i riti degli altri e ti dirò quanto, e se, sei liberale. Il che porta in prima evidenza qualcosa di prezioso, nella religione, anche per i non credenti e gli atei militanti.
Queste pagine sfidano le opinioni standard dell’anticlericalismo. L’antireligioso, più spesso di sinistra che di destra, riesce a essere un problema non meno dell’integralista della fede maggioritaria intrecciata con il potere, più spesso di destra che di sinistra. Lo dice qui un laico che vede intorno a sé, sui media, in parlamento, nelle conversazioni a tavola, sui blog, tanti laici affannati e sconcertati da una guerra interminabile spesso necessaria, ma qualche volta immaginaria: intellettuali apparentemente pensosi che, impegnati in questo duello esclusivo, hanno perso il senso del tempo in cui vivono, dei suoi conflitti e dei suoi drammi.
Temprati e specializzati nella lotta full time contro l’arroganza clericale della Chiesa di Roma, hanno imboccato questo binario come un percorso obbligato, smarrendo il senso di quel che la religione è, di come la sua funzione stia cambiando. Non hanno e non promuovono una cultura dell’accoglienza dei credenti sulla scena pubblica e nella vita politica perché non pensano che questo sia un problema importante. Se lo facessero vincerebbero più battaglie di quante ne abbiano perse ultimamente con i loro avversari clericali, contro i loro dogmi «non negoziabili» e la loro prepotenza curiale. Sembra sia molto ardua per tutti la via che porta a scoprire, o riscoprire, il pluralismo, parola vecchia per una cosa, a quanto pare, sorprendentemente nuova.
I laici hanno fallito perché tendono a pensare – anche se molti di loro non osano ammetterlo – che un mondo senza religione e senza credenti sia migliore. Pochi di loro, i più irriducibili, si faranno sorprendere ad auspicare che la fede scompaia non solo dalla scena pubblica ma anche dalle intime convinzioni di ciascuno. In verità, sempre più spesso mi capita di sospettare che un mondo interamente privato di fede non sarebbe per niente migliore di quello attuale. E il sospetto cresce mentre altre risorse ideologiche e morali svaniscono rendendo più visibile e influente ovunque l’offerta delle confessioni religiose, nella loro pluralità.
L’ingombrante duello italiano tra i laici e la Chiesa romana non deve trarre in inganno, come accade, e non deve impedirci di vedere che ciò di cui stiamo parlando riguarda il mondo intero, da Washington a Giacarta. Possiamo definire in vari modi il carattere dell’epoca in cui siamo entrati: ritorno della religione, rinascita del sacro, de-privatizzazione della fede, età post-secolare. Quale che sia la formula che si preferisce, si tratta di accettare l’idea che le società democratiche e libere accolgano la religione come una sfida positiva alla politica, come una sua integrazione, e forse – qualche volta – anche un corredo morale della cultura di chi governa, capace di moderare, faute de mieux, eccessi, esclusivismi, abuso di privilegi. E non si obietti che le teocrazie sono orrendi regimi o che i peggiori criminali al potere si sono inchinati davanti agli altari, perché qui stiamo parlando di democrazie e regimi di libertà, di leader democratici e di stati laici e liberali. Cose cui nessuna prospettiva, di ordine secolare o post-secolare, potrebbe farci rinunciare.
Se i laici hanno fallito ciò non vuol dire che, sull’altro versante, questi siano giorni trionfali per papa Ratzinger. Per niente. Il nuovo mette in affanno anche lui, come ben si vede dalla sua insoddisfazione aperta e dichiarata sullo stato delle cose anche dentro la Chiesa, nonché dalle critiche che riceve. Il duello delle estreme, laicisti contro integralisti, ha immiserito l’orizzonte anche ai vertici del mondo cattolico. Una gerarchia vaticana ripiegata nella mentalità da minoranza assediata sta perdendo, anche lei, una grande occasione: la società post-secolare è potenzialmente molto ospitale per le religioni, ma, se il pontificato non cambia direzione riaprendo l’agenda del Concilio Vaticano II, il mondo cercherà altre vie, altre figure spirituali, dentro o fuori il cattolicesimo, per soddisfare le sue domande. La «rivincita di Dio» prenderà altre strade, forse, ma non necessariamente, migliori.
È una fase tempestosa che può temprare una nuova cultura liberale, capace di non ripetere soltanto la vecchia lezione, necessaria, della neutralità dello Stato, ma di diventare più sapiente, più accogliente della varietà degli esseri umani, più capace di coniugare i propri principi con le loro differenze. Il disegno di questa nuova cultura pluralista non ha ancora la evidenza innegabile e forte del deficit della vecchia, ma sta emergendo dai fatti: il crogiuolo globale delle differenze culturali, l’inasprirsi delle identità che reagiscono prendendo una forma nuova, le voci più acute dei religiosi da Roma a Delhi, dagli evangelici americani ai monaci buddisti del Myanmar. E sta emergendo dalle idee: gli studi politici più aggiornati stanno dando forma a un pensiero democratico più capace di coniugarsi con le differenze culturali e religiose; alcuni leader politici occidentali (ma certamente non in Italia) mostrano di condividere questa intuizione con maggiore o minore successo, credibilità e coerenza, da Obama a Sarkozy e a Blair. E tutto questo in contrasto con una fase conflittuale e cruenta in cui l’Occidente ha mostrato, con Bush, un volto particolarmente privo di questa sensibilità nei confronti del mondo islamico.
Gli affannati guerrieri laici rivolgono ai credenti tutti i giorni un unico messaggio: vade retro! È giunto il momento di affermare, al contrario, un convinto: vieni avanti. Incoraggiamo le religioni a venire avanti. Perché lo Stato liberale non può vivere della sola, indispensabile, però vuota, equidistanza; non è un punto d’intersezione geometrica, e ha bisogno di essere alimentato da una società civile ricca di risorse culturali, ideali e politiche, di competenze e di convinzioni, forte di un pluralismo sia spontaneo sia bene organizzato.
E ha bisogno di fedi e di fedeli, delle più diverse confessioni, compresa naturalmente quella dei non credenti, che in una società aperta è la benvenuta, tra le altre.
1
I laici, affannati guerrieri
La Chiesa di Ratzinger è stata accusata di avere consumato parte del patrimonio carismatico del suo predecessore. Il tempo dirà. Certo i suoi critici hanno potuto compilare una lista di «incidenti». Ha gestito scomuniche e revoche con criteri autolesionistici: ha cacciato dalla Chiesa i medici che assistettero nell’aborto una bambina di nove anni violentata dal patrigno in Brasile, ma vi ha riammesso il negazionista lefebvriano Williamson. E ha sfidato varie volte la popolarità: ha esasperato il mondo musulmano, già sotto tensione verso l’Occidente per le guerre in corso, con una citazione contro l’Islam («cattivo e disumano») di un imperatore bizantino, compromettendo un dialogo che dichiarava di volere e che poi ha cercato di recuperare.
Ha preso di mira il relativismo e il postmodernismo, come se fosse un professore di filosofia politica della Sapienza o di Tubinga, non il capo spirituale di una comunità vastissima e globale. Poteva invece raccogliere le aperture religiose del postmodernismo, quando presenti, anziché sottilizzare professoralmente per escluderle. Wojtyla apriva i suoi seminari di Castelgandolfo all’ermeneutica di Gadamer e persino agli atei, il che non gli impediva di promulgare una Fides et ratio neotomista, con la collaborazione dello stesso Raztinger. Questo pontefice ha organizzato un viaggio in Africa di cui resterà traccia solo per la improvvida predica sulla inutilità dei preservativi nella lotta contro l’Aids. Una posizione crudele, perché chiede di pagare un tributo di morte e di infelicità a una dottrina, come facevano le ideologie del ventesimo secolo. È improbabile, si capisce, una svolta improvvisa della Chiesa sulla contraccezione, ma sono ben possibili accenti diversi. E silenzi.
Ancora, nella lista dei danni, dettagli italiani: ha gratificato della sua fiducia la discutibile compagnia degli atei devoti, guidati da Marcello Pera, una compagnia che fa della religione e del passepartout antirelativista, un congegno del cabotaggio politico di parte, nelle discussioni sul testamento biologico o nei comizi contro gli immigrati e contro il «meticciato»; ha negato (attraverso il vicario di Roma, Ruini) a Piergiorgio Welby, uomo simbolo del rifiuto dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia, non la approvazione (che nessuno chiedeva), ma l’atto di pietà di aprire le porte di una parrocchia al funerale (chiesto dalla famiglia); ha aperto invece un fronte politico, come se fosse un gruppo parlamentare, sul caso di Eluana Englaro esprimendo il desiderio e poi l’apprezzamento per un decreto del governo respinto dal presidente della Repubblica e ritirato poi dallo stesso governo.
Nell’insieme, salvo correzioni di rotta, auspicabili, la Chiesa di Ratzinger sta perdendo, come vedremo, un’occasione importante, quella di collocarsi positivamente in una stagione che è caratterizzata, in tanti modi, dal ritorno della religione e del sacro nella società contemporanea. La pubblicazione dell’enciclica sociale Caritas in veritate avrebbe avuto un impatto molto più favorevole se non fosse stata preceduta da una serie così negativa. Nel momento in cui le condizioni sono più propizie per una buona accoglienza della fede nella vita pubblica e, vedremo, anche sulla scena politica, la Chiesa ripiega sui suoi dogmi, li ripropone nella veste più dura, trincerandosi in una disperata difesa.
Perché criticare allora i laici? Perché azzardare l’idea di un loro fallimento? Perché proprio loro, dal momento che non posseggono, o non dovrebbero possedere, un bagaglio dogmatico come quello di Ratzinger, hanno il compito di produrre le condizioni di un’accoglienza della vitalità spirituale delle persone di fede nella società organizzata e nelle sue istituzioni. Se è comprensibile il tunnel mentale in cui s’infila il religioso, sospinto dagli assoluti della rivelazione, non è comprensibile che il laico cada in una trappola speculare e che gli sfugga il nuovo scenario plurale. Se il religioso non coglie paradossalmente quel che c’è di nuovo nel bisogno di religione delle società contemporanee e non riesce a trovare risposte alla sfida odierna del pluralismo, è imperdonabile che non lo riesca a fare il laico. Ha ragione chi ha detto che «non capire il potere della religione significa non essere in grado di comprendere il mondo moderno».1 Queste parole le ha pronunciate un leader politico che ha saputo accumulare un enorme capitale di consensi, vincendo per tre volte le elezioni politiche in Gran Bretagna: Tony Blair. È vero che lo stesso premier britannico ha poi consumato buona parte della sua credibilità nel sostegno alla guerra in Irak, ma un accento di moralità e un progetto di «rimoralizzazione» della politica aveva attraversato tutto il ciclo vincente del New Labour.2 So che solo a sentirne parlare i nostri guerrieri si alterano. Ma questo è appunto un problema che vorrei aiutarli a superare.
La religione ha risorse sociali e coesive essenziali, ha una dotazione di quel «capitale sociale»3 che va declinando in tutto il mondo occidentale. Si tratta di capacità il cui valore aumenta in ragione della loro scarsità crescente a causa dei cambiamenti economici e sociali come la trasformazione delle vecchie organizzazioni industriali che producevano addensamenti umani più omogenei, identità sociali e culture del lavoro, sostituite poi dalla frammentazione e dalla precarietà dell’occupazione. Sono diverse le cause di questa scarsità, ma risulta evidente che la risorsa religiosa aumenta di peso relativo. Se le ideologie e le culture politiche (socialisti, socialdemocratici, comunisti, cristiano-sociali) che una volta godevano di una formidabile capacità di aggregazione sono enormemente indebolite o azzerate, è quasi una conseguenza naturale che il vuoto venga occupato da «altro».
I concorrenti più seri a questo «altro» sono la cultura scientifica, i debolissimi tentativi, di destra e di sinistra, di sostituire alla vecchia una politica nuova con una sua struttura culturale e con una identità; sono gli sforzi di produrre una versione del liberalismo attraente e capace di presentarsi non solo in una veste di indifferente neutralità, sono i tentativi di far crescere una opinione pubblica più competente, istruita e meno preda della propaganda, del populismo, meno ipnotizzata dalla comunicazione di massa. Si capisce che in questa scena pubblica, resa più pallida dall’eclissi delle ideologie forti, la religione è destinata ad acquistare maggiore rilevanza.
Ha diversi buoni argomenti chi vede in questa situazione il rischio che la discussione pubblica – e poi, in fin dei conti, la stessa vita parlamentare – finisca per essere risucchiata, sempre più esclusivamente, dal contrasto diretto, senza mediazioni, tra le ragioni della scienza e quelle della fede, come ai tempi di Galileo.4 Se questa fosse l’ultima spiaggia, il laico, di qualunque genere, non avrebbe scelta. Ma non è bene che finisca così, perché la democrazia moderna non è questo; la riduzione delle problematiche sociali ed etiche (la famiglia, la nascita, la morte) dentro il perimetro di un conflitto tra sapere e Chiesa, tra tecnocrazia e clero, è la fine della modernità democratica, la colonizzazione della sfera pubblica, la morte dell’opinione libera.
Così accade se la politica si impoverisce di ideologia, di credibilità e, semplicemente, di idee. Si tratterebbe di un temporalismo di ritorno per assenza di competitori.
Il laico, il «guerriero immaginario» ha temprato la sua visione del mondo nella lunga e meritoria guerra di posizione contro il clericalismo, e tende a prolungare indefinitamente nel futuro il suo destino guerriero. È vero che il clericalismo qualche preoccupazione la dà, e non di poco conto. Ma quel che il nostro «guerriero» non vede è che non si tratta più di una battaglia per la difesa della «sovranità dello Stato», come nei momenti cruciali della «questione cattolica», dalla presa di Roma ai Concordati – che appare fondamentalmente conclusa –, ma di un conflitto permanente e aperto su diverse interpretazioni delle libertà individuali che animano il confronto tra le parti politiche e che vengono variamente utilizzate nella competizione per il voto, attraversando gli schieramenti in un gioco mutevole e aperto. Vedremo come questo gioco funzioni negli Stati Uniti e come in Europa.
Il nostro guerriero laico vede il campo di battaglia diviso tra poteri della religione e poteri dello Stato laico. E basta. Non ha neppure cominciato a considerare le cose diversamente: ci sono terreni contesi tra molteplici forze e, per di più, molte delle schiere, più o meno armate, dei credenti si presentano come un possibile alleato contro nuove e diverse minacce: economiche, sociali, morali.
Il «guerriero laico» è per lo più un progressista, è un liberal, nel senso americano della parola: è favorevole al diritto della donna di decidere per l’aborto, difende i diritti degli omosessuali, si batte per la libertà di ricerca sugli embrioni e così via. Non che manchino posizioni trasversali, conservatori abortisti, progressisti contro l’aborto ecc., ma la percezione pubblica dei ruoli prevalente in Italia è che le ali, specie le estreme, sono fortemente caratterizzate: sinistra pro Stato laico, destra pro Chiesa. Questa polarizzazione tende a distribuire le parti in un modo che si sovrappone al dibattito politico. E se i liberals non corrono ai ripari, come ha saputo fare Obama in America, succede che la loro parte politica viene percepita dagli elettori come non affidabile in termini di moralità e di rispetto per i credenti. E la maggioranza la conquistano i passionate conservatives con le loro strategie internazionali (Irak) e interne (taglio delle tasse ai ricchi).
Così il nostro «guerriero immaginario», specie se progressista, combatte nel nome di una plurisecolar...